Nemmeno il Natale placa la violenza in Medioriente, non ha fine l’interminabile scia di sangue in Terra Santa. La tensione è alta a Gerusalemme e a pochi chilometri, a Betlemme, è emergenza terrorismo. L’Intelligence palestinese, “al-Mukhabarat”, da giorni è in stato di massima allerta. Il timore è che affiliati allo Stato islamico del Califfato stiano preparando uno o più attentati durante le festività. Obiettivi sarebbero i turisti stranieri e i luoghi santi cristiani. Gruppi radicali, cellule imprevedibili che sono in grado di colpire ovunque. In maniera precauzionale le forze di polizia palestinese hanno arrestato in queste ore decine di presunti appartenenti ai gruppi salafiti. «Possano israeliani e palestinesi riprendere un dialogo diretto e giungere ad un’intesa che permetta ai due Popoli di convivere in armonia, superando un conflitto che li ha lungamente contrapposti». È l’appello pronunciato da Papa Francesco nella benedizione dell’Urbi et Orbi, durante la messa nel giorno di Natale. E mentre a Roma il Pontefice invoca la pace a Betlemme ed in altri centri della Palestina scoppiano nuovi disordini che vedono coinvolta anche l’auto che accompagna il Patriarca Latino di Gerusalemme. È l’onda lunga dell’Intifada dei coltelli, dei giovani 2.0, nata ad inizio autunno tra i quartieri degradati di Gerusalemme Est e allargatasi alle città dei territori palestinesi occupati. Terre di mezzo, come quella del campo profughi di Shuafat, l’unico dentro i confini di Gerusalemme, dove anche la polizia israeliana tende a tenersi alla larga. È il regno dei Tanzim, l’ala militare di Fatah a cui aderiscono migliaia di giovani palestinesi, il cui leader Marwan Barghouti è detenuto nelle carceri israeliane con condanna all’ergastolo per terrorismo. Tuttavia, negli ultimi anni anche cellule di Hamas e altre fazioni armate si sono radicate nel territorio. «L’intero campo profughi di Shuafat è pieno di armi, fucili M16, kalashnikov e pistole». Lo confermano in queste ore alcuni residenti del quartiere alla stampa internazionale, ostaggi delle violenze interne e dell’occupazione. Su quella pietraia rivolta verso la valle del Giordano sono passati e poi stati scacciati romani, crociati, ottomani, ebrei e giordani. Shuafat è un “piccolo quartiere“ che ospita, secondo gli ultimi dati dell’UNRWA (l’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) circa 18 mila palestinesi, di cui il 60% ha meno di 25 anni, ma è terra di nessuno, un non luogo dove l’emergenza è cronica. Nel campo imperversa una situazioni di malessere giovanile che è quasi incomprensibile vista da fuori. I giovani di non hanno una prospettiva, non hanno un lavoro, hanno abbandonato gli studi, vivono in veri e propri tuguri, appartamenti a più piani costruiti in “stile lego”: un piano sull’altro, aggiunto man mano che la famiglia si allarga. Non c’è controllo ne sicurezza nell’edificazione delle case che si trasformano in palazzi. Edifici praticamente attaccati l’uno con l’altro, talvolta tra una porta e l’altra c’è meno di pochi metri. Le strade del campo sono delle strette viuzze assimilabili a gallerie a cielo aperto. Ogni giorno la spazzatura, che da lì non esce, viene accumulata e poi bruciata, spesso a ridosso del muro di separazione per provocarne cedimenti. A Shuafat l’acqua scarseggia, arriva solo di notte e mancano le fogne. La gente vive un disagio giornaliero, in uno scenario di totale degrado, socio abitativo e culturale. È lì che nasce questa nuova Intifada che coinvolge, purtroppo, anche i bambini: indossano maschere o si coprono il volto con stracci, sono centinaia, lanciano sassi con le fionde, bruciano pneumatici, accendono petardi. Sono per lo più di età compresa tra gli 8 e i 13 anni, partecipano ai disordini spalla a spalla con i ventenni. Giocano a fare i grandi, imitano i fratelli maggiori, si dicono disposti a morire: «non abbiamo nulla da perdere», ripetono con tono di sfida. Sono i ragazzini della Terza Intifada che scelgono di “combattere” piuttosto che andare a scuola e studiare. Questa è anche la loro Intifada. Una rivolta vincolata ad una volontà di carattere politico, più o meno evidente. Perché come dice Papa Francesco: «Dove nasce la pace non c’è più spazio per l’odio».
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SENZA FINE
Gerusalemme. Non c’è freno all’ondata di terrore che scuote le strade di Israele. È Intifada, l’abbiamo vista crescere nelle passate settimane, a partire dalla battaglia che a Settembre scoppiò nella Spianata delle Moschee e che continuò per giorni, con i fedeli musulmani arroccati all’interno del complesso religioso e la polizia israeliana impegnata a disperdere i manifestanti. Sassaiole, molotov, petardi, lacrimogeni e granate stordenti. A scatenare i disordini la presenza di coloni israeliani e religiosi ortodossi che sono soliti entrare nel luogo sacro all’Islam per poi mettersi a pregare, infrangendo lo status quo e la proibizione imposta dalle massime autorità religiose dell’ebraismo. Altro elemento di tensione in quelle prime ore di Intifada 2.0 è stato il divieto ad alcune murabitat, le donne sentinelle volontarie musulmane che presidiano il luogo sacro assicurando che non venga “profanato da infedeli”, di entrare nella Spianata. Poi nei giorni a seguire la “rivolta” si è allargata anche alle altre città israeliane. Tristemente ha fatto la comparsa quello che è divenuto l’emblema di questa Intifada 2.0: il pugnale. Armati di coltelli uomini e donne palestinesi aggrediscono i passanti. L’epilogo di questi episodi è quasi sempre lo stesso: l’attentatore riverso a terra circondato dalla sicurezza, spesso il corpo è inerme crivellato di colpi. L’Intifada dei coltelli assume di giorno in giorno i connotati di una protesta popolare, in gran parte minorenni dei quartieri arabi di Gerusalemme Est. A differenza delle precedenti “rivolte” è assente un cappello politico, questo è un movimento generazionale con richiami ideologici confusi e indistinti “mescolano anarchia e religione”. Una Intifada che vede le due principali organizzazioni palestinesi Hamas e Fatah assolutamente non in grado di prenderne il controllo e che rischiano di vedere nuove forze politiche emergenti aumentare il consenso nella regione. D’altro canto l’attuale leadership politica palestinese, a Gaza come a Ramallah, non gode di consenso tra i giovani e per questo è relegata ad un ruolo subalterno e protesa ad appoggiare almeno verbalmente la protesta. Una Intifada di ragazzi che passano le giornate a navigare sul web, tra cinguettii e libro delle facce. Da internet scaricano decine di filmati postati durante gli scontri con l’esercito israeliano, oppure altri video di altri luoghi del Medioriente in conflitto, il filo conduttore è sempre la violenza. È il web ad influenzare questa nuova generazione di shabaab che si lanciano in attacchi terroristici armati di pugnale. Pronti a morire nel nome del fanatismo anti ebraico. Giovani terroristi per i quali il martirio prima di essere il raggiungimento del Paradiso è un video virale. Ragazzi che vogliono essere ricordati non nelle pagine dei libri di storia ma da Wikipedia o da eroi di Youtube, per una generazione dove non c’è separazione tra il mondo reale e quello virtuale. Intanto Papa Francesco durante l’Angelus della domenica lancia un accorato appello: “In questo momento c’è bisogno di molto coraggio e molta forza d’animo per dire no all’odio e alla vendetta e compiere gesti di pace … Nell’attuale contesto medio-orientale è più che mai decisivo che si faccia la pace nella Terra Santa.” Mentre, in queste ore, il quotidiano francese Le Figaro ha riportato la notizia dell’intenzione del governo di Parigi di presentare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una proposta che prevede l’invio di osservatori internazionali con lo scopo di “verificare e impedire violazioni dello status quo” nella Spianata delle Moschee. Al testo dell’iniziativa, secondo fonti giornalistiche, lavorerebbe anche la Spagna. Israele però respinge una simile soluzione che secondo il vice ministro degli esteri Tzipi Hotovely sarebbe una chiara violazione della sovranità di Israele.
IL LUOGO SACRO PIU’ CONTESO
Gerusalemme. Ancora una volta gli occhi del mondo guardano inermi la scena della recita della Gerusalemme contesa. Il teatro è il Monte del Tempio o Spianata delle Moschee due nomi per il luogo da settimane al centro delle cronache e degli equilibri diplomatici internazionali. La protesta in Terra Santa si muove di qua e di là dal muro di separazione. Scontri in Palestina, nei campi profughi di Ramallah e Betlemme, negli insediamenti e poi sino ai confini della Striscia di Gaza. In Israele la violenza corre dalla Galilea sino al deserto del Neghev. Anche a Jaffa e Tel Aviv le due città israeliane contigue e laboratorio storico di coesistenza interreligiosa sono contagiate dall’ondata di protesta. A Gerusalemme le sirene delle camionette e delle ambulanze non smettono di suonare nemmeno al calar del sole. Il conto dei feriti e dei morti cambia di ora in ora. La causa scatenante di questa nuova Intifada, quella dei giovani con i coltelli che si parlano attraverso i social, l’Intifada 2.0, è il presunto tentativo da parte del governo Netanyahu di cambiare lo status quo della Spianata. Andando al centro del problema emerge che questa è una “rivolta” fomentata dalla frustrazione di una generazione di nati disperati. Uomini e donne, dai 16 ai 30 anni. Impugnano coltelli e si scagliano sui passanti per poi essere, nella maggior parte dei casi, crivellati di colpi. Sono pronti a morire non tanto e solo per una causa ma quanto per una religione, per il suo simbolo: la moschea di Al Aqsa e la Spianata. Su quelle rocce la tradizione biblica vuole che si svolse il sacrificio di Isacco e che per l’Islam fosse il punto dell’ascesa del profeta Maometto ai 7 cieli. Nell’antichità il re Salomone vi eresse un tempio per ospitare l’arca dell’alleanza. Distrutto dai babilonesi e ricostruito ancora più grande da Erode. I romani sulle macerie del tempio israelita edificarono un luogo di culto a Giove. Nel Medioevo ospitò i cavalieri templari dopo che la città venne conquistata dai crociati espugnando le mura proprio in quel preciso lato della città. Quasi un secolo dopo nel settembre del 1187, entrava vittorioso tra le sue mura il Saladino che fece purificare i luoghi sacri dell’Islam con acqua di petali di rose. Con l’arrivo degli Ottomani il Kotel – Muro del Pianto – divenne venerato dagli ebrei. Ma per quel luogo conteso la pace è una sottile linea rossa, tenue e labile. Al centro di violenti durante il mandato britannico della Palestina tra ebrei e arabi. Re Abd Allah I di Giordania nel luglio del 1951 giaceva a terra colpito a morte da un palestinese. Il 7 giugno del 1967 mentre imperversava la guerra dei Sei giorni i paracadutisti della 55° brigata israeliana prendevano la città vecchia e issavano nella Spianata la bandiera con la stella di Davide. Poi rimossa per volontà dello stesso generale Dayan, conoscitore e attento alle sensibilità arabe. Con gli accordi di pace all’area della Spianata venne garantita piena indipendenza da Israele, che mantiene il diritto di controllo, dalla porta di Mughrabi, dell’accesso al luogo santo per motivi di sicurezza. Il sito, aperto al pubblico, è gestito de jure da una fondazione islamica, la Waqf che fa capo alla famiglia reale giordana e che mantiene l’ordine, regola le visite e proibisce la preghiera ai fedeli di altre religioni, tuttavia, numerosi sono gli ortodossi ebrei che vi si recano a pregare. Nel 1990 la Spianata fu teatro di una rivolta palestinese causata dalla posa di una pietra angolare da parte di un gruppo ebraico di ultra ortodossi che proprio lì vorrebbe la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme per la venuta del Messia. Le violente proteste da parte palestinese e la reazione israeliana provocarono la morte di una ventina di persone e centinaia di feriti. L’episodio passò alla storia come il lunedì nero. Il 28 settembre del 2000, l’allora leader dell’opposizione in parlamento, nella Knesset, Ariel Sharon, accompagnato da una scorta armata, passeggiò nella Spianata, fu l’inizio della seconda Intifada. La realtà del contesto complica e amplifica. Basta camminare per il quartiere ebraico della città vecchia, dove la vetrina di un negozio espone un modellino della città: nuove architetture compongono il plastico ed è ben visibile la costruzione del nuovo tempio ebraico, che colpisce perché è collocato proprio sull’attuale spianata delle moschee. A qualche metro di distanza nella zona araba e musulmana in un bar del suk campeggia un poster: è una recente mappa della Palestina, ma senza lo stato di Israele. Tre mila anni di discordia e molti altri giorni di violenza a venire nel nome di un piccolo lembo di roccia.