Mario Draghi in Israele e Cisgiordania. A Gerusalemme per incontrare i vertici dello stato israeliano e a Ramallah quelli dell’Autorità nazionale palestinese. Nell’ultimo colloquio a Roma con il presidente Abu Mazen, lo scorso novembre, Draghi aveva sottolineato che “una soluzione a due Stati, giusta, sostenibile e negoziata tra le parti resta la chiave per una durevole stabilizzazione regionale”. Negoziati di pace che ad oggi sono impantanati da veti incrociati che impediscono qualsiasi progresso.
Concretezza e diplomazia sono invece le ragione alla base del viaggio del presidente del Consiglio italiano in Israele, alla ricerca delle strategiche forniture di gas alternative a Mosca. Al centro della cooperazione tra i due stati del Mediterraneo anche sicurezza alimentare, innovazione, import ed export. Ragioni bilaterali a parte, lo scoppio del conflitto in Ucraina sta rapidamente ridisegnando la geopolitica internazionale e le sue geometrie. Non a caso questa visita ufficiale giunge prossima al G7, a ridosso del vertice della Nato di Madrid, e dell’arrivo in Medioriente di Biden.
L’indicazione di Washington è di serrare i ranghi nella battaglia a Putin. Semplice diktat agli alleati, ma con qualche distinguo. L’Italia con l’inasprimento delle sanzioni alla Russia ha bisogno prioritario di implementare il fabbisogno energetico, Israele del riconoscimento della sua “neutralità diplomatica” nel conflitto. Due approcci, dovuti a diverse finalità, che hanno più di un punto in comune.
Italia ed Israele condividono attualmente l’esperienza di due governi di “unità nazionale” e di una forte instabilità politica alla porta. Se Draghi può contare su un forte centralismo di governo che resiste alle fibrillazioni della sua maggioranza politica pur con l’avvicinarsi del voto, il variegato e surreale assemblement a guida Bennett, che riunisce destra, centro, sinistra e gode dell’appoggio esterno del partito arabo islamista, è sempre più una fittizia invenzione.
Creato unicamente in funzione anti-Netanyahu, in questi ultimi dodici mesi, attraversati da pandemia e guerra, un po’ tutti si erano illusi che la stella del longevo ex premier fosse entrata nella fase calante, relegato all’opposizione e non rappresentasse più un problema politico. Erroneamente si è creduto che “il falco” della destra avesse svuotato la faretra delle frecce da scagliare. Mentre, la coalizione di governo con il passare del tempo non ha potuto contenere e comprimere le distanze ideologiche esistenti al suo interno, liquefacendosi.
Tra defezioni, divisioni, protagonismi, la vita del primo esecutivo post-Netanyahu è decisamente molto accidentata. A questo punto un cavillo puramente “tecnico” (basta solo un’altra diserzione tra le file della maggioranza) attende l’imminente fatale stacco della spina. Nel qual caso la Knesset si troverebbe difronte al dilemma di indire nuove elezioni o formare una maggioranza qualificata. Evoluzioni politiche in divenire che non alterano la stretta collaborazione ed amicizia con l’Italia.
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L’ARMENIA, IL NEMICO TURCO E L’AMICO AMERICANO
Armeni e Turchia ancora divisi da una guerra e dalla storia. Ferite lontane dall’essere ricucite se prima non si mette da parte l’ottusità, per l’indifendibile. Il castello di sabbia del negazionismo turco sul genocidio armeno, che per oltre un secolo ha imperversato, incomincia a franare, ormai messo sotto accusa da più lati. Le ripetute stoccate di papa Francesco, rasoiate diplomatiche al vetriolo, sono culminate con la lezione di moralità del richiamo al “grido soffocato dei cristiani”, non gradita da Erdogan.
Cade il velo della propaganda di stato, smentita dalla ricostruzione storica dell’intellettuale Taner Akçam, perseguitato in patria e rifugiato negli Stati Uniti, i cui studi portano alla luce particolari inediti, oggi di dominio pubblico. Prezioso e coraggioso lavoro alla scoperta dei veri colpevoli, prove del diretto coinvolgimento dei vertici al potere: messaggi del gran visir Talat Pasha – riconosciuto architetto del Metz Yeghern, il Grande Crimine – in cui ordina di massacrare. Telegrammi, che ovviamente Ankara bolla non autentici, dove ai funzionari delle province viene intimato di procedere allo sterminio di massa, in cambio della promessa di un rapido avanzamento di carriera: “Nessuno deve essere risparmiato, nemmeno i bambini nella culla”.
Appelli ai fanatici perchè sollevino la folla, spingendola al saccheggio. Testimonianze inequivocabili della premeditazione, fredda e organizzata, nell’eliminazione di circa 1,5 milioni di armeni. Mentre, a rompere il tabù internazionale sulla parola genocidio è stato il presidente Usa Joe Biden. Non è la prima volta che la Casa Bianca esprime un giudizio critico nei confronti della Turchia per quei fatti drammatici. Ma mai nessun presidente si era spinto a tanto. Nel 2008 Obama si impegnava pubblicamente a riconoscere l’olocausto armeno. Non lo fece. A prevalere allora fu invece la logica della realpolitik. Ad imporsi furono le ragioni espresse dal Dipartimento di Stato, che riteneva strategico il ruolo della Turchia, nel Medioriente e nella lotta all’Isis. Obama passò la mano e la questione venne “insabbiata” nel tempo, lasciando ad altri il gravoso compito di dire la verità su quegli eventi.
C’è voluto Biden a riaprire il fascicolo. La sua decisione sarà molto utile, anche sul piano giudiziario visto permetterà ai familiari delle vittime di chiedere risarcimenti. E adottando il termine genocidio non ha solo espresso un giudizio, ha ricambiato il favore agli elettori della lobby della diaspora armena che lo hanno votato, e allo stesso tempo presenta la candidatura a sostituire Putin quale protettore della cristianità nella crisi in Nagorno Karabakh, tra azeri (“fratello” che la Turchia sostiene con ogni mezzo militare) e armeni (“culturalmente” con un forte ascendente su Mosca). Il messaggio di Washington è un chiaro segnale di stanchezza nei confronti degli atteggiamenti di Erdogan, che avrebbe passato il limite acconsentito. Joe Biden sposa pienamente la linea espressa da Mario Draghi sul “dittatore necessario”. E pone così limiti invalicabili.