Il 13 marzo di quest’anno moriva a Gerusalemme Lia Van Leer fondatrice delle Cineteche di Haifa, Tel Aviv e naturalmente della Cinematheque della città Santa. Un luogo incredibile sotto le mura della città Vecchia, a pochi passi dalla Piscina del Sultano, lungo il pendio della valle della Gehenna. Al numero 11 della Hebron road si trova il cinema più famoso di Gerusalemme. Situato proprio nel tracciato della linea verde che un tempo divideva israeliani e palestinesi. Una linea non immaginaria, un solco fra culture e società sfumato ma ancora oggi presente. Durante la seconda Intifada i palestinesi di Gerusalemme difficilmente si recavano in locali nella parte Ovest e gli israeliani evitavano quella Est araba. La Cinematheque era zona neutrale, in pieno Shabbat era possibile vedere in coda per una proiezione insieme palestinesi ed israeliani. La stessa cosa accadeva ai tavoli della caffetteria oggi ristorante rinomato. Impossibile per chi ha frequentato quel luogo non aver incontrato Lia. A passo lento, sorretta dal bastone, con abito lungo dai colori smorti, foulard di seta, occhi profondi e capelli bianchi. Sempre elegante, sapeva attirare l’attenzione e cinematograficamente riempiva la scena. Era la vera regista della promozione della cultura israeliana e non, con un occhio al passato e aperta al futuro. Raccontava aneddoti di Marcello Mastroianni e rideva parlando di Benigni. Ha combattuto, e vinto, le sue battaglie contro il settarismo degli ortodossi, lei con una concezione laica del mondo. Non si è piegata nemmeno alle minacce. Ha speso la sua vita lavorando per il cinema. Un cinema di qualità come quello che un altra grande donna, Daniela Meucci, scomparsa prematuramente, ha contribuito a diffondere a Pisa. Daniela ha dato vita ad un laboratorio di cultura unico, il cineclub Arsenale. Fondatrice, assieme ad Alberto Gabrielli, di un piccolo grande cinema nel quartiere di San Martino a pochi metri dalla riva sud dell’Arno, nello stretto vicolo Scaramucci, tra le mura medievali dell’edificio dove decine di attori, registi di fama nazionale ed internazionale hanno fatto la passerella in questi anni. E Daniela era li ad accoglierli, così come faceva con il pubblico. L’abbiamo vista tutti in biglietteria a distribuire tagliandi. La ricorderemo prendere il microfono e presentare le serate. Abiti casual, di poche parole ma quelle adatte. Attivista dei valori universali, strenua difensore dei diritti del popolo palestinese a cui ogni anno dedicava un programma speciale. Facendo attenzione a rendere l’evento un momento di riflessione e discussione sul conflitto in atto in Medioriente. Un’amica che sapeva ascoltare, che chiedeva suggerimenti, che proponeva progetti. Ha sofferto momenti difficili, il declino delle sale cinematografiche e i tagli alla cultura eppure, non si è mai arresa. Intellettuale, donna forte e tenace. L’ultimo riconoscimento lo scorso anno quando ritirò a Mantova il prestigioso premio per il miglior cinema d’essai d’Italia. Meritato, strameritato. Per ricordarla e omaggiarla ci sarà sempre l’Arsenale.
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Che la terra ti sia lieve, Rav Toaff
Si è spenta alla soglia dei cento anni una luce, quella di un grande italiano. Uno dei più illuminati personaggi dello scorso secolo. Era Elio Toaff. Rabbino capo per mezzo secolo della comunità ebraica di Roma. È stato uno dei più illustri toscani del secolo breve. Nato e cresciuto a Livorno. Laureato a Pisa. Partigiano in Versilia. Religioso e antifascista. Nel dopoguerra ebbe il difficile e lungo compito di “ricostruire” i rapporti tra ebrei e cristiani in Italia, riportando nella comunità ebraica italiana la fiducia per il Paese che con l’introduzione delle scellerate leggi razziali e l’abominio dell’alleanza con i nazisti aveva tradito e abbandonato i propri cittadini di fede israelita. Uomo del dialogo. Seppe, tra difficoltà politiche e culturali, aprire un nuovo capitolo della storia dell’ebraismo italiano. Fu lui ad organizzare (volere) la visita storica del Pontefice Giovanni Paolo II nella Sinagoga di Roma, quel gesto è il riconoscimento inequivocabile, dopo duemila anni, della fine dell’ostracismo, ottuso e antisemita, della chiesa nei confronti degli ebrei. Non mancò talvolta di essere critico nei confronti della politica, sia di quella italiana che israeliana. Per noi resta un esempio morale, un maestro che sapeva diffondere serenità e pace. Delle tante cose che si sono scritte e dette di Elio Toaff, tra tutte merita ricordare a pochi giorni del 25 aprile, quelle pronunciate da lui stesso il 19 ottobre del 2006, in Sapienza a Pisa prima di ricevere il “Campano d’Oro”, conferito dall’Associazione dei laureati dell’Ateneo pisano, dove volle ricordare Lorenzo Mossa, il docente che gli consentì di laurearsi nonostante le leggi razziali. Di seguito le parole pronunciate a braccio da Elio Toaff.
“Sono veramente molto commosso per la manifestazione di stima e di affetto che avete voluto concedermi. Io non so come potrei contraccambiare questo sentimento che voi oggi mi fate sentire così caldo e così pieno di stima e allora vi dirò che, entrando nell’Università in cui ho passato momenti felici e anche momenti dolorosi, ho rivissuto l’atmosfera indefinibile che nell’Università di Pisa si sente, che è ancora qualche cosa di vivo, qualche cosa che mi sorprende per la profondità del sentimento. Quando sono entrato in questo luogo, dico la verità, non avevo provato niente che mi attirasse, che risvegliasse qualche cosa nel mio intimo, che veramente mi facesse sentire a casa mia. Ho sbagliato: perché poco dopo mi sono sentito a casa mia, ho sentito veramente, attraverso le vostre espressioni e l’applauso che mi avete tributato, che c’è qualche cosa che ci lega, come il ricordo del professor Lorenzo Mossa, a cui debbo molto. Nel 1938 nessuno voleva assegnarmi la tesi di laurea e quindi non avrei potuto laurearmi. Allora il professor Mossa mi invitò a casa sua e mi chiese: ‘Lei ha abbastanza coraggio?’. Risposi: ‘Penso di sì’. Allora Mossa propose: ‘Guardi, potrebbe fare una tesi sul conflitto legislativo in Palestina fra la legislazione ottomana, quella inglese e quella ebraica’. Io accettai e così feci la mia tesi di laurea. Alla discussione, con Mossa, c’erano un altro professore di cui non ricordo il nome e il presidente della commissione Cesarini Sforza. Mossa mi presentò dicendo che avrei parlato di un paese che si stava avviando ad avere un destino felice e continuò su questo tono. A un certo punto, Cesarini Sforza si tolse la toga, la gettò sul tavolo e se ne andò. Io guardai stupito Mossa, non sapendo come si potesse procedere, e lui reagì a quello sguardo dicendo: ‘Vabbé, si farà in due, è lo stesso’. Così continuammo la discussione della tesi di laurea e alla fine lui mi propose: ‘Guardi 110 non glielo posso dare, si accontenta di 105?’. ‘Anche troppo’, replicai io. E lui: ‘Allora le darò 103!’. Accettai felice. Questi sono ricordi che non si possono cancellare e che si conservano per tutta la vita, finendo per far parte della stessa personalità di un individuo. Per questo debbo riconoscere che entrando in questa Università – ma non in quest’Aula dove non ero mai stato perché mi tenevano fuori – ho sentito risvegliare qualcosa in me, cioè il ricordo di quegli insegnanti che, al di là di ogni pregiudizio razziale, mi avevano trattato come tutti gli altri allievi. Una volta, quando andavo dal professor Mossa, gli raccontai quello che mi era capitato durante il viaggio che facevo da Livorno per venire all’Università a Pisa. Alcuni giovani fascisti mi avevano fermato, mi avevano fatto distendere in uno scompartimento, mi avevano spogliato e avevano scritto delle frasi ingiuriose sulla mia pancia. Gli mostrai le scritte e lui ribattè: ‘Non lo cancelli! Si faccia fotografare, perché questo oltraggio deve rimanere per dimostrare fino a che punto si può arrivare con la politica’. Era questa la politica che il fascismo insegnava ai giovani e questo il modo con cui essi dovevano comportarsi con gli ebrei. Bene, io possiedo ancora quella fotografia, perché mi sono sempre detto che non avrei mai dovuto dimenticare. In questo mio breve ricordo, posso però aggiungere un episodio di segno opposto, legato al custode della Sapienza. Un giorno mi vide entrare e poco dopo mi affrontò chiedendomi di seguirlo. ‘Venga con me e non faccia discorsi’, disse con tono perentorio. Mi portò in uno stanzino, mi chiuse all’interno con le chiavi e mi disse: ‘Le spiegherò’. Solo dopo un’ora il custode si decise finalmente a riaprire. ‘Non mi ringrazia nemmeno?’, chiese. Veramente io non vedevo alcuna ragione per ringraziarlo di avermi rinchiuso in uno sgabuzzino. Ma lui si spiegò: ‘lo sa perché l’ho rinchiusa? C’erano quattro fascisti che erano venuti a prenderla’. Fu una dimostrazione di fratellanza che non mi sarei aspettato e debbo dire che nel dopoguerra ho avuto modo di sdebitarmi con lui. Il custode era ormai anziano, aveva lasciato il posto di lavoro e se la passava male, così cercai di fare in modo che se la passasse un po’ meglio.
In conclusione voglio ringraziarvi per avermi dato la possibilità di ricordare pezzi della mia vita qui con voi, in modo semplice e immediato, senza fare un discorso con la ‘d’ maiuscola. Ho solo voluto parlare come uso fare di solito, senza salire in cattedra, cercando di arrivare con quelle espressioni che, uscendo dal cuore, entrano nel cuore”. Che la terra ti sia lieve Rav Toaff.