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Libia, due leader una poltrona

Libia, diario di una guerra alla porta. La battaglia di Sirte è conclusa dopo intensi bombardamenti aerei e il cannoneggiamento della marina. Decine di morti e centinaia di feriti. Le truppe governative hanno preso il controllo dei luoghi nevralgici, incluso il porto della città. Sconfitta la roccaforte del terrorismo fondamentalista nel Maghreb. Le milizie del Califfato “occidentale” battono in ritirata, probabilmente nel tentativo di ricomporre le fila dell’esercito nella zona interna del paese. Il Fezzan potrebbe a breve trasformarsi in un nuovo campo di battaglia. L’esito della vittoria di Sirte tuttavia induce dubbi sulla esatta cifra dei seguaci dell’Is schierati in suolo libico, stimato intorno alle 6 mila unità. Gli uomini del terrore impegnati negli scontri di queste settimane erano solo poche centinaia. Il dato positivo è che la bandiera nera è ammainata dal Golfo della Sirte, dove oggi sventolano quelle dell’esecutivo di unità nazionale (GNA) guidato da Al Serraj. Ma ancora una volta a smuovere le acque libiche, già di per se turbolenti, è il generalissimo Khalifa Haftar, figura controversa che deve la sua rapida ascesa al potere agli USA e all’Egitto. Messo in disparte dai ruoli chiave del governo di Al Serraj l’uomo forte di Tobruk ha deciso di non sottostare all’esecutivo di unità nazionale e per contro, dopo un primo tentativo di marciare alla volta di Sirte, ha preferito non essere coinvolto in questa decisiva battaglia, ritirando le proprie truppe su posizioni defilate. Haftar e Al Serraj, due leader per una poltrona e due opposte visioni: federalista il militare e centralista l’altro. Un confronto, trasformatosi talvolta in aperta ostilità, che peserà sul futuro della Libia e sull’assetto geopolitico della regione. Intanto sui cieli della Libia volano da tempo silenziosi droni ma anche i rumorosi bombardieri del Pentagono. Secondo fonti del Washington Post una piccola élite dei corpi scelti dell’esercito a stelle e strisce è dispiegata nelle città libiche di Misurata e Bengasi sin dalla fine dello scorso anno. Due squadre operative, meno di 30 soldati. Ufficialmente non sono lì, occhi e orecchi invece si. Di fatto sono la testa di ponte di una prossima missione, vincolata alle condizioni richieste dal Governo italiano. La strategia fortemente appoggiata dal ministro Gentiloni si è rilevata corretta, producendo risultati sul campo, spingendo i libici ad affrontare e cacciare il Daesh. Il pericolo che la ricchezza primaria della Libia cada nelle mani e tasche sbagliate è un aspetto allarmante così come l’eventualità di un’ondata massiccia di profughi verso le coste italiane. Una emergenza umanitaria che investirebbe anche l’Europa e la sua moralità bipolare. In queste ore l’Unicef pubblica statistiche agghiaccianti sulla situazione dei migranti: “La maggior parte dei minori che hanno attraversato il Mediterraneo fino all’Italia quest’anno erano accompagnati da adulti. Purtroppo è incrementato il numero di minori non accompagnati che sono saliti a bordo di barche insicure e pericolose”. Decine di migliaia di bambini ogni giorno mettono a repentaglio la propria vita intraprendendo il viaggio della speranza verso il Vecchio Continente. E con l’arrivo dell’estate il numero è destinato ad aumentare esponenzialmente. Per fronteggiare il terrorismo ed evitare una crisi catastrofica ci sono teoria e pratica: la prima riguarda il pattugliamento delle coste e il blocco navale, la seconda la necessità di scendere con gli stivali nella sabbia delle dune. In Libia la teoria è in grado di incidere ma non di annullare il problema dei migranti. Mentre la pratica rischia di essere un’incognita.

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“Muove nella giusta direzione” il premier incaricato Fajez Al Serraj, il giudizio del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni bene descrive l’evolversi della situazione politica in Libia. L’indirizzo diplomatico della Farnesina, tra speranza e apprensione, è altrettanto chiaro: pieno sostegno al governo di riconciliazione sia “sul piano politico, umanitario che economico”. È un segnale d’imprimatur al “coraggio” del leader libico, sostenuto dall’ONU per riordinare il paese, che è riuscito nelle passate settimane a insediarsi e mettere insieme una maggioranza di parlamentari all’interno del Congresso. Aprendo un percorso politico che prevede lo scioglimento del Consiglio di Stato e poi, in una seconda e più complessa fase, la riunificazione con l’amministrazione di Tobruk per poter smantellare le milizie, attivare il processo elettorale e infine cacciare l’Is. Incrociando le dita la soluzione al disastro libico potrebbe aver imboccato la strada giusta. Chi sosteneva che Al Serraj avrebbe fallito prima ancora di cominciare a tessere la sua tela deve per ora aspettare e magari domani ricredersi di tanto scetticismo. Riconciliazione, stabilità e lotta al terrorismo sono le sfide di Al Serraj. La lezione che abbiamo ereditato dalla Libia è che con l’intervento militare della NATO abbiamo favorito lo scoppio di una guerra civile che ha aperto la strada al fondamentalismo islamico e destabilizzato la regione, dal Mali al Burkina Faso. I trafficanti di armi hanno svuotato e poi messo sul mercato gran parte dell’arsenale del Colonnello Gheddafi, arricchendosi. Purtroppo la qualità della vita della stragrande maggioranza della popolazione libica è peggiorata notevolmente a causa della drastica riduzione della produzione petrolifera. Oggi in molti centri, di quello che era considerato il paese con il più elevato tenore di vita tra le realtà africane, scarseggiano elettricità, generi alimentari e medicinali. «In risposta alla grave situazione umanitaria in corso in Libia ed accogliendo la richiesta di aiuto» il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale ha disposto un finanziamento multilaterale di emergenza di 1 Milione di € a favore del Programma Alimentare Mondiale. Intanto i C130 dell’areonautica volano in Libia con a bordo medicinali e tonnellate di cibo. Passi importanti che rischiano di essere vanificati se la rotta dei migranti per e verso l’Italia dovesse riprendere con maggiore intensità, una minaccia pronta a trasformarsi in un’arma politica contro Al Serraj: “la Libia è il futuro ground zero -epicentro- dei migranti che cercheranno di raggiungere l’Europa”. È l’analisi, poco ottimista, dell’ex comandante della NATO, l’ammiraglio statunitense James Stavridis. Dalla primavera del 2015 la marina militare italiana è alla guida della missione di pattugliamento nelle acque al largo della Libia EUNAVFOR MED, in codice operazione Sophia: oltre 11 mila salvataggi, 58 scafisti arrestati. Avvicinare la flotta internazionale in prossimità delle coste potrebbe diventare a breve una necessità umanitaria. La tratta dei migranti è un business per le organizzazioni criminali, e una fonte di sostegno alle casse dell’Is, la cifra è stimata intorno ai 300 milioni di dollari l’anno, proventi della tassazione imposta agli scafisti del Golfo della Sirte. In Libia il traffico di esseri umani rende più del petrolio. Ma il secondo è il piatto più appetitoso per le multinazionali, a partire dall’italiana Eni. Nella corsa agli idrocarburi libici e con un certo senso di colpa per aver provocato un caos totale Londra si è detta disponibile a fornire aiuti militari al neo governo. Per il presidente della commissione esteri di Westminster, Crispin Blunt, tale iniziativa dovrebbe svolgersi senza un dispiegamento di forze sul campo, “che sarebbe percepito come una invasione”, ma con l’invio di mille “formatori” militari al fianco di personale italiano e francese. L’importante è non ripetere l’irripetibile.