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IL MALINOWSKI DI FEDERICA MARTINY

Quando penso ai maestri nello svelare l’arcano mondo dell’altrove, – figure che si immergono nel profondo dubbio del lontano ed emergono raccontandoci a parole tanto le evoluzioni o involuzioni degenerative della società occidentale (coloniale e post), quanto offrendoci una chiave di accompagnamento nella ricerca della comprensione di chi è veramente “l’altro” -, istintivamente mi riferisco Joseph Conrad, che con la sua morale “dell’orrore” è fonte di ispirazione. Così come non potrei fare a meno di appellarmi ai reportage di Ryszard Kapuściński, che con la retorica del cronista si spinge fino all’esaltazione narrativa del “leone e non del cacciatore”. Sia Conrad che Kapuściński sono polacchi come Wlodek Goldkorn, giornalista che nell’arco della sua carriera (lungamente passata all’Espresso) ha saputo caratterizzare come pochi l’analisi storiografica e culturale contemporanea, e che con le sue inchieste ci apre nuove finestre su società attive, sconosciute e parallele. A questa nobile tradizione di illuminanti intellettuali-viaggiatori polacchi, grazie ad un libro di Federica Martiny, oggi devo aggiungere anche il pensiero di Bronislaw Malinowski. Pioniere, a cavallo delle due guerre mondiali, della scienza che da “voce ai nativi”. Molto meno conosciuto del bulgaro Cvetan Todorov, non per questo tuttavia meno importante nella storia dell’antropologia umanistica, che si dibatte tra filosofia e diritto. «Accanto al solido schema della costituzione tribale e degli elementi culturali cristallizzati che formano lo scheletro, accanto ai dati della vita quotidiana e del comportamento usuale che sono, per così dire, la sua carne e il suo sangue, vi è ancora da registrare lo spirito, cioè i giudizi, le opinioni e le espressioni degli indigeni». Riflessione che Malinowski esplicita in “Argonauti del Pacifico Orientale”, il libro di “avventura”, senza essere un romanzo, ambientato nelle isole Trobriand dove soggiornò a lungo. Unendo pratica e teoria al suo lavoro di ricercatore. La lezione etnografica di Malinowski è la cornice della lettura proposta dalla studiosa Martiny nel suo recente testo edito da Pisa University Press (dal titolo Malinowski e l’idea della reciprocità nel diritto). Opera di rigoroso valore scientifico che ci riporta ad un dibattito talvolta mal coniugato e oggettivamente tormentato: «Siamo infatti abituati a pensare il nostro incontro con l’alterità attraverso l’antropologia, ma il discorso deve essere declinato all’inverso: come Malinowski non era più lo stesso uomo dopo essere entrato in contatto con gli indigeni, allo stesso modo anche la vita di questi ultimi e le dinamiche della loro esistenza nel villaggio sarebbero inevitabilmente state in qualche misura diverse senza l’arrivo di un uomo bianco europeo e senza la permanenza insieme a loro. Qui risiede il paradosso dell’osservazione: la comunità studiata da Malinowski è una comunità che nel suo venire osservata osserva a sua volta e nell’entrare in contatto con l’altro da sé cambia». Nel testo Federica Martiny espone una doviziosa difesa di questo intellettuale spesso criticato, e talvolta dimenticato, non estranea al personaggio e al periodo storico ma basata su termini assoluti: «Che alcuni abbiano potuto vedere in Malinowski un appiglio per propugnare i diritti umani in Africa e che altri vi abbiano invece potuto trovare una giustificazione teorica alle politiche di segregazione, non significa evidentemente che egli volesse dire nessuna delle due cose. Eppure, il fatto che queste interpretazioni siano state proposte ci restituisce il senso della complessità di un problema che pure, come in queste brevi pagine abbiamo cercato di mostrare, non può essere indagato senza considerare il contesto di riferimento fatto della nascita e dell’autolegittimazione di una disciplina che proprio con Malinowski teorizza la possibilità di dare voce agli indigeni che studia». Approccio che nell’era del selfie e della globalizzazione imperfetta, o assurda, tendiamo volutamente a scansare.

ec