Per governare non basta vincere le elezioni, occorre avere la maggioranza. E raggiungere il 50 + 1 con un sistema elettorale proporzionale non è semplice. Amalgamare una coalizione di governo può creare dei problemi. Trovare degli alleati leali nel gioco della politica significa ripartire il potere, distribuire anche le poltrone e, soprattutto, condividere un programma. In modo da accontentare tutti o almeno non scontentare troppo qualcuno rispetto ad altri. Ma le variabili in politica sono tante e il risultato finale talvolta non è prevedibile, nemmeno se si usa il pratico manuale Cencelli. Prendiamo ad esempio il caso di Israele. La Knesset, il Parlamento di Gerusalemme, è composto da 120 deputati. In Israele quindi bastano 61 seggi per governare. Ovviamente è una soglia minima che non assicura stabilità, con quei numeri persino un banale raffreddore potrebbe far cambiare le sorti all’esecutivo. Questo è il dilemma che si deve essere posto spesso Benjamin Netanyahu in queste settimane che sono seguite al 17 marzo scorso, la giornata nella quale gli israeliani gli hanno ridato fiducia premiandolo con un voto che ha colto di sorpresa tutti, sia in patria che all’estero. Al leader della destra, sfumati i tentativi di istituire un governo d’unità nazionale, non restava che scegliere tra rinunciare, ammettendo il fallimento, o la formazione di un governo fragile nel tentativo di prendere tempo. Netanyahu ha scelto la seconda via, ci ha pensato a lungo prima di dare vita al suo ennesimo governo e diventare il Primo Ministro più longevo della storia di Israele, persino dello stesso padre fondatore David Ben Gurion. Tuttavia, questa volta il falco della politica israeliana è riuscito a trovare la quadra per il rotto della cuffia, con una maggioranza risicata e a tempo quasi scaduto. Per chiudere la partita ha dovuto accontentare tutti. Con il risultato finale che il numero dei ministri e’ altissimo, il più alto da quando la legge impone di non superare i 18 dicasteri. L’espansione delle poltrone si rifletterà anche sul piano dei costi, elevando anche quelli. È chiaro a questo punto che il nuovo governo è il frutto di un parto lungo e doloroso per Netanyahu. Il travagliato negoziato è costato la rottura di una storica “amicizia”, quella tra il premier e il suo fedele ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman. I sei seggi raccolti dal partito Yisrael Beiteinu avrebbero garantito una maggiore solidità e durata a Netanyahu. E non avrebbero di fatto cambiato la natura di un governo apertamente spostato a destra. In mano ai partiti religiosi che chiedono a gran voce nuove politiche di esenzione fiscale per le fasce più povere della popolazione e impongono come condizione di: “alzare il salario minimo”. Un Gabinetto di Governo dove si dovranno ascoltare le richieste della nuova formazione di centrodestra Kulanu, partito guidato dall’ex Likud Moshe Kahlon e futuro Ministro delle Finanze: “Non c’è un partner palestinese per la pace”. Un esecutivo sotto scacco dell’estrema destra nazionalista di Naftali Bennet: “Non vedo in un prossimo futuro la possibilità di arrivare alla pace con i palestinesi”. Qualcuno ricorderà, ad urne appena chiuse, dal palco della convention del Likud in festa per i risultati dei primi sondaggi, Netanyahu aver esclamato: “La prima telefonata che farò nel momento che avrò i dati ufficiali sarà a Bennet”. Viene da pensare che è stata una delle telefonate più lunghe della storia, è durata 42 giorni e forse non sarà l’ultima, se il “falco” vorrà governare davvero in Israele.
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Il falco dispiega le ali, anche controvento
In Israele vince Benjamin Netanyahu, contro tutti i pronostici che lo davano per sconfitto. Il leone della politica israeliana ha, durante gli ultimi giorni e le ore del voto, movimentato le acque e compiuto un vero e proprio colpo da campione, smentendo tutti i sondaggi che lo davano sconfitto. Netanyahu non risulterà simpatico ma indubbiamente è stato ancora una volta assolutamente gaon, geniale. Quella di Netanyahu è una vittoria a 360°. Perché ha raccolto 30 seggi, la metà di quelli necessari per governare; portato di nuovo il Likud, un partito sempre più “personale”, ad essere la prima forza del paese; demolito il fronte di centrosinistra e oscurato la stella nascente di Herzog; ridimensionato gli storici alleati di governo, in particolar modo i nazionalisti di Bennet e il partito dell’ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman; ed infine, cosa non da poco, ha convinto gli elettori israeliani a non disertare le urne, la percentuale dei votanti è stata alta, oltre il 70%. A questo punto Netanyahu non avrà il vincolo di formare un governo di coalizione nazionale, come chiede il capo dello Stato, Reuven Rivlin, può allearsi con le forze politiche di destra a lui più vicine, riportandole al governo. Ha poi nei fatti, enfatizzando nell’opinione pubblica il pericolo, “ghettizzato” il voto arabo, terza forza in Israele. Il futuro Primo Ministro ha inoltre, mandato un chiaro messaggio ad Obama e ai paesi europei: è con lui che devono trattare nei prossimi anni, nolenti o dolenti. Ha con questo risultato azzittito le critiche dei vertici dell’esercito, dimostrando che il loro peso nell’influenzare la società è inferiore al suo carisma politico. Domani Netanyahu non dovrà ascoltare i suggerimenti di nessuno, tranne quelli della vicina, anche politicamente, moglie Sara. Il falco è libero di volteggiare, il problema di fondo è dove volerà? Verso il riconoscimento internazionale della sua figura di grande statista, come è stato in passato per due storici primi ministri, Yitzhak Rabin e Ariel Sharon, oppure spiccherà il volo verso nuove guerre e una politica che isolerà ancor di più Israele? Come trasformerà il consenso ricevuto in una proposta complessiva di governo, che dia risposte ai problemi economici e sociali di una grande parte della popolazione ed insieme costruisca la convivenza con i paese vicini? Sono tutte domande che a breve avranno una risposta. A riguardo abbiamo raccolto l’opinione di Itzhak Rabihiya, giornalista e portavoce del partito laburista israeliano ai tempi di Ehud Barak: “Oggi è una pessima giornata per il fronte progressista, per chi è convinto della necessità di aprire un dialogo costruttivo con i palestinesi. La vittoria di Netanyahu è schiacciante, senza ombra di dubbio. Ha vinto puntando ancora una volta sulla paura degli israeliani, evocando la minaccia palestinese e quella iraniana. Magistralmente, ahimè, ha saputo convincere gli elettori della necessità di una leadership forte, la sua. Mentre il centrosinistra ha fallito sotto questo aspetto, non ha saputo capitalizzare il vantaggio iniziale e aggregare l’elettorato. C’è da anni nel centrosinistra una deficienza di leadership che diventa palese il giorno dopo il voto. Vedete io, dopo questo risultato, mi auguro che Netanyahu dimostri coraggio, che non scelga la via di un governo di destra pura ma che apra anche al centro, che bilanci le tendenze dell’estrema destra con i liberali di Lapid e forse anche con il centrosinistra di Herzog e Livni. Per il bene di Israele dovrà trovare un partner palestinese con cui dialogare in maniera diretta, altrimenti agire attraverso la mediazione europea o di Obama.” A Zoughbi Zoughbi, politico, pacifista e fondatore del Palestinian Conflict Resolution Centre, abbiamo chiesto di commentare il voto visto dal lato palestinese. Nelle sue parole c’è rassegnazione e poca speranza: “Le elezioni sono sempre un beneficio alla democrazia. Nel caso israeliano la vittoria di Netanyahu è l’affermazione di una destra che si pone in contrasto aperto con la Comunità Internazionale, una politica che non cerca soluzioni al conflitto israelopalestinese. La politica e le parole di Netanyahu buttano acqua sul fuoco del processo di pace. E annunciano nuove catastrofi.”
OPERAZIONE ABBATTERE IL FALCO
Il suo nome non è Bond, James Bond ma Dagan, Meir Dagan. È l’ex capo dei servizi segreti israeliani, il deus ex machina dell’intelligence forse più potente al mondo. Dagan è l’ultima personalità in ordine cronologico ad entrare prepotentemente nella campagna elettorale 2015. Il soldato pluridecorato, eroe di guerra, leggenda dei corpi speciali, spia con licenza di uccidere e decidere chi eliminare, è salito sul palco della manifestazione di Tel Aviv e ha pubblicamente sparato a zero contro Netanyahu. La piazza Rabin gremita di sostenitori del “cambiamento” ha ascoltato in silenzio le parole dell’uomo che negli ultimi decenni ha protetto la loro sicurezza e quella del Paese. Calvo, sbarbato, abito scuro, occhiali squadrati e sguardo glaciale, piegato ma non spezzato da una terribile malattia che ha lasciato il segno e con la quale lotta da anni, uomo di cultura e appassionato d’arte, ha raccolto gli applausi della folla, lui abituato a stare in disparte, a muovere le pedine dietro le quinte, si è preso il suo spazio di notorietà e pubblicità. Ha parlato con voce flebile, senza retorica ma con semplicità: “Israele è circondato da nemici. Ma non sono loro che mi fanno paura. Io sono preoccupato della nostra leadership.” È apparso, in alcuni tratti del suo discorso, visibilmente emozionato, anche Bond almeno una volta ha pianto, per poco, ma ha versato lacrime vere. Piangere è umano. Quanto Dagan sia umano non è detto saperlo, la spia nata in Russia anzi in USSR (leggenda vuole che la madre abbia partorito sul treno mentre la famiglia scappava dalla Polonia occupata dai nazisti), ha dimostrato di essere un leader politico e carismatico o almeno non nasconde le potenzialità per poterlo, a breve, diventare. In Israele è cosa assai comune che un militare in carriera possa passare “in prestito” alla politica, non c’è da essere scandalizzati. Fatto sta che Dagan è divenuto un elemento chiave della campagna di discredito verso Netanyahu, le sue dichiarazioni affossano, giorno dopo giorno, la credibilità del premier. Suona strano che proprio lui così schivo ai sensazionalismi, ai riflettori, alla fama, sia diventato l’icona del centrosinistra israeliano e il front man che “sbugiarda” costantemente il capo del governo. Lui che certo non è mai stato uomo dichiaratamente di sinistra, nominato al vertice dell’Istituto da Sharon e poi in passato lodato dallo stesso Netanyahu. La rottura dei rapporti tra i due è legata alle recenti crisi di Gaza e al presunto dossier iraniano. L’ex capo dell’Agenzia è strenuamente critico sul pericolo nucleare paventato dal Primo Ministro israeliano: “Netanyahu ha causato ad Israele il peggior danno strategico.” E nel suo commento, alle parole pronunciate recentemente dal leader israeliano al congresso americano, pare sia stato colorito e caustico: “stronzate”. Ovviamente Netanyahu non ha risposto agli attacchi di Mr Mossad. Offendere, inimicarsi l’uomo che ha raccolto e spulciato nei segreti di tutti non è certo una bella mossa politica, a prescindere dagli scheletri che nascondiamo nell’armadio. Nel 2015 i servizi segreti israeliani sono ancora circondati da un alone di mistero e dalla fama d’infallibilità, al pari dei servizi di Sua Maestà, almeno di quelli cinematografici. “Vorrei ricordarti che questa operazione andava condotta con una certa discrezione…” Ammoniva M, capo del MI6, con queste parole l’agente Bond. Discrezione è sinonimo di servizi segreti. Dagan ha fatto cose che molti di noi ignorano, segreti coperti da un profondo silenzio tombale e dalla ragion di stato. La voce dell’ex 007 resta molto ascoltata e rispettata nella società israeliana. L’uomo che celava segreti oggi infiamma le piazze e guida il movimento per il cambiamento, vuole sconfiggere Netanyahu. L’operazione “abbattere il falco” è in atto. Parola di Dagan, Meir Dagan.