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IN LIBIA

Il rapimento in Libia dei quattro operai dell’impresa emiliana Bonatti, avvenuto sette mesi fa, si è concluso in meno di 24 ore con sorti diverse. Due operai sono vivi e liberi, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, sofferenti tornano in Italia con barbe lunghe e visi scavati dalla stanchezza. Due lavoratori, invece, hanno trovato la morte nella costa africana del Sahel, Salvatore Failla e Fausto Piano, uccisi in circostanze da chiarire, per loro le drawstring bags, sacchi dalla lunga cerniera nera accompagneranno il loro ultimo viaggio di rientro a casa. Due psicologicamente devastati, due sacrificati dalla guerra. Per le famiglie e gli amici di Salvatore e Fausto, per noi tutti, la fine tragica di una lunga speranza, mentre per i parenti degli altri due meccanici il risveglio da un incubo. Poi le emozioni passano e resta la realtà, il dramma e la storia. Una storia che, dolenti o nolenti, ci porta nel grande teatro di un mondo difficile: attraversato dalla violenza più brutale, sconvolto da ideologie perverse. E alle quali siamo chiamati a dare delle risposte nel nome della ragionevolezza e della prudenza, offrendo soluzioni che vadano oltre l’uso della forza. Non è con la guerra che si risolve una questione delicata come quella libica, ma nemmeno fregandosene e rinunciando a prendere dei rischi, in termini di vite umane, oramai ineludibili. Evitando, tuttavia, di commettere errori madornali, come fece il colonialismo. Allora, l’esperienza italiana in Libia rimase poco più di un abbozzo e la Seconda Guerra Mondiale rese giustizia all’occupazione, ai massacri dei civili. La conquista avvenne con una guerra contro la Turchia, correva l’anno 1911, ma il successivo controllo del territorio non fu una passeggiata e terminò negli anni ’30: un conto era occupare le città altro conquistare le zone interne. L’entroterra venne espugnato durante il fascismo che ne fece un obiettivo strategico del regime. La resistenza libica fu tenace ma poco articolata mentre, il carattere del colonialismo italiano fu particolarmente duro e repressivo. L’avventura italiana sulle coste del nord d’Africa si concluse definitivamente con l’espulsione dei nostri connazionali per mano di Gheddafi, quando prese il potere nel ’70. L’operazione ideologica e propagandistica del colonnello, interlocutore complesso ma storicamente affidabile per l’Italia, rifletteva e giocava sull’anti italianità, mito fondante della storia del nazionalismo libico. L’odio atavico e diffuso nei confronti dell’Italia è una costante della Libia contemporanea, un elemento da non sottovalutare in quel particolare scenario. La condizione minima per attivare un intervento militare è un coordinamento sul posto e la cooperazione con la controparte. Per non urtare la “sensibilità” del popolo libico e peggiorare la situazione. La crisi libica, seppur indotta o accelerata da forze esterne, nasce da una rivolta contro un governo che aveva perso il senso della realtà, imposto una casta di potere che non lasciava spazio ad un ricambio generazionale. Paradossalmente con la fine dell’embargo internazionale la cesura sociale si è manifestata sempre più apertamente e le antiche rivalità tra la regione occidentale della Tripolitania e quella orientale Cirenaica sono esplose nuovamente, originando l’anarchia tribale attuale. Frantumato il fragile equilibrio sociale costruito da Gheddafi si è aperta una fase di lotta di tutti contro tutti, dagli esiti ancora in parte imprevedibili e nefasti: Egitto, Turchia, Qatar, Emirati Arabi e Marocco rivestono un ruolo nello scacchiere libico appoggiando questo o quel Governo e dove anche l’Isis allarga la propria sfera d’azione e influenza. Dalle ceneri di questa guerra civile non è ancora sorta l’istituzione in grado di garantire ordine al caos imperante. E questo rimane il vero obiettivo a cui la comunità internazionale deve lavorare per stabilizzare la regione, arginare il terrorismo islamico e mettere in “sicurezza” gli investimenti e gli interessi economici di importanti aziende.Occorre un disegno politico chiaro per il futuro della Libia che contempli anche un piano economico, e non viceversa.