In Terra Santa il mese di Agosto è stato caratterizzato da un clima di feroce intolleranza, l’ennesima escalation di violenza e terrorismo, nel nome del fondamentalismo più cupo. Lo scorso anno gli occhi del mondo erano puntati sulla orribile guerra di Gaza che volgeva al termine. Ad un anno esatto di distanza nella Striscia la vita scorre tra un blocco paralizzante, il dominio di Hamas, la paura di una nuova guerra, gli effetti mortali degli ordigni inesplosi e il lancio di razzi in Israele. Gaza 2015 è segnata dalle cicatrici della guerra, ferite che non si rimarginano, ma lasciano un segno fin troppo visibile. Nel 2020 Gaza sarà un posto non più vivibile e allora il problema sarà evacuare oltre 3 milioni di persone, questo secondo uno studio pubblicato recentemente. “Ad oggi è in atto una vera e propria emergenza idrica, senza precedenti, siamo al livello di carenza assoluta.” A parlare è Vincenzo Racalbuto direttore dell’ufficio per la cooperazione allo sviluppo a Gerusalemme (UTL), medico e una lunga esperienza in questo campo. Racalbuto è a capo di un team tecnico con uno staff che varia tra le 15 e le 20 persone: consulenti, espatriati e personale locale. “Mettiamo in pratica gli impegni che l’Italia ha preso.” Decine di milioni di euro in aiuti internazionali dell’Italia alla Palestina. La cooperazione allo sviluppo riveste una funzione centrale nell’elaborazione di riforme, processi e programmi per alleviare la povertà, sviluppare l’economia, migliorare i servizi sanitari e promuovere il dialogo tra i popoli: “Il coordinamento con gli altri donatori internazionali avviene su due livelli: uno è il cluster settoriale e l’altro è un coordinamento europeo tra i vertici della cooperazione. È uso incontrarsi ogni due settimane, l’obiettivo è raggiungere per l’inizio del 2017 una programmazione congiunta. È una bella sfida da realizzare.” Intanto a Gaza la macchina della ricostruzione manifesta una certa lentezza dovuta anche ad un processo di riconciliazione tra le due principali fazioni politiche palestinesi mai realmente avvenuto: Ramallah e Gaza sono lontane, non solo geograficamente. Dire che lo Stato della Palestina è diviso in due entità autonome e indipendenti è una mezza verità, la cartina della Cisgiordania è una mappa amorfa, una superficie senza continuità territoriale, con un muro di separazione che avvolge i grandi centri urbani palestinesi e li separa dalle aree denominate C, che in base agli accordi di Oslo sono sotto la completa autorità israeliana. Le comunità palestinesi in area C sono tra le più vulnerabili della West Bank. Demolizioni e sgomberi forzati privano le persone delle loro case e dei mezzi di sussistenza, creando un contesto di povertà radicata e una sempre maggiore dipendenza dagli aiuti. A partire dal 2008 la cooperazione italiana in collaborazione con il Ministero della Salute palestinese porta gli aiuti in tali zone con il progetto dal titolo “Miglioramento della qualità della vita delle fasce più vulnerabili della popolazione nell’area meridionale del Distretto di Hebron”. Stefania Caratti è a capo del progetto. È una cooperante italiana e lavora per la Ong Disvi. “L’obiettivo del nostro intervento è di offrire alla popolazione residente nell’area C servizi sanitari di base di cui erano totalmente privi.” I villaggi coperti dal progetto sono 19, i beneficiari diretti sono circa 30 mila. Il progetto utilizza tre cliniche mobili complete di personale sanitario palestinese e di attrezzature. In piccoli ambulatori o in tende, vengono erogate le cure sanitarie e farmacologiche: somministrando le vaccinazioni d’obbligo, eseguendo il controllo delle gravidanze anche con esami strumentali, fornendo le cure pediatriche, promuovendo l’educazione sanitaria. La Caratti racconta: “Osservare i disagi di questa popolazione è sempre molto doloroso, ma quello che mi ha veramente sconvolto è stato un episodio capitato recentemente. Mentre mi dirigevo ad un villaggio ho incontrato un convoglio di ruspe e mezzi militari. Erano di ritorno dalla distruzione di un poverissimo villaggio nel deserto. Avevano demolito tutto, rasando al suolo scuola, moschea, case e ambulatorio. Non potrò dimenticare i volti della gente. Erano seduti per terra ai bordi delle macerie, accanto i fagotti delle poche cose che avevano potuto salvare. Nei loro occhi si leggeva l’impotenza, l’umiliazione.” In questo quadro il sistema della cooperazione rappresenta un esperienza unica nel suo genere, non solo per le risorse economiche convogliate nei vari settori ma, soprattutto, per il suo volto umano atto a ridurre le sofferenze. Incontrando, conoscendo, parlando con i palestinesi si ha “la percezione di una popolazione che comunque sa sfruttare al meglio le poche risorse disponibili, che saprebbe creare migliaia di imprese, posti lavoro e sono sicuro che possono farcela.” La speranza di Racalbuto nasce dall’obiettivo della cooperazione ovvero creare una prospettiva di normalità per i palestinesi.