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BERSAGLIO CENTRATO

Il 10 aprile 2023 nel nord della Striscia di Gaza l’esercito israeliano uccide tre figli del leader di Hamas Ismail Haniyeh, ritenuti operativi all’interno del gruppo terroristico. Nell’auto su cui viaggiavano, fatta esplodere da un missile, perderanno la vita anche quattro nipoti dell’ex primo ministro palestinese. Poche ore dopo in rete circola un video che mostra il momento in cui al capo politico di Hamas viene comunicata la morte dei suoi figli. Il breve filmato è ripreso durante una visita “istituzionale” ad un ospedale in Qatar, dove da qualche anno aveva ottenuto asilo politico, trascorrendo un lussuoso e agiato esilio. Nella clip Haniyeh ascolta impassibile la notizia, muove oscillando leggermente la testa, tiene le mani congiunte e prega Dio. Quando gli viene chiesto se vuole interrompere l’incontro risponde perentorio: “No, continuiamo”. Successivamente dichiarerà: “Il sangue dei miei figli non è più prezioso di quello del nostro popolo”. Chiarendo che la loro perdita non cambia di una virgola la strategia: “Il nemico (Israele ndr) è pazzo se pensa che prendere di mira i miei figli, al culmine dei negoziati e prima che il movimento invii la sua risposta, spingerà Hamas a mutare la sua posizione”.
Adesso c’è invece da capire quanto la sua fine influirà sulle trattative in corso per raggiungere tregua e liberazione degli ostaggi, perché se l’uccisione dei parenti e il sangue di migliaia di palestinesi è una cosa, quello del noto politico palestinese conta molto, ma molto di più. La lezione comunque è che se sei scampato a un attentato del Mossad, nel 2003, non è detto che lo farai per sempre.
La punizione, non divina, è arrivata a Teheran dal cielo nella mattina del 31 luglio, con un “pacco aereo” che ha centrato la sua residenza. Haniyeh era volato in Iran per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian. Il giorno prima aveva incontrato l’ayatollah Ali Khamenei. Alla riunione era presente anche il vertice della Jihad islamica palestinese Ziyad Nakhaleh. Nella foto scattata nella sala dei colloqui Haniyeh è seduto a fianco della guida spirituale degli sciiti iraniani. Appare rilassato e al sicuro tra le mura amiche, sbagliava. Per molti è già un martire della causa palestinese, per altri resta un fondamentalista assassino. Non è il primo della lista dei responsabili del massacro del 7 ottobre a essere stato eliminato da Israele, e non sarà l’ultimo. Stessa sorte è toccata a Saleh al-Arouri, esponente di spicco dell’organizzazione, ucciso lo scorso gennaio mentre si trovava in Libano. A metà luglio è l’ora fatale per Rafa’a Salameh, comandante di brigata. Presumibilmente nell’attacco israeliano ha perso la vita anche uno dei triumviri a Gaza, Mohammed Deif. L’eliminazione sistematica da parte di Israele dei quadri di Hamas non è una novità, ma sino ad oggi non ha ottenuto nessun risultato. Infatti, come nel caso del mitologico mostro Idra di Lerna, tagliata una testa ne cresce un’altra, e la storia va avanti.
Intanto, all’interno del movimento islamista si rafforza la posizione di Yahya Sinwar, figura chiave a cui Israele da la caccia da mesi. Sinwar, insieme a Deif e Haniyeh, è sotto incriminazione della Corte penale internazionale per gli eventi del 7 ottobre. Sarà lui il prossimo obiettivo? A questo punto la sua sorte è una certezza. Seppur la sua eliminazione in questa fase di fragile trattativa diplomatica potrebbe, tuttavia, complicare notevolmente la liberazione degli ostaggi israeliani. Elemento significativo che forse gli permetterà di allungare la vita, almeno di un po’.
Non è un segreto che tra la corrente di Sinwar e quella di Haniyeh, decisamente più pragmatica, ci fossero divergenze che spesso hanno messo i due in contrasto aperto sulla linea da tenere. Hamas non è un monolite estraneo alla lotta interna per il potere. Sinwar governa indiscusso l’ala armata e parallelamente Haniyeh aveva in mano la borsa dei finanziamenti esteri, godendo dell’accreditamento nei paesi musulmani. Due ruoli ben distinti, equamente importanti per mantenere operativa struttura e rete dei collegamenti con gli alleati regionali. Un ampio spettro di rapporti da ristabilire con la nomina di una nuova figura, priva però della personalità carismatica di Haniyeh.
Il successore vivrà con una spada di Damocle sulla testa, che lo condanna a morte sicura, o quasi. Così funziona, non nel film ma nella realtà, degna comunque della miglior finzione cinematografica. Solo pochi giorni fa riflettevamo sulle potenzialità dei negoziati di Roma tra le parti in gioco, oggi lo scenario è in trasformazione. In rapida e drammatica evoluzione. L’Iran minaccia vendetta. Il Qatar prende le distanze da Israele, non sarà l’unico stato arabo. La Turchia di Erdogan è ad un passo dalla linea rossa dell’intervento diretto nel conflitto mediorientale. La Casa Bianca è irritata per non essere stata informata. L’atto “spregiudicato” avrà delle conseguenze pesanti nelle relazioni con l’amministrazione democratica statunitense, entrata nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali. Fatto sta che al momento a Gerusalemme a commentare l’uccisione di Haniyeh è la voce dell’estrema destra, il ministro Amichay Eliyahu scrive sui social: “È il modo giusto per ripulire il mondo dalla sporcizia. Niente più immaginari accordi di pace e resa, nessuna pietà”. Aggiungendo. “La morte di Haniyeh rende il mondo migliore”. Visto il contesto in cui siamo ci chiediamo a quale prezzo?

BIBI E LO STRESS

In Israele da un po’ di tempo circolano voci riguardanti la salute di Netanyahu. Ci fosse una campagna elettorale alle porte avrebbero il tempo che trovano, e nessuno probabilmente ci farebbe caso. Nel mezzo di una guerra tutto prende un significato diverso. Il longevo re Bibi è sicuramente in grado di intendere, volere e imporre la sua leadership, senza curarsi dei danni causati, sia lui che i suoi fedeli alleati, una pletora di estremisti elevati al rango di ministri. Invocare la camicia di forza non è tuttavia la risposta alla deriva in atto, e sicuramente non è la strada democratica per liberarsi definitivamente di una personalità ormai dannosa al suo paese. La questione è squisitamente politica.
Comunque, a luglio 2023, al settantatreenne premier israeliano venne impiantato un pacemaker, con un intervento chirurgico d’urgenza. Qualche ora dopo l’operazione Netanyahu appare sorridente in video: “Come potete vedere sto benissimo”. Messaggio che non rassicura gli israeliani, rimasti scioccati nell’apprendere che da tempo il loro primo ministro aveva nascosto (mentendo) il cronico problema cardiaco di cui soffriva. Ufficialmente i medici minimizzano le preoccupazioni, adducendo la causa degli strani mancamenti alla disidratazione. Non era così. Allora, dalle pagine di Haaretz il giornalista Yossi Verter parlò di fabbrica di menzogne che circonda il ricovero: “Le condizioni di salute illustrano più di ogni altra cosa la cultura dell’inganno in cui Netanyahu, i suoi ministri e consiglieri gestiscono il Paese”. Sul web presero piede le speculazioni sulla sua reale salute. Pettegolezzi? Spesso i leader, succede in tutte le democrazie, sono coperti da un alone di silenzio, riserbo in particolare su eventuali malattie, che potrebbero offuscare l’aura di invincibilità. Verrebbe da dire che siamo tutti umani, ma qualcuno pretende di esserlo un po’ meno. E comunque, dal giorno del suo intervento, un’ambulanza è al seguito della carovana della sicurezza, che accompagna Netanyahu.
Lo scorso gennaio il bollettino medico del primo ministro israeliano riportava: “Stato di salute completamente nella norma”. Insomma, il falco della destra sta bene. Ciononostante, all’inizio di giugno è stata presentata una petizione all’Alta Corte di Giustizia per chiedere che il primo ministro condivida informazioni dettagliate sulle sue condizioni e nomini un sostituto ad interim, nel caso in cui non fosse in grado di svolgere le funzioni, come prevedono i protocolli in vigore. In conformità al rispetto della privacy però la promulgazione di notizie personali non è vincolante. Ad invocare trasparenza sono alcune famiglie delle vittime del 7 ottobre ed esponenti del partito laburista. Scrive a riguardo l’avvocato Binyamin Bertz sull’autorevole Jerusalem Post: “Rispondere a queste voci dovrebbe giovare alla fiducia del pubblico verso il governo e rafforzare la resilienza nazionale. Al contrario, nell’attuale struttura di governo e in assenza di un sostituto per il primo ministro, lasciare queste chiacchiere senza risposta minerà ulteriormente il grado di resistenza nazionale, che è già in una situazione difficile”.
Dal punto di vista giuridico l’Alta Corte ha stabilito recentemente che la valutazione dell’idoneità al comando del primo ministro non è applicabile durante il mandato in corso. Lo stress e la sua reazione, seppur comportando ricadute fisiche e mentali, non sono ragioni imputabili alla rimozione. I giudici supremi hanno sentenziato che sia invece da tenere in considerazione l’idoneità quale requisito per l’eleggibilità del candidato premier, disposizione da applicarsi ante nomina e non post. Quindi, al momento non sussistono condizioni “superiori” per la revoca dei poteri a Bibi. Se mai qualcuno ci avesse sperato.
Per sostituire il peggior premier della storia di Israele ci sono solo tre possibilità: che si dimetta di sua scelta (alquanto improbabile a meno che non decida di giocarsi tutto richiamando gli israeliani alle urne); che la maggioranza che lo sostiene imploda (rischio sempre presente visto gli alleati che si è scelto); oppure che il Likud, il partito di cui è padre padrone, si rivolti contro di lui (ma mancano aspiranti coraggiosi e volenterosi che si mettano a capo della congiura di palazzo). Il re di Israele è stanco ma si tiene stretta la corona, senza più Benny Gantz nel gabinetto di guerra che gli tiri le orecchie. L’ex ministro a forza di minacciare le dimissioni, e poi ripensarci, alla fine le ha presentate, con una tempistica non esente da critiche. Il problema è che per il suo posto apicale adesso sgomita l’ultradestra. Che vorrebbe tornare ad occupare Gaza e cacciare i palestinesi dalla loro terra. Provetti Nerone a cui è pericoloso mettere in mano i fiammiferi, figuriamoci affidar loro le chiavi dei carri armati e le sorti della battaglia.

BENNY VS BENNY

“Le leadership di Israele e Palestina devono andarsene. È responsabilità diretta del popolo israeliano e palestinese mandarli via. Ma anche la comunità internazionale deve fare la sua parte… Il conflitto è andato oltre i confini di Israele e Palestina, con il potenziale rischio di un allargamento nella regione. Oltrepassando le linee rosse della morale”. “This has to end”. Tutto questo deve finire, è l’appello lanciato dalle colonne del Jerusalem Post da Gershon Baskin, direttore dell’International Communities Organization, editorialista e negoziatore di ostaggi, si occupò della liberazione nel 2006 del soldato Shalit, dopo 5 anni e 4 mesi in cambio di 1027 detenuti nelle carceri israeliane.

Intanto, a Tel Aviv e Gerusalemme risuona l’urlo della folla: “Elezioni subito!”. In una protesta che si sdoppia. Da un lato i cortei e le tende nelle piazze contro Netanyahu e dall’altro lo scontro politico nella Knesset. Ad unire le forze anti-Bibi potrebbe essere, ancora una volta, il ministro del gabinetto di guerra Benny Gantz, che ha pubblicamente avanzato la proposta di anticipare a settembre le elezioni. Che l’uscita di Gantz sia stata concordata con l’amministrazione di Biden è una supposizione. Non trascurabile visto che la finestra indicata per il rinnovo della Knesset è settembre, vigilia delle presidenziali USA. Quando, in caso di vittoria di Trump, muterebbe il quadro geopolitico, difficilmente a favore di Gantz. Il tappeto rosso della Casa Bianca all’ex generale e lo smacco del mancato invito a Bibi, sono indizi rivelatori che lasciano poco margine al fraintendimento. I democratici statunitensi hanno imbarcato il leader di HaMahane HaMamlakhti e Biden ha scaricato l’amico Netanyahu, con cui è “molto incavolato”.

Dopo 6 mesi di guerra, la strategia politica dell’ex capo dell’IDF ricalca quella della torre negli scacchi, muoversi sia in orizzontale che in verticale. È al fianco dei parenti degli ostaggi a Gaza (“Mi vergogno quando ascolto l’atteggiamento di alcuni parlamentari nei confronti delle famiglie degli ostaggi”), e in campo come alternativa a Netanyahu (“Il popolo israeliano è soffocato da una visione di governo bloccata nel passato”). Per arrivare a mettere in scacco re Bibi l’unica via è portarlo allo scoperto dalla trincea dove si è arroccato, con le urne o con la crisi di governo. La prima opzione ha bisogno della seconda. La seconda può fare a meno della prima.

Scrive The Times of Israel: “Gantz si è indebolito nei sondaggi nelle ultime settimane e la sua uscita dalla coalizione non farebbe cadere il governo, tuttavia, nuove elezioni potrebbero potenzialmente vederlo spodestare il primo ministro più longevo di Israele. I sondaggi mostrano il suo partito costantemente al primo posto nei consensi e il Likud che sta affondando. Sempre più israeliani lo indicano come candidato adatto a ricoprire la carica di premier, al posto di Netanyahu”. Insomma, la partita tra i due Benny è entrata in una nuova fase.

Nell’aprile del 2020 Gantz non aveva resistito alle lusinghe di Bibi, accettando la formazione di un governo d’emergenza in cambio della rotazione al vertice. Allora, una delle battute che circolavano tra i giornalisti israeliani era: “Sapete quante saranno le ore di Gantz a Balfour street (la residenza a Gerusalemme del primo ministro)? Otto, ovvero quelle che ha passato nello studio di Netanyahu per trovare l’accordo”. E fu veramente così. Invece, di cedere la poltrona Bibi fece saltare il banco. In pochi forse ricordano che dieci anni prima il giorno della sua investitura a tenente generale, di lui Netanyahu disse: “È un eccellente ufficiale che possiede tutti gli attributi per essere un comandante di successo”. Molti probabilmente si ricordano della propaganda della destra nella campagna elettorale del 2019. La macchina del discredito o del fango gli rovesciò addosso di tutto. Il quotidiano Maariv divulgò la notizia, falsa, che Gantz avrebbe fatto uso di ansiolitici. Il giornale Yedioth Ahronoth, cantore delle gesta del leader del Likud, invece pubblicò una vignetta dove due capi di Hamas commentano: “Speriamo vinca Netanyahu, dicono che Gantz sia fuori di testa”. Attualmente Gantz, quale membro del ristretto gabinetto, è personalmente esposto nella gestione della crisi. E Netanyahu non gli rende la permanenza nella maggioranza una cosa semplice, tra esternazioni degli estremisti, politiche sensibili ai religiosi e frecciate: “deve smettere di occuparsi di politica spicciola solo perché il suo partito sta cadendo a pezzi”. Nemmeno i rapporti con Yair Lapid sono gli stessi di quando correvano insieme, le strade si sono divise. E oggi Lapid è il riconosciuto leader dell’opposizione. A questo punto a Gantz non resta che tenersi stretti i sondaggi. L’ultimo in ordine di tempo è di poche ore fa: 32 seggi accreditati alla sua lista, contro i 17 del Likud e i 15 di Yesh Atid di Lapid. Se l’esecutivo lentamente collassa ma soprattutto se Biden continua a spingerlo, potrebbe essere la volta buona per Balfour street. Altrimenti, sarà l’ennesimo buco nell’acqua.

K DI KISSINGER

Tra le tante memorie che stanno condendo il ricordo del grande e discusso statista Henry Kissinger ce ne è una che merita di essere ricordata, proprio in questi giorni di violenza. Quando nel 1973 scoppiò la guerra dello Yom Kippur, la premier Golda Meir si rivolse alla Casa Bianca, chiedendo consistenti aiuti militari. Il conflitto con l’avanzata degli eserciti arabi aveva preso una brutta piega per Israele, che stava rischiando di perderlo in modo catastrofico. Passarono diversi giorni prima che gli Usa lanciassero in soccorso degli alleati un massiccio ponte aereo, composto sostanzialmente dai rifornimenti richiesti. Per anni ha prevalso l’idea, o meglio la sensazione, che l’amministrazione Nixon, e quindi il suo consigliere più fidato, il segretario di stato Henry Kissinger, avessero deliberatamente ritardato l’invio di armi per ragioni che sono oggetto di dibattito storico. Secondo questa lettura una parte delle colpe del ritardo sarebbero sia imputabili a James Schlesinger, il segretario alla Difesa, che all’atteggiamento “machiavellico” dello stesso Kissinger.
Recenti studi hanno invece messo in luce una diversa spiegazione dei fatti, adducendo che la lentezza della tempistica era dovuta alla logistica per l’invio di materiale bellico sul fronte mediorientale. Alcuni storici hanno persino evidenziato difetti nella comunicazione tra Washington e Gerusalemme, dove ci sarebbe stato più di un fraintendimento sull’urgenza dell’operazione.
Cosa accadde realmente è nascosto in una famosa storiella, che passa da tanti anni ormai di bocca in bocca. Si dice, che nel corso di una drammatica riunione del gabinetto di guerra Golda Meir chiamò personalmente Kissinger, per premurarsi dell’appoggio militare di cui aveva disperato bisogno. Leggenda narra che la telefonata fu piuttosto burrascosa, e volarono parole grosse. Che tra i due non corressero buoni rapporti era cosa risaputa. L’ammirazione che Henry mostrava pubblicamente nei confronti di Golda non era ricambiata, per vari motivi. A partire dalla differente visione sull’Urss. D’altro canto il demiurgo della geopolitica internazionale dichiarerà, intervistato, che il suo interlocutore preferito fosse Yitzhak Rabin.
Quanto Meir, convinta socialista, non stimasse troppo il Richelieu statunitense è oggetto persino di una famosa frecciata al presidente Richard Nixon, reo di averle ricordato che in comune avevano due ministri degli Esteri, entrambi ebrei. Sentita l’affermazione rispose senza peli sulla lingua che l’allora ministro israeliano Abba Eban (educato a Cambridge) però parlava perfettamente inglese, alludendo al fatto che Kissinger, nato in Germania, si esprimeva nella lingua anglosassone ancora con marcato accento tedesco.
Ritornando a quel colloquio di 50 anni fa, che forse cambiò le sorti della guerra, ad un certo punto della chiamata la “lady di ferro” avrebbe tuonato: “Le ricordo che è un ebreo come noi!”. Kissinger indispettito replicò: “E io le ricordo che prima di tutto sono un cittadino statunitense, poi sono il segretario di Stato e infine sono anche ebreo”. Pronta la risposta di Meir: “Appunto, caro Kissinger. Come sa benissimo, in Israele leggiamo da destra a sinistra”. E riattaccò il telefono. Poco dopo alla chetichella gli aiuti arrivarono e la guerra fu vinta. Fine della barzelletta, inizio della storia.

I TERRORISTI ENTRANO IN CASA

Nella mattina di sabato, durante quello che sembrava un tranquillo shabbat, Israele si è svegliata in una nuova guerra. A sferrare un attacco senza precedenti sul suolo israeliano è stata l’organizzazione terroristica di Hamas. Per trovare un episodio simile di invasione su larga scala dobbiamo riavvolgere il nastro della storia al ’73, alla guerra dello Yom Kippur contro gli eserciti di Egitto e Siria. 50 anni dopo decine di terroristi islamici si sono infiltrati in varie località della regione meridionale del Negev. Prima le sirene che hanno risuonato fino a Tel Aviv, per la pioggia di missili lanciati da Gaza, e poi lo “sfondamento” del confine, con un’orda di uomini armati che hanno preso d’assalto intere comunità inermi. “Dopo aver camminato un’ora siamo arrivati in uno dei kibbutz dell’occupazione. L’obiettivo di questa operazione è rapire i coloni e uccidere soldati. Sopprimere i coloni”. A parlare è un “giornalista” palestinese al seguito delle truppe di Hamas che hanno fatto breccia in Israele. L’obiettivo sarà anche stato di prendere ostaggi e negoziare la loro liberazione, l’unica certezza è che il prezzo che Gaza pagherà è alto.
Intanto, è unanime il giudizio che sia i servizi segreti che l’esercito israeliano (IDF) hanno avuto una falla nel prevenire un attacco preparato dettagliatamente da tempo. Pochi i dubbi sul fatto che l’IDF, l’esercito più potente del Medio Oriente, è stato colto completamente di sorpresa, ma non è l’unico colpevole di questa triste pagina di storia. Fino allo scoppio delle ostilità l’intelligence stimava una bassa possibilità che Hamas si impegnasse in una nuova escalation, i segnali andavano in tutt’altra direzione. Questo errore di valutazione, indotto molto probabilmente anche dalle informazioni egiziane, ha portato ad un maggiore dispiegamento di forze in Cisgiordania, in particolare nell’area di Nablus e nel campo profughi di Jenin. Dove, per la presenza delle colonie israeliane da proteggere, la situazione appariva più pericolosa e violenta. In qualche modo la strategia di spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania ha risentito dell’attuale clima politico, i partiti nazionalisti al governo spingono per l’annessione, ed hanno nei coloni il loro bacino elettorale. Questo combinato è parte del disastro a cui stiamo assistendo.
Così il giornalista Avi Issacharoff. “È l’11 settembre [di Israele], e se non sfodera una larga operazione di terra, è la fine della vita politica di questo governo”. Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti dell’opposizione al governo Netanyahu, hanno teso una mano all’avversario politico. Offrendo la disponibilità ad aderire ad un governo di unità nazionale. Lapid, a differenza dell’ex capo di stato maggiore Gantz, ha tuttavia posto una condizione, che fossero rimossi dall’incarico i due personaggi più carismatici dell’estrema destra nazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. La decisione finale spetta ovviamente a Netanyahu, la scelta non è semplice. Se accetta si rivoluziona l’asse politico del governo. E cade ogni velleità di portare avanti il programma di riforma della giustizia, che aveva spaccato l’opinione publica israeliana in due. Ma si apre per Netanyahu lo spazio (politico e diplomatico) per portare avanti il suo storico piano di colpire Teheran (i progetti militari sono riposti nel cassetto da anni). L’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, non è l’unico a pensare che dietro ad Hamas “c’è il sostegno dell’Iran”. Difficile il contrario, soprattutto perché non c’è nessuna smentita all’accusa.
A giugno scorso una delegazione ad alto livello di Hamas, incluso il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh, ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran per discutere della causa palestinese. Nella dichiarazione Haniyeh ha salutato il ruolo dell’Iran a sostegno del popolo palestinese. E il presidente iraniano, a sua volta, ha ribadito l’impegno del suo paese in favore della resistenza di fronte all’occupazione israeliana. Pochi mesi prima lo stesso Haniyeh aveva personalmente fatto visita a Beirut a Hassan Nasrallah. L’asse in calce siglato tra Hezbollah, Hamas e Iran degli ayatollah prefigurava che qualcosa di tremendo bolliva in pentola.
Le relazioni diplomatiche di Netanyahu con il mondo sunnita – gli “arabi anti-iraniani”, che hanno portato ad espandere il perimetro degli affari e gli stessi Accordi di Abramo, come i recenti colloqui distensivi tra Israele e sauditi (con il placet della Turchia di Erdogan) hanno accelerato la reazione degli altri attori regionali. Adesso Netanyahu, se come ha ripetutamente promesso, vuole dare una lezione ai nemici, vicini e lontani, si vede costretto ad agire su vari teatri contemporaneamente. Per il via libera ad attaccare l’Iran c’è comunque da attendere il nulla osta di Washington. In un quadro politico come quello attuale tutto lascia pensare che l’eterno conflitto del Medio Oriente possa a questo punto davvero inasprirsi sino ad autoalimentarsi all’infinito. L’11 settembre di Israele è iniziato il 7 ottobre 2023. Auguriamoci che non finisca nello stesso modo, e che Gaza non diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. O forse Hamasistan è già Afghanistan, e l’incubo continua.

HAMAS PORTA LA STRAGE NEI KIBBUTZIM

“Dov’è l’esercito?”. Domanda che si sono chiesti molti cittadini israeliani durante l’attacco di Hamas. La risposta è la stessa di 75 anni fa: la vostra difesa, e sicurezza, siete voi stessi. Prima linea del fronte di guerra. Dove l’alternativa è combattere o scappare.
La mattina del 7 ottobre 2023 prime ad essere investite dall’orda terroristica sono state le comunità che risiedono lungo il confine, a pochi metri dalla barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele. Be’eri, Kfar Aza e Re’im, le più colpite dalla violenza assassina e dalla caccia all’ostaggio. Piccoli centri dediti da sempre al lavoro della terra, dove dalle finestre delle case si vede la periferia della città di Gaza e si respira aria di mare. Prima del ’48 erano insediamenti, strutturati nella forma di cooperative agricole secondo lo schema del kibbutz o del moshav. Furono fondati e difesi dai pionieri dello stato di Israele.
Il kibbutz in passato ha rappresentato lo specchio della società israeliana, lì sono cresciuti e si sono formati interi quadri, l’élite politica e militare del Paese. Quel modello di vita ha nel corso degli anni affrontato notevoli cambiamenti di assetto confrontandosi con la realtà dei tempi, cedendo ovviamente a ineludibili compromessi. L’esperimento cominciò nel 1909, quando sulle sponde del lago di Tiberiade il sogno del socialismo applicato veniva realizzato. Il primo esempio fu la piccola comune di ebrei marxisti di Degania Alef (anche se i suoi membri preferirono sempre chiamarlo Kvutzat Deagania ovvero “Il frumento di Dio”). Spinta ideologica incentrata sull’uguaglianza, sul lavoro a favore della comunità, sul rispetto di regole ben precise e condivise, sull’obbligatorietà di lavorare per gli altri.

Chi ha fatto quella scelta di vita ha preso, e prende, il nome di chaverim o kibbutznik. Oggi sono decine di migliaia di persone. Nel 2005 il Ministero del Lavoro israeliano ha classificato i kibbutzim (plurale di kibbutz) in tre tipologie: shitufi con sistema cooperativo, mitchadesh dove persistono, almeno nell’intenzione, minime forme di cooperativismo e urban kibbutz di fatto un agglomerato cittadino. Quando nel 2011 decidemmo di scrivere il libro “Kibbutz 3000” compleanno di un sogno, attualità di un’idea (edizione Ets), accompagnati dalla fotografa Nili Bassan, abbiamo intrapreso un viaggio alla scoperta di chi ci vive. Il nostro peregrinare dal Nord al Sud di Israele ci portò nel kibbutz Nir Am, due ore di macchina da Gerusalemme, non distante dal valico di Eretz. Nir Am per l’esattezza si trova a 457 metri dal confine con Gaza, letteralmente a un tiro di scoppio o a uno sputo dalla Striscia di Hamasland. Sabato scorso i suoi residenti hanno respinto l’assalto palestinese. “Sembra che i terroristi abbiano cercato di penetrare in un grande allevamento di polli vicino a Nir Am, probabilmente scambiando la sua recinzione per la recinzione del kibbutz”, ha dichiarato Ami Rabin. Sentiti i primi spari è scattata la difesa. “Siamo stati vigili, preparati ed efficaci, ma siamo stati anche molto fortunati”. Nessuno dei residenti è rimasto ferito, due attentatori sono stati uccisi. Fallito anche l’attacco al moshav (raggruppamento di fattorie di proprietà individuale con estensione fissa e uguale per i suoi membri) di Ein Habsor. Dove hanno respinto un numero soverchiante di terroristi: “Dobbiamo tutto alla sorveglianza, ed in parte al miracolo”.

Israeliani abituati a convivere con l’emergenza della violenza. Nel 2013 nel moshav di Netiv Ha’Asara, alla vigilia delle elezioni che consacrarono l’ascesa di Netanyahu, ci raccontarono che “non di rado prima senti il botto del razzo e poi la sirena”. Questi centri periferici, per lo più composti da villette familiari, lunghi viali alberati, bambini che scorrazzano in bicicletta e auto elettriche per muoversi al suo interno, non sono solo vulnerabili ai razzi, che ti possono piovere in salotto in qualunque istante del giorno e della notte, ma anche ai tunnel che partono da Gaza e sbucano nel giardino di casa. Tunnel che Hamas scava minuziosamente dal 2014, per far entrare i suoi uomini. A volte scoperti e fatti saltare dall’esercito israeliano prima di essere utilizzati, altre, come in questo caso, no.
Nonostante la minaccia che incombe su quelle terre – dal momento che scatta l’allarme missilistico ci sono circa 4 secondi per raggiungere un luogo protetto, stanza blindata o rifugio – molti giovani hanno optato per questo standard di vita. Una sorta di riscoperta delle radici del kibbutz di fronte alla crisi economica, ambientale e culturale, in risposta all’individualismo imperante nella nostra società. Siamo certi che il mito del kibbutz resisterà anche a questa dura prova.

IL DESTINO MANCANTE

Come spesso abbiamo scritto, se siamo arrivati a questo punto, purtroppo, è perché gli accordi di pace di Oslo del 1993 sono sepolti da tempo, fagocitati dalla storia e rimossi dalla memoria collettiva.
Dopo il vertice di Camp David del 2000, conclusosi con un nulla di fatto, e dopo la parentesi del disimpegno, unilaterale, di Sharon da Gaza nel 2005, di dialogo per raggiungere una soluzione di due stati limitrofi indipendenti ed in pace non c’è traccia concreta.
A prevalere, nel corso degli anni, è stato l’appiattimento ad un quadro politico dove tutto lascia pensare all’eterno conflitto del Medioriente come qualcosa che possa solo inasprirsi ed autoalimentarsi all’infinito.
Il ciclo della violenza, seppur inaspettato, è una costante di quel lembo di terra. Che si porta dietro il fallimento di due classi politiche, quella di Abu Mazen (e prima di Arafat) ormai screditato agli occhi dei palestinesi e quella di Benjamin Netanyahu, sul bilico della doppia catastrofe, strategica e di popolarità.
Mr Sicurezza, come si è presentato più volte nel corso delle tante campagna elettorali, è oggi un leader che rischia di perdere definitivamente consenso e fiducia, che sino a ieri sembrava scalfibile solo dalla contestata riforma della giustizia.
Con questo attacco terroristico Hamas ha dato prova di forza nei confronti di un nemico superiore in tutto, e allo stesso tempo ha definitivamente messo in secondo piano il ruolo e il potere dell’ANP, ergendosi ad unico paladino della causa. Ha così riportato al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica la “questione palestinese”, non nel suo insieme ma nella sua forma deleteria.
Quale è il calcolo di avere un numero di ostaggi in pugno? È una mossa per ridurre o frenare la reazione di Israele? Non ci pare proprio.
L’idea di Hamas è di aumentare il proprio peso in una futura trattativa? A questo punto ogni schema di compromesso con i terroristi è irrealistico.
Il messaggio che Hamas ha voluto dare nasconde la dimostrazione e la minaccia che Israele è e sarà sempre vulnerabile? Beh, è decisamente probabile.
E poi, Hamas ha voluto avvertire quella parte di mondo arabo che ha imboccato un percorso di “normalizzazione” dei rapporti con Israele, “invitandoli” a non proseguire nella strada aperta dagli accordi di Abramo? Nel teatro geopolitico ci sono tante strumentalizzazioni, troppe sfaccettature sia interne che esterne si mescolano e intrecciano.
Quello che appare evidente è che i palestinesi sono lo strumento di attori interni, Hamas in primis, ed esterni, che spesso nascondono altri fini, ad esempio la Turchia (con Erdogan che aspira ad essere riconosciuto simbolo dell’orgoglio musulmano) e l’Iran (che mira all’egemonia nella regione e alla distruzione di Israele).
Dall’altro lato del muro gli israeliani pagano il caos di un esecutivo con una forte componente di nazionalisti razzisti, incompetente e totalmente inefficiente.
Scrive Avi Mayer sul quotidiano israeliano Jerusalem Post: “La dottrina della sicurezza del Paese dovrà essere rivista e le sue capacità adeguate ad affrontare la minaccia rappresentata da Hamas e dalla rete dei gruppi terroristici. Allo stesso tempo, un riallineamento politico accelerato dalla formazione di un governo di unità di emergenza potrebbe avere un impatto sulla politica interna per gli anni a venire. L’effetto che questo avrà sulla nostra psiche collettiva e sulla nostra coscienza condivisa, sul nostro stesso senso di sicurezza e sulla nostra fiducia nella nostra capacità di vivere liberamente e in sicurezza in questa terra – sarà sentito per decenni se non generazioni. L’intera portata della catastrofe è, ancora, sconosciuta, ma una cosa è chiara: gli eventi del 7 ottobre 2023 – uno dei giorni più bui della storia del paese – cambieranno tutto. Questo è l’11/9 di Israele. Niente sarà più come prima”.
Ancora una volta alla base dell’infinita disputa israelo-palestinese c’è l’inganno del pretesto.

FRITTATA FATTA!

L’intrigo internazionale di Roma, sui colloqui diplomatici tra Libia e Israele, invece di una nuova pagina di storia si è rivelata una frittata all’italiana. La notizia, che avrebbe dovuto essere mantenuta segreta, dell’incontro tra i rappresentati degli esteri israeliano e libico, avvenuto durante un vertice alla Farnesina, ha prodotto una valanga di reazioni, contrarie. Investendo la Libia, attraversata da violente manifestazioni di protesta. Scoppiato il caos la prima poltrona a saltare è stata quella della ministra degli esteri Najla al-Mangoush, sospesa e costretta a lasciare, per motivi di sicurezza, il paese. La Mangoush considerata una delle personalità più accreditate dell’esecutivo presieduto da Abdul Hamid Dbeibah, governo riconosciuto dall’Italia e appoggiato militarmente dalla Turchia, è finita triturata dall’episodio che l’ha vista protagonista assieme all’omologo israeliano Eli Cohen. A poco è servita la difesa dell’ex ministra, che ha parlato di una riunione del tutto casuale, ribadendo l’assoluto rifiuto alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Come prevede la legge libica.

La posizione della Mangoush è sembrata compromessa da subito, con il premier Dbeibah che l’ha abbandonata al suo destino, prendendo le distanze, mentre montava l’accusa di tradimento, oggetto di una indagine in corso. Le ragioni del patatrac sono state le esternazioni pubbliche del ministro Cohen, che ha spifferato: “abbiamo parlato del grande potenziale delle relazioni tra Israele e Libia”. Nel raccontare alla stampa, quello che teoricamente era confidenziale, l’esponente del Likud (molto vicino a Netanyahu) è sceso nei particolari. Confermando al centro della discussione (durata un paio di ore) vari punti: la questione umanitaria, l’agricoltura, la gestione delle risorse idriche e l’importanza di preservare il patrimonio ebraico in Libia, compresa la ristrutturazione di sinagoghe e cimiteri. Apriti cielo. Nel tentativo di mettere una toppa e salvare l’immagine del primo ministro libico è stata sacrificata la Mangoush, che paga indubbiamente il fatto di essere donna. Per quanto sia lei che Cohen non abbiano commesso nulla di ignobile, anzi. È infatti cosa stranota che ci sono stati contatti tra i due paesi del Mediterraneo sin dai tempi, gli ultimi, del regime di Gheddafi. A novembre del 2021 in ritorno da Dubai Saddam Haftar, figlio del signore della guerra Khalifa, ha fatto sosta a Tel Aviv. L’anno successivo il jet privato di Haftar si è trattenuto per oltre un’ora nella pista del Ben Gurion Airport, prima di decollare per Cipro. Non c’è conferma che a bordo ci fosse il generale cirenaico. Comunque, in entrambi i casi i voli portavano un chiaro messaggio di richiesta di assistenza “militare e diplomatica”, in cambio di un impegno a normalizzare le relazioni con lo stato ebraico. Formalmente Israele, fino ad oggi, ha evitato di prendere una posizione sulla guerra civile libica. Prudenza a parte Israele è considerato molto vicino all’Egitto e quindi, pro-Haftar. Ciononostante, si parla con insistenza, e alta probabilità, di un abboccamento ad Amman tra Dbeibah, che nega, e il capo del Mossad David Barnea, che non commenta.

In questa vicenda, che ha screditato solo la Mangoush, non hanno fatto una bella figura sia Dbeibah che Cohen. Il danno provocato dall’attuale capo della diplomazia del peggior governo di sempre di Israele, quello dell’alleanza tra Netanyahu e l’estrema destra, è quanto mai palese. Dai banchi dell’opposizione Yair Lapid non usa mezzi termini: “dilettantismo irresponsabile” e “vergogna nazionale”. Merav Michaeli leader dell’Avodà invoca le dimissioni. L’ex capo di stato maggiore e fondatore di “Blu e Bianco”, Benny Gantz parla di negligenza fallimentare del governo di Netanyahu. Dalla maggioranza della Knesset, almeno questa volta, nessuna voce. Per quanto riguarda Dbeibah ha dato prova di essere debole e poco affidabile. Quando a gennaio scorso il direttore della CIA William Burns gli ha posto vis-à-vis la questione dell’apertura ad Israele si è astenuto. E del resto appare del tutto improbabile che il premier libico non fosse a conoscenza di quanto bolliva in pentola. È facile presumere che abbia autorizzato, e coordinato, la missione romana. Per poi tirarsi fuori a frittata fatta.

BIBI E LA STRATEGIA SOVRANISTA

Che cosa può fermare Benjamin Netanyahu dal suo attacco diretto alla democrazia di Israele? A questa domanda si può rispondere in vari modi. Quella più spontanea è che solo lui è in grado di evitare il disastro dell’abisso dei valori dei padri fondatori, fermando la riforma della giustizia che non ha l’obiettivo di riequilibrare gli assetti tra i poteri dello Stato ma quello di scardinare l’intero sistema di controllo della Corte Suprema su esecutivo e parlamento.
In pratica una vera e propria rivoluzione che andrebbe ad amplificare il potere della maggioranza di governo. La seconda lettura degli eventi è che a questo punto il longevo premier appare prigioniero del suo stesso disegno. La decisione di formare una coalizione con l’estrema destra è risultata una mossa elettoralmente vincente, ma ha tuttavia finito per tramutarsi in un prezzo troppo alto da pagare. E ben presto Netanyahu ha dovuto subire le pressanti richieste, talvolta spudorate minacce, degli alleati. Concessioni che hanno messo in luce un leader debole come non mai.
L’errore del falco del Likud è stato quello di circondarsi di una corte di devoti yes man e poche donne. Oggi i sondaggi di gradimento sono impietosi sull’operato di questo governo. A criticare aspramente c’è una parte di Israele, che si è ribellata all’introduzione della nuova legislazione e da mesi scende in piazza: blocca l’aeroporto, ha marciato per 60km fino a Gerusalemme, e ha piazzato centinaia di tende difronte alla Knesset. Un’onda pacifica cresciuta nel tempo, che sventola la bandiera di Davide e si erge a difensore di diritti e libertà.
Il movimento pro-democrazia crede che il pericolo della deriva autoritaria e persino di una dittatura sia imminente. Alla protesta aderiscono interi settori della società, medici, riservisti dell’esercito, insegnanti, diplomatici, artisti, intellettuali etc. Sono ovviamente una spina nel fianco di Netanyahu, sono numerosi e determinati a non desistere nella loro lotta. Ciononostante, c’è anche una larga fetta dell’elettorato di destra che è ancora convinto della necessità di apportare modifiche sostanziali al sistema.
La ragione principale alla base di questo approccio è la riluttanza atavica agli apparati dello stato, perché considerati espressione di una élite, tendenzialmente manovrata dalla sinistra o riconducibile in vario modo ad essa. A prescindere da ciò che pensano, sbagliato o meno, il quadro odierno è di una nazione profondamente lacerata. A provocare questo danno, e qui non c’è nessun dubbio storico, hanno inciso tre decadi di martellante propaganda narrativa di Netanyahu, nel nome della paura. Che hanno radicalmente e persino subdolamente cambiato Israele.
Fino al punto che una società “polmone” di esperienze (e sofferenze) ha smesso di ossigenare il suo popolo. In Israele la democrazia per continuare a vivere deve prima di tutto trovare la sua ancora di salvataggio. C’è chi invoca la costituzione, di cui il paese è privo. Ma prima forse dovrebbe guardarsi dentro, e resettare l’era di Netanyahu.

Israele e Palestina, racconti di morte e guerra

Israele è un paese che convive con l’anormalità, quella del conflitto perenne, del terrorismo, dell’occupazione e dell’odio. Eppure, nel 2023 è diventato il quarto luogo più felice al mondo dove vivere, almeno secondo la classifica del World Happiness delle Nazioni Unite. L’indice di felicità globale tuttavia non tiene conto di Sapir Livnat Green, la giovane ventiseienne ebrea israeliana che il 9 maggio ad un checkpoint vicino a Hebron ha deliberatamente deciso di farsi uccidere, facendosi sparare dai militari in un presunto suicidio orchestrato con lucida follia. Alle spalle aveva una vita complicata. Cresciuta in un contesto familiare segnato dalla malattia mentale della madre e dalla morte del padre. Un trascorso da senzatetto, ospedali e casa famiglia. Al termine del servizio militare gli era stata diagnosticata una seria forma di stress post traumatico. Problemi di depressione acutizzati con la scomparsa della migliore amica, causata da un’overdose di barbiturici. Livnat Green è andata incontro alla morte con premeditazione. Ha annunciato il gesto via social, con tanto di emoji di scrollata di spalle a chi gli chiedeva se intendeva farlo. Ha indossato comuni abiti da donna araba, coprendosi il volto con il velo, preso una pistola ad aria compressa e si è fatta un ultimo selfie. Poi ha raggiunto il posto di blocco e si è lanciata contro un soldato gridando “Allahu Akbar”. La tragedia di Livnat è un caso angosciante che fa riflettere. La modalità di azione che ha scelto per mettere fine alla propria vita è del tutto inusuale. In Israele nel 2019 ci hanno provato in quasi sette mila, uno ogni 1300 abitanti. Nel corso del 2022 i soldati israeliani che si sono tolti la vita sono aumentati rispetto all’anno precedente. “Abbandonati dallo stato e senza l’aiuto della famiglia”, hanno dichiarato i vertici dell’IDF nel presentare le statistiche. Qualche colpa ce l’ha chi governa (e la politica), chi non offre servizi di livello ai cittadini, a partire da quelli ai più bisognosi e deboli, chi non lavora per costruire un futuro migliore, di pace, tranquillità e benessere sostenibile. Livnat è vittima indiretta del conflitto. Lo sbaglio non è del soldato che ha premuto il grilletto, non è una questione di errore umano ma di agire come ti è stato impartito di fare, in quella determinata situazione. Una guerra, come scrivo da anni, che è logorante e assurda. Come si può vivere felici in un paese appeso al suono delle sirene che avvisano l’arrivo delle bombe? Andate a chiederlo ai cittadini di Sderot, che convivono con questo incubo quotidianamente. A chi invece non lo potete domandare sono Dania Adas, 19 anni, e la sorellina Iman, erano palestinesi di Gaza. La loro “sfortuna” è stata di avere come vicino di casa un leader della jihad islamica, che un missile israeliano teleguidato ha fatto saltare in aria. Dania si era appena fidanzata e stava facendo i preparativi per il matrimonio. Raccontano che pochi istanti prima di essere sepolta dai detriti era raggiante al telefono. Come si può vivere serenamente in una striscia di terra succube di una dittatura fondamentalista e in guerra con Israele? A Gaza tornerà la calma, ci sarà una nuova tregua che non durerà, e il disco rotto della violenza riprenderà a suonare. È il fil rouge dell’infelicità di due popoli, troppo distanti per essere vicini. Ma non per morire insieme.

Enrico Catassi