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LA POLTRONA DI ARAFAT

Mentre, la notizia del ritiro dalla politica del presidente palestinese Abu Mazen prende consistenza a Gaza il Primo Ministro Rami Hamdallah scampava, illeso, a un attentato. Hamas che controlla la Striscia ha negato veementemente ogni coinvolgimento nell’episodio. Che potrebbe invece significare l’innalzamento delle lotta interna al campo palestinese, con le frange più radicali del jihadismo intenzionate a compromettere il difficile colloquio di conciliazione tra i due principali partiti palestinesi, Fatah e Hamas. Processo di unità nazionale impantanato in un clima di sospetto reciproco e scambio di pesanti accuse. Infuocata, anche la campagna per la successione alla poltrona che fu di Arafat. Mr Palestina, l’uomo dalle sette vite si spense in Francia l’11 novembre 2004. Da mesi viveva confinato nel palazzo presidenziale della Muqata, nell’ala del complesso che l’esercito israeliano non aveva raso al suolo con i bombardamenti. Invecchiato, ambiguo, megalomane e molto sospettoso, forse a ragione. La parabola di Arafat volgeva al termine, ormai, era internazionalmente isolato e il mito dell’eroe nazionale offuscato, dagli errori politici e dai segreti finanziari. Dopo i funerali il partito di Fatah passò di fatto in mano a Mahmud Abbas, meglio noto con il nome di Abu Mazen, che iniziò la scalata al potere culminata con l’elezione a Presidente nel 2005. Prima di allora aveva ricoperto vari incarichi, da Segretario Generale dell’OLP a capo delegazione durante i colloqui di pace con Israele. Per un breve periodo era stato Primo Ministro, dimettendosi dopo la rottura dei rapporti con lo stesso Arafat. Meno pittoresco e carismatico del suo predecessore è da sempre considerato una figura moderata all’interno del movimento per la liberazione della Palestina. Ha saputo intrecciare ottime e solide relazioni con la Casa Bianca, confermate sino all’avvento di Trump. Abu Mazen ha rappresentato per l’Occidente il referente politico e garante della causa palestinese, fiducia e credito mai venute meno da parte di Bruxelles. Sopratutto dopo l’affermarsi di Hamas nelle urne e l’instaurarsi del regime islamista a Gaza. Attualmente le trattative di riconciliazione nazionale, più volte evaporate, reggono grazie alla delicata mediazione egiziana e al sostegno economico promesso dai sauditi. Se l’accordo dovesse tenere il capo di stato palestinese è disponibile ad indire nuove elezioni legislative per il 2018, sulle quali però non avrebbe modo di incidere. È la vigilia del capitolo finale della sua lunga carriera, il livello di popolarità è assai ridotto rispetto al plebiscito della sua nomina e il sistema di corruzione nel suo partito è dilagante. Oggi alla soglia degli 83 anni e con 13 anni consecutivi di presidenza Abu Mazen è malato, secondo fonti di stampa le condizioni sarebbero peggiorate negli ultimi mesi, al punto che le dimissioni parrebbero imminenti. Aprendo la via ad una nuova era politica, tra mille incognite. Il contesto è critico: gli USA di Trump hanno rotto l’argine del contrappeso diplomatico con la scelta di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di tagliare i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite UNRWA; gli accordi di Oslo sono morti e i diritti dei palestinesi ancora negati; nei sondaggi Hamas è la prima forza e l’espansione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania è irrefrenabile; livello di disoccupazione giovanile è ai massimi storici e la situazione umanitaria a Gaza è gravissima. La possibilità di una nuova escalation di violenza tra la Striscia di Gaza e Israele è una spada di Damocle implacabile. In questo quadro, l’uscita di scena di Abbas potrebbe favorire la corsa di un suo nemico giurato Mohammed Dahlan, politico palestinese in esilio e molto considerato a Tel Aviv. Prende forza nelle ultime ore la possibile candidatura del nipote di Arafat, Nasser al Qudwa, già ambasciatore al Palazzo di Vetro. La resa dei conti è alle porte, l’ultima parola però spetta al carcerato Marwan Barghuthi, il più temuto e rispettato in Palestina.