In quella che un tempo nemmeno troppo lontano è stata la culla delle primavere arabe, che rovesciarono come birilli i regimi autoritari nella regione, tutto o quasi è tornato come prima. Se non peggio.
La Tunisia dopo aver sperimentato un decennio di fragile democrazia dal 2019 è saldamente in mano a Kais Saied, il nuovo uomo forte del paese africano. Colui che prometteva la fine della corruzione e un sicuro sviluppo, non aveva però fatto i conti con la pandemia. Il Covid ha messo a nudo non solo le debolezze strutturali del sistema sanitario ma anche quelle molto più profonde e intrinseche di una economia stagnante. Che non è in grado di dare un futuro sicuro ai giovani.
La risposta del presidente Saied alla crisi che attanaglia il Sahel è stata quella di abusare dei propri poteri, e instaurare un nuovo regime antidemocratico. Colpendo l’opposizione e la stampa, licenziando giudici e il primo ministro, chiudendo il parlamento e sospendendo la costituzione. Oggi che la Tunisia è ad un passo dal default ad essere particolarmente preoccupata è l’Italia. I due paesi non solo per la vicinanza geografica, sono di fatto strettamente legati.
Seppure nelle ultime settimane è calato il numero di sbarchi provenienti dalla Tunisia, il rischio di “esodo” in massa verso l’Italia è ancora una eventualità probabile. Al quale va aggiunto il timore per la sicurezza della rete energetica di approvvigionamento del gas algerino, che di lì passa prima di giungere nel nostro paese. L’implosione della Tunisia avrebbe quindi un effetto a catena sull’Italia. Per questa ragione la Farnesina è impegnata da mesi in una complessa campagna diplomatica finalizzata a sbloccare i fondi finanziari e gli aiuti economici che giacciono congelati. Miliardi di dollari in cambio di riforme che il presidente tunisino non è disposto ad accettare.
La pressante mediazione italiana sul tavolo internazionale non ha raggiunto alcun risultato concreto, almeno fino ad oggi. Ciononostante le posizioni di Parigi e Berlino si sono ammorbidite e ci sono segnali incoraggianti per arrivare ad una soluzione di compromesso. Che si lega inevitabilmente alla primaria necessità per l’Europa di rendersi indipendente dalle forniture di gas russo. L’Italia in questo settore nell’arco dell’ultimo anno, forte dell’azione messa in campo già da Mario Draghi, è stata in grado di ridurre in modo significativo le importazioni da Mosca.
Ciò è stato reso possibile soprattutto grazie all’asse con l’Algeria, diventato il nostro mercato di riferimento. Posizionamento che sicuramente sarebbe piaciuto al fondatore di Eni, Enrico Mattei. Che per primo incrinò lo strapotere assoluto del cartello delle grandi compagnie petrolifere mondiali, introducendo un modello di cooperazione tra l’Italia e i maggiori stati produttori, che ha fatto storia. E al suo ricordo il governo in carica dedica il nome di un ambizioso piano per dare stabilità all’Africa, di cui per ora si ignorano contenuti ed entità. Augurandosi che non sia la solita trita e ritrita propaganda di un occidente distratto.
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FLOP ELEZIONI TUNISINE
Le elezioni tunisine per il rinnovo del parlamento, che avrebbero dovuto sancire il compimento del programma politico di cambiamento del presidente Kais Saied, si sono invece rivelate un vero e proprio buco nell’acqua. Anche se i pronostici della vigilia lasciavano pensare ad un forte astensionismo nessuno avrebbe immaginato che la partecipazione al voto sarebbe stata inferiore al 9%. Le ragioni alla base di tale esito hanno una doppia motivazione: il boicottaggio elettorale delle principali forze di opposizione e il diffuso scarso interesse per la politica. Protesta, delusione e paura per il futuro hanno prevalso.
La lista dei problemi di questo piccolo stato africano è lunga e seria. Su tutto pesa la crisi economica, con l’inflazione che a novembre sfiorava il 10%. Intanto, la febbrile trattativa in corso con il Fondo monetario internazionale diventa indispensabile per evitare la bancarotta. Mentre, disoccupazione cronica, povertà e aumento delle disuguaglianze si amplificano. I flussi di migranti verso l’Italia sono in crescita. Carenza di cibo, medicine e carburante sono la quotidianità: scaffali vuoti nei supermercati. I bar che hanno difficoltà a reperire il tradizionale caffè, introvabile il latte. Pescherie e macellerie che vendono solo prodotti a basso costo. Storie e cronache di un paese praticamente alla deriva.
Nel 2021 Saied, costituzionalista di fama internazionale al suo secondo anno in carica, aveva impresso un’accelerazione al sistema presidenzialista: sospeso il parlamento e licenziato il primo ministro Hichem Mechichi. Pochi mesi dopo era toccato al Consiglio superiore della magistratura e a seguire ci fu lo scioglimento dell’organo legislativo. A luglio 2022, il referendum che approva la nuova costituzione. E a settembre la legge elettorale è modificata, riducendo a 161 (erano 217) il numero dei seggi. Fino a quel momento la svolta autocratica di Saied ha proceduto senza troppi intoppi. In realtà il malcontento generale non è mai stato nascosto (al referendum costituzionale si erano recati al voto solo il 30% degli aventi diritto). Tuttavia, la popolarità del presidente supera di gran lunga quella dei suoi avversari politici. Ed è per questo che sono in molti a ritenere che queste elezioni non avranno comunque conseguenze sul quadro politico. Il regime di Saied ha di fatto già depotenziato il parlamento, dandogli un ruolo tendenzialmente consultivo.
Della Tunisia che apriva la strada alle rivolte della primavera araba non è rimasta traccia. Tranne il dato storico di aver decretato la fine della dittatura di Ben Ali, figlia di quella di Bourguiba. Il movimento che aveva portato alla nascita di un parlamento costituente post-rivoluzionario, negoziato dai partiti e dalla società civile, è rapidamente imploso tra profonde divisioni ideologiche, e per l’impatto con la burocrazia della corruzione. Il crescente contesto di antipolitica e la frammentazione interna hanno favorito l’ascesa di Saied, ma questi stessi fattori ora rischiano di riflettersi contro di lui ed aumentare l’instabilità.
ROBOCOP TUNISINO
In Tunisia il bicchiere della stabilità sociale era già al bordo da tempo, la pandemia ha fatto il resto. Oltre 18mila morti, sistema sanitario al collasso con il 90% dei letti di terapia intensiva occupati, ossigeno che scarseggia e la campagna di vaccinazione che stagna sotto il 10%. Sui social video di cadaveri lasciati a terra nei reparti: la prima testa a saltare è stata quella del ministro della Sanità la scorsa settimana. L’estate è diventata calda quando il “Movimento 25 Luglio” ha scatenato la piazza, chiedendo lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni. La rabbia dei manifestanti ha preso di mira il partito islamista Ennahada, di fatto perno del governo di questa ultima decade post dittatura, sedi assaltate e uffici dati alle fiamme. Scontri con la polizia e decine di arresti nelle strade. Poche ore dopo il presidente Kais Saied ha tagliato corto liquidando il primo ministro Hichem Mechichi e ha revocato i poteri del Parlamento, per un periodo di 30 giorni. Fine della democrazia, introdotto lo stato d’emergenza, militari con l’ordine di sparare. Aperta di fatto non solo una crisi istituzionale ma anche una frattura politica dai difficili risvolti. Cosa c’è dietro a quello che viene visto come un golpe è presto detto: Saied e l’eterna guerra per la leadership sunnita. Eletto nel 2019, accademico e giurista di fama internazionale. Indipendente, non è “affiliato” a nessun partito. Considerato un conservatore, lontano da posizioni radicali, vicino al populismo: il suo manifesto era retorica anticorruzione e neutralità nelle relazioni internazionali, in apparenza. La sua elezione era stata applaudita come una potenziale chiave di svolta, e lo stesso partito Ennahada colto forse di sorpresa da questa candidatura “atipica” non fece molto per frenarla. Soprannominato Robocop per la cadenza nel parlare, a differenza di gran parte dei politici non ha inflessioni dialettali, un aspetto non indifferente di questo personaggio. La mossa di liberarsi della fazione islamica ora rischia di far imboccare alla Tunisia la strada della deriva autoritaria. L’articolo 80 della costituzione invocato consente al presidente di adottare “misure eccezionali in caso di pericolo imminente”, ma tale applicazione nel rispetto del diritto avrebbe dovuto avvenire di concerto con i rappresentanti del governo e del parlamento, e soprattutto non avrebbe dovuto implicare la revoca dell’immunità ai parlamentari. Saied ha dalla sua parte l’esercito e gode di larga popolarità. Dietro di lui c’è ovviamente l’Egitto di Al- Sisi. Mentre, a questo punto entra in aperto conflitto con Erdogan, principe e difensore della Fratellanza musulmana a cui è ispirato il movimento Ennahada. Giochi di potere, guerre che investono il Medioriente e l’Africa, riconducibili alle divisioni tra sunniti qatarini ed emirati. Nella lunga estate tunisina non c’è il turismo, principale industria di un Paese allo sconquasso, ad alleviare la povertà. Con questo ultimo terremoto politico c’è solo da aspettarsi nuove migrazioni nel Mediterraneo.