In Medioriente questa settimana si prefigura calda, non è una novità. Le notizie di cronaca riportano dell’operazione militare israeliana lanciata su vasta scala a Jenin in queste ore. L’acceso dibattito politico dei passati giorni lascia il posto al diario di guerra, che si prende la scena.
Passa in secondo piano la testimonianza maratona, al processo che vede imputato il primo ministro israeliano per abuso d’ufficio, del magnate Arnon Milchan. Storia di un’amicizia che includeva una serie di omaggi ai Netanyahu, trasformatesi nell’arco del tempo in richieste regolari: «una routine». Talmente frequente che con i Netanyahu Milchan aveva messo a punto un codice per ciascuna tipologia di regali: i sigari pregiati chiamati “foglie” e “rose” erano le bottiglie di champagne, mentre alla richiesta di camicie di lusso corrispondeva il termine cifrato di “nani”. Il noto tycoon dell’industria cinematografica ha ammesso di aver incaricato uno dei suoi collaboratori di mettere a disposizione dei Netanyahu: «tutto ciò che vogliono». E di essersi reso conto, in seguito all’apertura dell’inchiesta, che i doni, per un valore stimato di 700mila shekel, erano diventati “eccessivi”. «A volte le foglie erano di mia iniziativa. Altre [Netanyahu] mi chiedeva: Ehi hai mica delle foglie a casa? E rose?». Milchan, che per motivi di salute partecipa all’udienza in remoto dall’Inghilterra, ha sottolineato di non aver commesso nulla di illegale e, soprattutto, di non essere mai stato obbligato. I magistrati invece ritengono che Netanyahu abbia fatto pesare le proprie influenze per far ottenere all’amico l’estensione della visa negli Stati Uniti, accusa smentita da Milchan. Il quale tuttavia ha potuto beneficiare della normativa introdotta nel 2013 dal governo Netanyahu sulle agevolazioni fiscali per i redditi all’estero dei cittadini israeliani, che la stampa ribattezzò laconicamente “legge Milchan”.
I problemi legali del leader del Likud sono intrecciati a doppio filo alla divisiva riforma della giustizia avanzata dal suo esecutivo. Una revisione del sistema giuridico concepita con l’esplicito intento di smantellare “l’ingerenza” della Corte Suprema sul potere politico. Progetto che non piace ad una larga fetta degli israeliani, che da ben 26 settimane è sul piede di guerra per impedire il suo concepimento. Manifestazioni partecipate nelle piazze e presidi sotto casa dei ministri. Insomma, una protesta persistente ed insistente che ha costretto Bibi a zigzagare nel procedere nel suo azzardato attacco alla democrazia, tra brusche frenate e repentine accelerate. Netanyahu intervistato dal Wall Street Journal ha manifestato l’intenzione di voler apportare delle modifiche alla proposta originale di riforma, confermando che la clausola di scavalcamento non sarà parte integrante del testo finale. Ma quale sia la reale evoluzione, o involuzione, della legislazione è incerto. Al punto che persino Bibi ammette di tastare con attenzione il polso della gente. Il passo indietro del falco della destra sarebbe quindi dettato da due ragioni pratiche: “mettere una pezza sul rapporto con l’opinione pubblica e gli Usa”, entrambi assai tesi. L’approccio conciliante di re Bibi, di fronte al malcontento generale, al richiamo del presidente Herzog e all’opposizione, apre una frattura nella maggioranza e nel partito del premier. «Alla fine, penso che affinché questo governo continui ad esistere dobbiamo portare avanti le riforme», ha commentato Miki Zohar, ministro della Cultura e considerato vicino al ministro della Giustizia Yariv Levin, ideatore della contestata legge. La parlamentare likudnik Tally Gotliv, che solo pochi giorni fa è uscita umiliata dal voto a scrutinio segreto della Knesset per la nomina a rappresentante nel Comitato di selezione dei giudici, è netta: «La riforma è morta». Anche l’alleato veterofascista Itamar Ben Gvir ha preso apertamente le distanze: «Siamo stati eletti per portare il cambiamento. La riforma è una pietra angolare di questa promessa». Ancora più critica l’ala del partito askenazita dei religiosi ortodossi: «Ho chiesto a nome dell’UTJ che la riforma includesse i tre impegni stipulati: lo studio della Torah, la clausola di esclusione e la modifica della legge sul servizio di leva. Ogni altro accordo è inaccettabile», così Meir Porush ministro degli Affari di Gerusalemme.
Fatta eccezione per il conflitto con i palestinesi, in qualsiasi modo si muova, Bibi rischia di risultare un populista impopolare.