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I TERRORISTI DEL CALIFFO ALLE PORTE DI GERUSALEMME

Nel 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la risoluzione 181 con un piano di partizione della Terra Santa, nel tentativo di risolvere il conflitto tra arabi ed ebrei scoppiato nella regione: il mondo arabo scelse la risposta peggiore. Settant’anni dopo attendiamo ancora la nascita di uno stato palestinese: democratico, indipendente e sovrano. C’è qualcuno che crede che ciò possa avvenire nel 2017? Obiettivamente pensiamo che solo un miracolo possa appianare uno dei conflitti più lunghi della storia. La situazione politica interna alle due realtà, palestinese ed israeliana, è talmente e palesemente compromessa da non permettere spiragli positivi: la destra nazionalista israeliana al governo, le criticità di Fatah e la dittatura di Hamas a Gaza, la prospettiva del radicarsi dell’Isis, la visione di Trump.

Eli Kaufam editorialista del Jerusalem Post, recentemente ha scritto nel suo blog non un commento di fisica quantica, ma una riflessione filosofica sull’era che ci attende: «Possono causa ed effetto andare indietro nel tempo? Nella realtà delle cose può il futuro determinare il passato? …. Se il futuro fosse in grado di determinare il passato, allora con un futuro meraviglioso quello che ci attenderebbe sarebbe un presente radioso, perché abbiamo già visto il passato e non era così bello.»

Nel contesto della Terra Santa gli errori del passato, effettivamente, sono stati troppi, determinando il presente e il futuro: culturalmente ma sopratutto politicamente il mancato riconoscimento dell’altro, da entrambi le parti, è ancora un aspetto sconcertante della questione israelopalestinese. Sicurezza, diritti umani, confini definiti per due stati per due popoli sono sempre stati l’obiettivo primario della Comunità internazionale. La cartina geografica più diffusa della Terra Santa è ferma al ’67, attualmente quindi è obsoleta. A prescindere dal caso in cui si creino le condizioni per uno stato binazionale, che si opti per una sorta di stato federale o meno, ci vorranno intense trattative e lunghi trattati. Oppure ciò che ci aspetta sono barriere, occupazione e terrorismo? La matita che dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra palestinesi ed israeliani è oggi spuntata, e Trump è pronto a strappare i fogli su cui disegnare.

Nei prossimi giorni a lasciare un segno sul quadro mediorientale ci proverà il presidente francese Francois Hollande, lontano dalla ricandidatura ha deciso di affrontare, senza troppe pretese, il nodo gordiano del conflitto israelopalestinese, invitando a Parigi per il 15 gennaio i rappresentanti di 70 stati. L’iniziativa parigina è l’ennesimo tentativo di alimentare il percorso di due stati per due popoli. Un summit accolto favorevolmente da Abu Mazen, presidente senza consenso, ma non da Netanyahu, primo ministro in bilico. A Parigi non ci saranno strette di mano tra nemici. In realtà c’è però un certo interesse per quanto presenteranno le tre commissioni che da mesi lavorano ad una road map. Ciascuna analizzando una differente prospettiva: la struttura delle istituzioni palestinesi, il contributo economico, in particolare quello europeo, e infine la partecipazione della società civile al processo di pace. L’ultimo attentato sulla promenade di Gerusalemme, e la folla a Gaza in visibilio per il martirio dell’attentatore; le minacce alla giuria e le proteste di piazza al processo contro il soldato israeliano che freddò un prigioniero palestinese; le vignette pubblicate qualche giorno fa dal quotidiano Al-Hayat Al-Jadida che mostravano soldati dell’esercito israeliano uccidere Babbo Natale; i nuovi insediamenti israeliani. Dipingono un presente senza futuro.

L’URLO DEL SILENZIO E DEL TERRORE

Il silenzio di Francesco ad Auschwitz è un grido muto e assordante contro la crudeltà umana a poche ore dalla profanazione di Rouen. Ennesimo atto di questa lunga e tormentata estate in cui i terroristi ci stanno portando ad una nuova guerra mondiale. Ma non chiamatela guerra di religione. È quanto chiede Papa Francesco, ostinato promotore del dialogo interreligioso, della diplomazia che spiana diffidenze e attenua il peso degli scismi, guida spirituale dell’Occidente che apre all’Oriente. Francesco è un “rivoluzionario” che parla dei problemi del mondo, che invoca giustizia economica e sociale. Nella consapevolezza che la storia, talvolta, si ripete, riproponendo perfette identità: carnefice e vittima. Fanatici ed indifesi. Oggi il nemico è una milizia votata alla distruzione, perfettamente inquadrata, con schemi e obiettivi preparati minuziosamente o, talvolta, repentinamente improvvisati. Agiscono singolarmente o in gruppo. Il jihadismo nelle sue varie ramificazioni è la più potente, e pericolosa, organizzazione terroristica al mondo. La sigla che domina il mercato globale è quella dell’Is. Ogni attentato, fallito o riuscito, che faccia notizia è per l’Is una vittoria di propaganda. Da rivendicare “a prescindere” dall’effettivo coinvolgimento. La tattica militare è banalissima, colpite dove volete e come potete. L’importante è imprimere il “marchio di fabbrica” sulle peggiori nefandezze. La strategia comunicativa è diffondere paura, panico. Creare il caos e fare nuove reclute, allargando le file del proprio esercito di invasati. Non per lanciare un’invasione ma bensì per provocare l’implosione della democrazia e della libertà. Seminando morte e spazzando al vento i petali dell’umanità: Nizza, Orlando, Istanbul, Dacca, Ansbach, Kabul. Somalia, Siria, Baviera, Iraq e Normandia. Città e piccole periferie di provincia. Un elenco senza confini in questa lunga estate. Una sequenza strutturale di attacchi terroristici, la ripetizione della narrazione nelle drammatiche e angoscianti testimonianze dei sopravvissuti. Al promenade di Nizza: “Il camion sembrava che barcollasse, ma lo faceva per colpire quanta più gente poteva. Dopo il suo passaggio ho visto per terra un bimbo morto accanto al padre disperato che lo accarezzava mentre con l’altra mano reggeva una carrozzina, una signora senza una gamba, un uomo senza un piede, sentivo grida, urla, disperazione. Sono rimasto impietrito, immobile, poi a un certo punto è stato come se il silenzio mi avvolgesse”. Nel ristorante di Dacca: “Ho sentito urla e spari e mentre provavo a uscire ho visto un ragazzo con un’arma automatica che si avvicinava al tavolo degli italiani”. Al concerto ad Ansbach: “Eravamo a cena fuori. Abbiamo sentito una detonazione, e siamo rimasti pietrificati. Poi molte persone hanno cominciato a correre. Alcuni pensavano di essere stati colpiti perché cadevano mattoni dal tetto”. All’aeroporto di Istanbul: “C’era sangue sul pavimento e tutto attorno a me era in pezzi”. Nelle strade di Kabul: “Stavo partecipando ad una pacifica manifestazione quando ho sentito un botto e poi ognuno ha iniziato a scappare e urlare”. Nella discoteca di Orlando: “Per favore, per favore, per favore non sparare! Per favore non farlo. Fermati!”. A Mogadiscio: “Ho sentito l’esplosione, devo aver perso conoscenza per qualche attimo, poi ho iniziato a correre, sparavano a tutto quello che vedevano.” Nella chiesa di Rouen: “Sono entrati bruscamente, parlavano in arabo, ho visto un coltello. Io sono uscita quando hanno cominciato ad aggredire padre Jacques”. Voci di chi ha visto la morte in faccia e senza volerlo si è trovato nella prima linea di una sporca guerra.

IL PROBLEMA DA RISOLVERE

Le tenebre del terrore hanno avvolto Dacca, tingendola di sangue. Nella notte di un week end di paura, prima lo scontro a fuoco, poi il blitz dei reparti speciali nel ristorante frequentato da internazionali, la scoperta sconvolgente dei cadaveri, tra le vittime numerosi nostri connazionali: un gruppo di amici riuniti a cena. L’ennesima strage terroristica, una mattanza dai macabri rituali. Ostaggi inermi giustiziati crudelmente da un manipolo di giovani invasati islamici. A tirare le fila di questo attentato ancora una volta la sigla scarna dell’Isis, la multinazionale del terrore che recluta adepti in tutti gli angoli del pianeta per una guerra senza quartiere, senza sosta. Non c’è tempo nemmeno per piangere le vittime dell’aeroporto internazionale Kemal Ataturk di Istanbul. È di nuovo lutto in questo interminabile mese del Ramadan. Mentre l’attenzione mediatica e finanziaria era rivolta alla Brexit il brusco risveglio. Il Bangladesh con i suoi milioni di poveri e il Medioriente con i suoi eterni conflitti, cronache di una cruda realtà, un’amara verità: l’aver sottovalutato il nemico, la sua natura e strategia. L’esercito dell’Isis è cresciuto sino a diventare un Califfato, ha conquistato intere regioni e imposto con la violenza il proprio credo di morte. Il mondo è rimasto impassibile e inorridito mentre le sue truppe invadevano e distruggevano le città dell’antica Mesopotamia. Bruciando, decapitando, torturando, violentando. Radendo al suolo i simboli della storia e delle religioni, sfregiando il patrimonio artistico e architettonico universale. A colpi di mazze, con bombe, trattori, le milizie dei nazi-jihadisti si sono scagliati contro la civiltà. Nel nome della loro personale guerra santa alla “decadenza e immoralità contemporanea” hanno massacrato civili inermi, rei di professare altri culti, come quello cristiano o di appartenere a etnie come quella curda. Hanno issato i loro vessilli neri ed esportato il panico nel cuore dell’Europa, in Africa, nella laica Tunisi, nella lontana America di Obama, nel Bosforo del Sultano Erdogan, in Sinai e in Medioriente, nel Golfo del Bengala e nella metropoli asiatica Bangkok. Aeroporti, stazioni ferroviarie, stadi. Teatri, musei, ristoranti, discoteche. Sinagoghe, chiese, templi, sedi di giornali. Atei, ebrei, cristiani, buddisti, induisti, musulmani, comunità gay e turisti. È la lista degli obiettivi sensibili. Contro tutti e tutto. Una organizzazione che agisce localmente ma pensa globalmente, introiti da milioni di dollari come fosse una multinazionale, in grado di giocare spietatamente sugli assetti geopolitici internazionali. Muove indisturbati i suoi assassini tra le dune del deserto o nelle banlieue delle periferie, recluta i kamikaze tra il proletariato delle fabbriche tessili asiatiche o nelle prigioni cecene. Spostando repentinamente il luogo dell’azione, anticipando le misure di difesa, è una macchina criminale che costituisce una minaccia costante. Dimostrando che la linea del fronte con i due eserciti contrapposti è un concetto militare superato. Persino la nozione di trincea è cambiata radicalmente, da luogo fisico a spazio ipertestuale nella rete. Molti analisti ritengono che l’esercito dei miliziani dell’Isis in Siria, Iraq e Libia potrebbe essere spazzato via con una semplice operazione di fanteria o con una campagna di bombardamenti massicci. Probabile. Ma non sufficiente a risolvere il problema nella sua interezza, nella sua dimensione non più circoscrivibile ad una area geografica. L’Isis si è dimostrato un virus resistente che si propaga contagiando la vita quotidiana di tutti, fermiamolo evitando di cadere preda della psicosi collettiva.

Libia, due leader una poltrona

Libia, diario di una guerra alla porta. La battaglia di Sirte è conclusa dopo intensi bombardamenti aerei e il cannoneggiamento della marina. Decine di morti e centinaia di feriti. Le truppe governative hanno preso il controllo dei luoghi nevralgici, incluso il porto della città. Sconfitta la roccaforte del terrorismo fondamentalista nel Maghreb. Le milizie del Califfato “occidentale” battono in ritirata, probabilmente nel tentativo di ricomporre le fila dell’esercito nella zona interna del paese. Il Fezzan potrebbe a breve trasformarsi in un nuovo campo di battaglia. L’esito della vittoria di Sirte tuttavia induce dubbi sulla esatta cifra dei seguaci dell’Is schierati in suolo libico, stimato intorno alle 6 mila unità. Gli uomini del terrore impegnati negli scontri di queste settimane erano solo poche centinaia. Il dato positivo è che la bandiera nera è ammainata dal Golfo della Sirte, dove oggi sventolano quelle dell’esecutivo di unità nazionale (GNA) guidato da Al Serraj. Ma ancora una volta a smuovere le acque libiche, già di per se turbolenti, è il generalissimo Khalifa Haftar, figura controversa che deve la sua rapida ascesa al potere agli USA e all’Egitto. Messo in disparte dai ruoli chiave del governo di Al Serraj l’uomo forte di Tobruk ha deciso di non sottostare all’esecutivo di unità nazionale e per contro, dopo un primo tentativo di marciare alla volta di Sirte, ha preferito non essere coinvolto in questa decisiva battaglia, ritirando le proprie truppe su posizioni defilate. Haftar e Al Serraj, due leader per una poltrona e due opposte visioni: federalista il militare e centralista l’altro. Un confronto, trasformatosi talvolta in aperta ostilità, che peserà sul futuro della Libia e sull’assetto geopolitico della regione. Intanto sui cieli della Libia volano da tempo silenziosi droni ma anche i rumorosi bombardieri del Pentagono. Secondo fonti del Washington Post una piccola élite dei corpi scelti dell’esercito a stelle e strisce è dispiegata nelle città libiche di Misurata e Bengasi sin dalla fine dello scorso anno. Due squadre operative, meno di 30 soldati. Ufficialmente non sono lì, occhi e orecchi invece si. Di fatto sono la testa di ponte di una prossima missione, vincolata alle condizioni richieste dal Governo italiano. La strategia fortemente appoggiata dal ministro Gentiloni si è rilevata corretta, producendo risultati sul campo, spingendo i libici ad affrontare e cacciare il Daesh. Il pericolo che la ricchezza primaria della Libia cada nelle mani e tasche sbagliate è un aspetto allarmante così come l’eventualità di un’ondata massiccia di profughi verso le coste italiane. Una emergenza umanitaria che investirebbe anche l’Europa e la sua moralità bipolare. In queste ore l’Unicef pubblica statistiche agghiaccianti sulla situazione dei migranti: “La maggior parte dei minori che hanno attraversato il Mediterraneo fino all’Italia quest’anno erano accompagnati da adulti. Purtroppo è incrementato il numero di minori non accompagnati che sono saliti a bordo di barche insicure e pericolose”. Decine di migliaia di bambini ogni giorno mettono a repentaglio la propria vita intraprendendo il viaggio della speranza verso il Vecchio Continente. E con l’arrivo dell’estate il numero è destinato ad aumentare esponenzialmente. Per fronteggiare il terrorismo ed evitare una crisi catastrofica ci sono teoria e pratica: la prima riguarda il pattugliamento delle coste e il blocco navale, la seconda la necessità di scendere con gli stivali nella sabbia delle dune. In Libia la teoria è in grado di incidere ma non di annullare il problema dei migranti. Mentre la pratica rischia di essere un’incognita.

TOGLIERE LA MASCHERA ALL’ISIS

Sul nostro pianeta c’è qualcuno che è di troppo. E non stiamo parlando di prospettive demografiche o economiche bensì di modelli di vita e ideologie. Dopo l’ennesimo attentato ad una capitale europea ci siamo ricordati, più o meno tutti, che la guerra è globale e alla fine ci sarà un solo vincitore o l’Europa o l’Isis. Non può essere diversamente in un mondo che è troppo stretto per averci entrambi. Preso atto degli infruttuosi tentativi di trovare soluzioni rapide ed efficaci a contrastare il terrorismo, è quanto mai urgente rimodulare la politica mondiale. La superiorità della forza militare dei paesi occidentali sul Daesh è schiacciante, se i due eserciti si affrontassero apertamente in un campo di battaglia le sorti sarebbero scritte. Quando però la minaccia nasce nei quartieri delle nostre città, nel cuore dell’Europa, allora la capacità di prevenzione è minore, l’esito meno scontato. Il «terrorismo molecolare» messo in atto dai seguaci del Califfato è una strategia difficilmente arrestabile, basta vedere, con le dovute differenze del caso, la seconda e in particolare la “terza” Intifada palestinese in Israele, quella dei lupi solitari. Aumentare il livello di sicurezza è un passaggio logico, come prendere consapevolezza che la lotta al caos riguarda direttamente la collettività, il popolo europeo e l’umanità. Per questo sradicare il pensiero fondamentalista islamico alle radici è indispensabile. Fermare il proselitismo è il primo passo per vincere la partita. Interrompere l’interazione dei terroristi con il web e l’attrattiva mediatica del movimento terroristico sui giovani “occidentalizzati”. Uno dei network di propaganda dimostratosi più attivo nel reclutamento in questi anni è Sharia4, ne fanno parte gruppi che utilizzano un nome con variabile geografica e filiali ovunque: Sharia4Belgium, Sharia4UK, Sharia4France, Sharia4Italy e così via. Il Belgio è stato il primo paese a prendere delle misure contro questa organizzazione “anfibia”. Nel Maggio 2015 i magistrati di Bruxelles hanno portato a processo il maggior numero di presunti militanti jihadisti che si sia mai visto in Europa, infliggendo pene severe. Non è bastato ad evitare la strage di Bruxelles, ma sicuramente è servito. Prima di tutto perché ha dimostrato all’opinione pubblica la pericolosità di questa organizzazione. Ha fallito sostanzialmente per il fatto che molti degli imputati e condannati sono tutt’ora latitanti. Tra le tante “primule rosse” anche Yassine Lachiri condannato in contumacia, arrestato lo scorso anno in Turchia mentre attraversava il confine con la Siria e poi scambiato dal governo di Ankara con ostaggi dell’Isis. Invece di essere estradato in Belgio dove avrebbe dovuto scontare una pena di 20 anni. Difficile non ipotizzare un suo ruolo negli attentati di Bruxelles.
La delocalizzazione e prolificazione in mezza Europa delle organizzazioni terroristiche è una formula, purtroppo di successo, del franchising del marchio jihadista: un sistema che ha il “core business aziendale” in Medioriente, in regioni dove regna la frantumazione sociale e infiammate da guerre civili devastanti. Siria, Yemen e Iraq ospitano scuole d’indottrinamento per futuri kamikaze. Nel vuoto politico libico si diffonde la bandiera nera dello Stato Islamico. Nel Sinai e a Gaza, tra dune e tunnel, Hamas “fraternizza” con gli uomini del Califfo. Anche tra le mura della Città Vecchia di Gerusalemme spuntano le prime cellule affiliate al Daesh. Africa e Medioriente sono nascondigli sicuri, basi logistiche per foreign fighters dove oltre alle armi, alle tecniche di guerra e alle lezioni di sharia islamica girano ingenti somme di denaro necessario per finanziare una struttura che altrimenti collasserebbe in poco tempo. Senza ombra di dubbio un sistema economico alimentato da un intricato groviglio di canali con diramazioni e giochi di potere internazionali. E questo ultimo aspetto resta ad oggi quello più spinoso: riuscire a tagliare i fondi al terrorismo e smascherare chi si nasconde dietro il Califfato. Dando una volta per tutte un volto ai responsabili di questo demone.

Free Kobane, oltre il fumetto

Kobane è stata liberata, l’Isis è stato respinto. Era una notizia attesa. E auspicata. È una di quelle notizie che andrebbero festeggiate stappando una bottiglia, la migliore della vostra cantina. Questa vittoria per onore della cronaca era stata annunciata su Internazionale in un fumetto, l’autore Zerocalcare. Il titolo del fumetto è Kobane Calling, una storia raccontata in presa diretta con disegni in bianco e nero che avevano premunito il finale positivo all’assedio alla città curda in Siria. Per chi ama il fumetto il parallelismo con il maestro Joe Sacco, che ha segnato e disegnato il mondo e le sue atrocità, è stato immediato. Fumetti politici e politicizzati, di denuncia quelli di Sacco. Zerocalcare invece deve la sua fama a tutt’altro approccio, è autore della striscia “demenziale” Neet Kidz, ma con questo fumetto Zerocalcare entra di diritto nella “scuola” degli inviati di guerra, in questo caso senza microfono e telecamera. Tuttavia la differenza di Zerocalcare con Sacco non è solo nel tratteggio ma nello schema generazionale, nella forma della ricerca e nella filosofia: “la realizzazione di questo fumetto ha richiesto alcuni esercizi di sintesi che ne alterano la fedeltà alla realtà, lo dico per sincerità”. È quanto tiene a sottolineare lo stesso Zerocalcare. In Kobane Calling non è rappresentata violenza, non c’è sangue, non è dipinta la carneficina del conflitto, ma è raccontata la lezione della guerra con i suoi suoni e parole. Intense quelle dei giovani, anziani, uomini e donne curdi: “sono quelli dell’Isis a non essere musulmani.” Zerocalcare è andato in guerra per poi narrare la sua guerra, quella di una persona estranea a quel contesto folle, all’orrore dell’odio. L’artista lentamente, pagina dopo pagina, ha preso una posizione: “Da qui non si passerà”. Nella sua guerra Zerocalcare ha saputo rappresentare le assurdità delle geometrie in gioco, dove non c’è pallone che rimbalza da una parte all’altra ma il fuoco delle armi: “a cucchiaio da sinistra a destra è Isis. Da destra a sinistra siamo noi. Basso-basso raso terra, è turchi.” In una guerra globale, talmente vicina che la distanza dalla pace alla guerra “saranno tre fermate di metro tipo Rebibbia – Santa Maria del Soccorso”. I disegni di Zerocalcare hanno lo splendore di un manifesto contro il male, un’opera che smuove la nostra coscienza. Dove le paure di Zerocalcare non possono essere eliminate ma solo affrontate e sconfitte.

Vignette che fanno imbestialire

Nel freddo gennaio del 2006 il giornale danese Jillands-Posten pubblicava le vignette “blasfeme” che innescarono la reazione del mondo islamico. In Cisgiordania per alcune ore si scatenò una vera e propria caccia all’uomo. Cuore della protesta la città di Hebron. La furia cieca della folla si rivolse contro la base della forza temporanea degli osservatori internazionali (TIPH), dove avevano trovato rifugio molti cooperanti europei. Gli assediati nell’edificio, tra cui il nucleo di carabinieri sotto il comando del colonnello Zubani, respinsero a mani nude o con l’ausilio di estintori gli aggressori che tentavano di entrare. Solo grazie all’intervento dei blindati israeliani fu possibile ristabilire la calma ed evitare uno spargimento di sangue. In queste settimane dell’inverno 2015 sfilano in migliaia contro Charlie Hebdo in Cecenia, Pakistan, a Gaza e anche a Ramallah e Hebron. Nelle principali città della West Bank, in quelle che erano un tempo le roccaforti di Fatah centinaia di cartelli inneggianti all’Islam, bandiere nere con scritte bianche. Le manifestazioni non sono state spontanee, ad indire la protesta è stato il Liberation Party, un gruppo islamico. Durante il lungo corteo la folla ha intonato cori che osannavano e incitavano al Califfato. È il segno dei tempi. L’Isis allarga la sua sfera d’azione, prende forma e spazio nella società palestinese. Per ora è solo propaganda contro un giornale satirico francese, ma domani cosa succederà?