La striscia di sangue a Gaza e l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme hanno inasprito le relazioni tra Turchia e Israele. Lo scambio di accuse, il teatrino dell’espulsione dei diplomatici, umiliati ed esposti alla gogna mediatica, lo stallo dell’ONU e la recente riunione d’emergenza dell’Organizzazione per la cooperazione islamica danno il senso dell’agonismo geopolitico in campo. Recep Tayyip Erdogan punta a diventare la sintesi delle diverse anime dell’islam, e fare della Turchia la più grande potenza, non araba, nella regione. Per raggiungere il suo obiettivo sventola la bandiera di Al-Quds, la Gerusalemme araba, ergendosi a difensore dei fratelli sunniti palestinesi con l’obiettivo di isolare Israele. L’ambiziosa strategia del leader turco è tuttavia frenata da Egitto e Arabia Saudita, riguardevoli alle apprensioni, pressanti, della Casa Bianca. Erdogan è convinto di uscire vittorioso dalle prossime elezioni, anticipate a giugno, e a quel punto monopolizzare il potere, presentandosi quale leader supremo del Medioriente, con o senza l’esplicito appoggio di Washington.
Erdogan è un personaggio complesso, repentino nel cambiare gli amici in nemici giurati, come accadde con l’imam Fethullah Gulen e il presidente siriano Bashar al-Assad. Spietato persino con gli alleati, il delfino Davutoglu ha pagato la troppa notorietà ed è finito esautorato. È uno dei leader mediorientali più importanti e controversi, sfrontato nel caso della crisi tra i Paesi del Golfo: mentre offriva le credenziali di mediatore al di sopra delle parti ordinava l’invio di militari in difesa del Qatar. Diffida apertamente della Merkel, ricambiato, e dei paletti dell’Unione europea, posizionati un po’ alla rinfusa e ai quali risponde con la costante minaccia di riversare milioni di profughi alle frontiere. Ambiguo, volutamente, con l’Iran. Fedele, per ora, al matrimonio con Mosca, in un asse saldato da cooperazione energetica e militare. Mai amico dei curdi, impegnato in una pulizia etnica senza confini che dalla Siria potrebbe spostarsi fino all’enclave irachena.
Sul piano interno Erdogan ha prima dato benessere e sviluppo al Paese, quando è stato sul punto di traslocare nel condominio europeo ha buttato all’aria i risultati ottenuti esercitando il suo mandato in modo autoritario e illiberale, dimostrandosi un dittatore democratico e populista. Oggi però l’economia del Bosforo, nonostante i dati rassicuranti sulla crescita del Pil dei primi mesi del 2018, non è più quella del passato. Gli analisti prevedono un trend negativo, dovuto a vari fattori concomitanti: svalutazione della lira turca, inflazione e crescita dei tassi d’interesse, aumento dei costi delle materie prime ed esposizione del sistema bancario ad una fuga degli investitori. In piena campagna elettorale è stato accolto nella Londra della Brexit con il tappeto rosso dalla Lady May, ma bocciato dalla City per l’intenzione di mettere sotto controllo la Banca Centrale. Il Sultano di Istanbul ha sfidato l’Europa anche da dentro, appellandosi ai milioni di turchi che vi vivono. Germania, Belgio, Olanda e Austria hanno bandito i suoi comizi. E lui per rafforzare il tour elettorale ha scelto i Balcani e la piazza di Sarajevo, il cuore esplosivo di tanti conflitti disastrosi, dove unire idealmente i musulmani bosniaci e turchi nella conquista non delle mura di Vienna ma dei palazzi di Bruxelles. L’offensiva balcanica di Erdogan è da tempo in atto, miliardi di investimenti hanno riguardato Albania e Macedonia. Ha fatto costruire moschee e aprire scuole coraniche, seguendo un modello (quello dei centri culturali imam hatip dove si è formato lui stesso) che vorrebbe esportare dall’Italia alla Norvegia.
Cresciuto a Kasimpasa in un quartiere difficile di Istanbul, i residenti della zona sono comunemente associati ad un caratteristico comportamento spavaldo, ha sempre mostrato un atteggiamento arrogante: prima nel disprezzo per la èlite kemalista, laica e benestante, poi nel deridere i richiami dell’Europa ai diritti fondamentali e infine, nell’odio per Israele.
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FRANCESCO NELLA GERUSALEMME DELL’EST
Appunti di un viaggio in modalità Bergoglio. Papa Francesco nei Balcani. In Bosnia ed Erzegovina, nella Gerusalemme dell’Est. Un viaggio veloce, tecnicamente, solcando un cielo vicino. Nei primi anni novanta troppo vicino per comprendere cosa sia successo per quattro lunghi anni, senza che nessuno si alzasse davvero e urlasse al tradimento di tante verità. Pagate col sangue, da gente spesso innocente. Sarajevo apparirà bellissima a Francesco, come è sempre stata. Multietnica e multireligiosa. Ricca e segreta. Ricostruita e ora al lavoro per riaffermarsi. Il prezzo pagato da tutti merita un adeguato ritorno alla completa dignità. Per tutte le genti che abitano queste terre. Un viaggio comunque importante quello di Bergoglio perchè a pensarci con onestà intellettuale, l’Inferno di Sarajevo pare lontano nel tempo. Eppure sono passati solo venti anni dalle fine dell’ultimo conflitto che ha avuto luogo in Europa, in queste terre di confine. Dove identità e diversità sono condizioni culturali e non geografica. E la convivenza tra cristianesimo e islam è storia di un modello di coesistenza “armonico” spesso calpestato. In questo suolo, ora estremo oriente, ora cuore dell’occidente e ora al “centro del nulla” ha avuto luogo un esempio di inciviltà e assurda barbarie. Cristiani contro musulmani. Cattolici contro ortodossi. Ebrei in fuga. La federazione slava implosa nel sangue. Nel nome della vendetta, della razza, dell’etnia e della religione venivano compiuti immani carneficine, mattanze. Anziani e bambini uccisi, donne stuprate. Il simbolo della drammatica guerra che spazzerà via dalle cartine geografiche la Jugoslavia è l’assedio di Sarajevo. Quattro anni di terrore assoluto per i suoi cittadini. È il più lungo assedio della storia contemporanea. 12 mila morti. Decine di migliaia di feriti e invalidi di guerra. Vittime ignorate per troppo tempo dal resto del mondo. Sarajevo ha rischiato di scomparire sotto i bombardamenti. Ostaggio dei cecchini e dei criminali di guerra. In quei tragici giorni il terrorismo dei singoli e degli stati, l’ideologia nazionalista e la post ideologia comunista, costruiva, tra le montagne e nella conca di questa capitale europea, il nido dell’integralismo moderno. La fine era ad un passo. Ma poi Sarajevo si è salvata, è tornata a vivere con la speranza di vedere, finalmente, una Europa multiculturale, cosmopolita. Al di là di ogni differenza, tutti in una sola cosa. Il significato del viaggio apostolico di Papa Francesco è nelle parole inviate con un video messaggio alla comunità cattolica di Bosnia, circa mezzo milione di fedeli: “Vengo tra di voi per sostenere il dialogo ecumenico e interreligioso. Per incoraggiare la convivenza pacifica.” Unità degli esseri umani, contro la divisione, per realizzare la pax universale nel segno della dottrina internazionale di Papa Francesco. Il Pontefice della mediazione, colui che vuole edificare i pilastri di un ponte duraturo tra Oriente e Occidente. Aggirando i protocolli diplomatici e sbalordendo l’opinione pubblica con gesti inusuali alla sua carica, Francesco avvicina le diversità. Evita il paradigma dell’incomunicabilità con la pratica comune a tutte le religioni, la preghiera: così come avveniva un anno fa nei giardini del Vaticano durante lo storico incontro tra il leader palestinese Abu Mazen e quello israeliano Shimon Peres. Concludendo con successo il percorso iniziato giorni prima con il pellegrinaggio in Terra Santa. I segreti della strategia di Francesco sono la semplicità del messaggio e il valore dell’amicizia. Il raccoglimento congiunto e appello a Dio. Nel rispetto dell’altro e delle sue tradizioni. Per sciogliere il nodo gordiano della contrapposizione, della diffidenza e dell’incomprensione eterna. “Operate per una società che cammini verso la pace, nella convivialità e nella collaborazione reciproca” l’invito di Francesco prima di partire per questo delicato viaggio. In una terra dove sventolano le bandiere nere dello stato islamico e dove la jihad trova terreno fertile per reclutare le sue milizie del terrore.