In Sudafrica è il giorno dedicato alla memoria di Mandela, il 18 luglio l’uomo che ha incarnato la resistenza al segregazionismo dell’apartheid avrebbe compiuto 100 anni. A cinque anni dalla sua morte, da Pretoria a Città del Capo, il Sudafrica è un Paese ancora profondamente diviso. I nove anni di presidenza Zuma sono stati contrassegnati da ripetuti scandali, tra accuse di corruzione, evasione fiscale, appropriazione indebita, stupro e nepotismo. La lista è voluminosa e il braccio di ferro con la magistratura è un libro aperto. Affermazioni insensate come quella che fare una doccia dopo il sesso “riduce al minimo i rischi di contrarre HIV”, politiche populiste, sconfinamento dei vincoli del proprio mandato hanno generato lo svilimento delle istituzioni e un declino della fiducia per lo storico partito di Mandela. Il sistema Zuma ha prodotto una “democrazia imperfetta”, mal governata e sopportata.
Le rivelazioni su legami poco chiari con clan spregiudicati, il caos di molte imprese statali, la caduta di Mugabe in Zimbabwe, la crisi energetica e quella idrica, la sconfitta alle amministrative del 2016, hanno convinto, lo scorso dicembre, i dirigenti del movimento ANC a dare la spallata definitiva a Zuma. Sostituendolo, a febbraio, con una figura che richiamasse alle nobili origini, che conoscesse le dinamiche del palazzo e, allo stesso tempo, fosse in aperto dissenso con la cerchia dell’ex premier. La scelta è andata su Cyril Ramaphosa, già al governo durante le violente repressioni delle manifestazioni sindacali a Marikana nel 2012. Eletto al congresso del 2017 dell’ANC, incaricato di traghettare la nazione e il partito alle elezioni del prossimo anno. In Sudafrica la situazione è, tuttavia, poco ottimistica, il 47% della popolazione è in povertà, la disoccupazione è al 30, circa l’80% delle terre appartiene alla minoranza bianca, alto tasso di criminalità, l’inflazione è al 7, il costo del carburante e dei generi alimentari è in crescita, la concentrazione delle ricchezza è a livelli pre-apartheid, le multinazionali che estraggono minerali hanno fatturati del 300% e le condizioni salariali degli operai restano basse. La classe media nera è stata assimilata da quella bianca e ora ne condivide i privilegi. Una borghesia esigua e ambiziosa, non in grado di essere un reale cuscinetto sociale.
Per 10 mila giorni Mandela è stato privato della libertà. Rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, dove ha scontato gran parte della pena in isolamento, alla porta della impresso il su numero 466/64, costretto ai lavori forzati e a punizioni corporali. Era nato nel villaggio della tribù degli xhosa di Mvezo a Rolling Hills, è sepolto a Qunu. Si è battuto contro un regime razzista e i pregiudizi, come un “invincibile”.
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MANDELA DUE ANNI DALLA MORTE
Era il 5 dicembre 2013. Sono passati due anni dalla morte di Nelson Mandela che nell’ultimo periodo aveva abbandonato ogni carica politica, ritirandosi a vita privata, una scelta fatta con la naturalezza di un leader dal carattere invincibile. Non erano mancate le critiche che lui stesso ammise in parte essere fondate. È stato accusato di essere stato troppo autoritario in talune decisioni; di essere stato lento nella lotta all’HIV; di non aver saputo frenare un sistema dilagante di corruzione e di essersi fidato troppo delle persone a lui vicine. Resta innegabile che sotto la sua presidenza gli investimenti pubblici per il welfare sono aumentati esponenzialmente. Nel quinquennio di governo Mandela ha introdotto la parità nell’assegnazione di borse di studio, di invalidità e le pensioni di vecchiaia, con il suo mandato da presidente è migliorato il tasso di scolarizzazione, sono state costruite migliaia di abitazioni per i poveri. Ha voluto l’istituzione del tribunale straordinario per la riconciliazione (e la verità), presieduto dall’Arcivescovo Desmond Tutu, con il compito di raccogliere le testimonianze delle vittime dell’apartheid, dove, alla fine del procedimento, la corte sentenziò l’amnistia per oltre mille persone. L’esempio di Mandela è la lezione di un uomo che ha piegato la storia, cambiato il destino di un popolo e in parte del mondo: il simbolo della lotta alla segregazione razziale, il prigioniero politico più famoso della storia. Eppure oggi guardando il Sud Africa quel ricordo è sfumato, nuove ombre incombono sullo stato più meridionale dell’Africa, la paura, l’incertezza per il futuro si diffonde tra la gente. Il divario tra ricchi e poveri è cresciuto in modo insostenibile. Nelle colline tra Pretoria e Johannesburg sorgono splendide ville dai giardini con palme e prati all’inglese, fontane e piscine. Nei garages sono custodite auto di lusso. Le abitazioni sono protette da allarmi, il filo ad alta tensione scorre lungo le mura e le pattuglie di polizia privata perlustrano continuamente la zona. Poco lontano gli slams e le township. Strade polverose, distese di baracche di lamiera dove vivono ammassati in migliaia e lunghe file di latrine pubbliche. Acqua ed elettricità scarseggiano, gli allacci sono abusivi e temporanei. La criminalità minorile è altissima. È comune che la rabbia sociale esploda, violenza bieca, atti di razzismo contro coloro che sono giunti in Sud Africa nella speranza di un futuro migliore. L’odio del povero è rivolto al più povero e al più indifeso. Le baracche vengono incendiate, le persone linciate. È il fallimento politico dell’ANC e del suo presidente Zuma, al centro di numerosi scandali per corruzione e sperpero di denaro pubblico. Il malcontento cresce. A canalizzare la protesta è un nuovo movimento politico, l’Economic Freedom Fighters, nato da una costola del partito di Mandela e che propone espropri dei terreni e la nazionalizzazione delle miniere, secondo il modello dello Zimbabwe di Mugabe. È l’incubo dei bianchi. Intanto gli estremisti di destra tornano a rilanciare l’idea di uno stato autonomo e il ritorno al sistema di apartheid. Il Sud Africa rischia di sprofondare. E l’eredità di Mandela non può essere raccolta come ci ha detto l’attivista per i diritti umani Sipho Mthathi e direttrice di Oxfam Sud Africa in una lunga intervista: “Mandela è stato l’eroe, il simbolo della lotta al razzismo, idealizzato e mitizzato dalla nostra gente. Poi, successivamente, per “riconoscimento” di questo suo passato ruolo è stato, caricato di una responsabilità che pochi avrebbero voluto avere, investito alla guida del processo di transizione del nostro paese, una fase politica molto delicata e controversa della nostra storia. Secondo molti la mancata ridistribuzione delle risorse alla fine dell’apartheid dei bianchi resta il vero problema irrisolto da Mandela. Ventuno anni dopo la proclamazione della nuova costituzione la maggioranza della popolazione è ancora esclusa da una ridistribuzione equa delle risorse, dalla partecipazione alle ricchezze minerarie e dalla produzione dei beni. Il fatto che sia emersa in questi anni una nuova classe media “black”, di cui faccio parte, non può essere preso come un risultato, non è un indicatore di una trasformazione progressista, le disparità sussistono e si accrescono. Basta guardare il livello della disoccupazione anche tra coloro che hanno accesso all’istruzione. L’attuale classe politica è complice della formalizzazione di una struttura sociale che preserva l’accumulo di ricchezze nelle mani di una élite. Abbiamo bisogno di una classe politica in grado di guidare il paese attraverso le complessità del momento. Partendo dal presupposto che non ci sarà mai un altro Mandela, a prescindere da quello che si possa pensare di lui. Oggi spetta a noi alzarci e rivendicare i nostri diritti.” Il grido di verità risuona: “Amandla!”. E l’Africa risponde: “Awethu!”