Chiuso il campo profughi di Idomeni in Grecia. Sgomberati i 9 mila migranti che in questi mesi hanno tenacemente resistito, con l’aiuto delle organizzazioni umanitarie, in attesa di passare il confine per la Macedonia, vivendo in condizione non facili. Sorto spontaneamente nel 2014 quando la rotta balcanica divenne “un’autostrada” trafficata da profughi siriani. Idomeni è nel corso dei mesi divenuto un imbuto sempre più stretto, e l’insediamento che avrebbe dovuto essere temporaneo si è trasformato in un accampamento di tende e materassi. Idoneo ad accogliere 2 mila persone e non certo le quasi 10 mila ammassate fino a pochi giorni fa. Tra fango ed emergenza sanitaria. Tra rabbia e delusione, si allontana per molti la possibilità di potersi ricongiungere con i parenti nel Nord Europa. Con rassegnazione in molti sono saliti sui pullman destinazione Salonicco, ad attenderli i centri di identificazione, altri invece si sono mossi con mezzi di fortuna sparpagliandosi nel nord della Grecia. Il viaggio della speranza, e del dolore, non è ancora finito. Se è unanime il giudizio per cui Idomeni andava chiuso, il problema di fondo resta: Idomeni è esistito, è inutile nasconderlo. E il problema dei profughi è tutt’ora una emergenza drammaticamente in essere. Sfortunatamente le barriere hanno vinto, segnando uno dei momenti più cupi della storia dell’Europa contemporanea. Il grido di tormento di migliaia di persone in fuga da guerre e povertà è stato ammutolito. Le vite dei migranti sono state demonizzate in modo sprezzante. Il loro diritto ad un mondo migliore calpestato. Il vento dell’intolleranza e scelte politiche sbagliate segnano profondamente il nostro tempo, nel proliferare di una dialettica ideologizzata che tende inesorabilmente verso l’inasprimento del confronto tra popoli, invece di promuovere civile attenzione all’incontro tra culture diverse. A Idomeni l’unico rumore che risuona in queste ore è quello delle ruspe e dei camion, per il resto è silenzio, vuoto e desolazione. Di realtà come Idomeni ne esistono tante sparse in tutto il mondo, ci sono Kakuma e Dadaab. I due più importanti campi profughi del Kenya, che secondo quanto annunciato dal governo di Nairobi verranno presto chiusi. In Kenya ad oggi risiedono, secondo fonti dell’Unhcr, oltre 600 mila somali giunti a partire dal 1991, anno dell’inizio della guerra civile nel Corno d’Africa. 350 mila sono “ospitati” nel campo profughi di Dadaab. Una città nella città. Ad Aprile nel Paese è scattata la revoca ai cittadini somali dello status di rifugiati “a prima vista”, che prevedeva la protezione umanitaria immediata fuori dai confini nazionali. Purtroppo, in questi anni, a complicare un contesto già fragile ha avuto un peso determinante l’insorgere della violenza terrorista, affiliati al gruppo islamico di Al Shabaab si sono ripetutamente infiltrati in Kenya per compiere atroci attentati. Vittime della vendetta fondamentalista spesso sono stati proprio i profughi somali in fuga. Oggi per rifugiati somali c’è un bivio mortale: restare in Kenya senza aiuti, alloggio, cibo, medicinali oppure intraprendere la via del ritorno, con i rischi di rientrare in un paese non ancora rappacificato. La scelta, qualunque essa sia, è probabilmente un suicidio collettivo. La reazione internazionale a questa spaventosa prospettiva non c’è, la diplomazia per l’ennesima volta è divisa, eclissandosi. A Istanbul il summit sulla questione umanitaria mondiale, il primo, è stato un fiasco totale per passività e remissività decisionale. Con la Turchia di Erdogan a lanciare teatrali accuse e minacce all’Europa. L’ennesimo vicolo cieco della comunità internazionale in una sede poco indicata eticamente per una conferenza di tale portata. Mentre assiepati nei barconi della morte in migliaia salpano in continuazione dalle coste libiche, per poi capovolgersi o inabissarsi nelle acque del canale di Sicilia. I naufraghi più fortunati sono tratti in salvo dalle navi della flotta “umanitaria”, in una azione di soccorso senza sosta. Al G7 di Ise Shima in Giappone i grandi della Terra hanno convenuto di aumentare l’assistenza globale ai rifugiati e la cooperazione allo sviluppo, incoraggiare l’ammissione temporanea e gli schemi di ricollocamento. Ad oggi l’unica soluzione plausibile sulla carta è il Migration Compact.