È trascorso un anno da quando, il 25 maggio 2014, Francesco, Papa della Chiesa Cattolica e Vescovo di Roma, giungeva a Gerusalemme. Il primo passo sul Monte degli Ulivi, scendendo dall’elicottero militare con la bandiera di Davide che l’aveva imbarcato a Tel Aviv. La visita della città Santa era la parte conclusiva del suo pellegrinaggio: intenso e storico. Il giorno precedente aveva fatto tappa in Giordania: la messa nello stadio di Amman, la preghiera sulle rive del fiume Giordano e l’incontro con le comunità arabe cristiane a Betania. Nella mattina del 25 è in Palestina a Betlemme, celebra messa nella Piazza della Mangiatoia e poi, lontano dalle telecamere, scende nella grotta della Natività. Quello stesso giorno, nel tardo pomeriggio, l’incontro storico con il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. In serata è al Santo Sepolcro. Il mattino seguente invece cammina nella Spianata delle Moschee. Depone una busta nella fessura delle pietre al Muro del Pianto. Abbraccia in segno d’amicizia il rabbino Skorka e il Mufti Abboud. Incontra in sinagoga il Gran Rabbinato di Israele. E infine celebra la messa nel Cenacolo, prima d’intraprendere il viaggio di ritorno a Roma. “L’ecumenismo è stato il cuore della visita del Papa”, ha commentato Marie-Armelle Beaulieu, redattrice del magazine Terre Sainte nel suo ultimo editoriale, nel quale prosegue: “Ogni fatto e gesto del Papa in Terra Santa è stato interpretato come politico. Anche quando il Papa ha insistito sul carattere strettamente religioso del suo pellegrinaggio”. Marie-Armelle è una cara amica che molto ci ha aiutato nella realizzazione del nostro instant book “Francesco in Terra Santa”. Marie-Armelle, che abbiamo sentito in questi giorni per rivivere quei giorni intensi di un anno fa, ha fatto parte della Commissione per la comunicazione del pellegrinaggio pontificio. Seguendolo passo dopo passo, gesto dopo gesto: “Il Papa ha invitato a costruire la pace come un progetto spirituale”. I gesti di Francesco non sono casuali, sia che rientrino nell’ambito religioso che in quello più strettamente “politico”. Ciascun atto compiuto in Terra Santa è stato un chiaro messaggio a fedeli e non fedeli. In Giordania ha lodato la monarchia Hashemita che offre accoglienza a milioni di rifugiati. In Palestina ha parlato a lungo di dialogo con il presidente palestinese. A Betlemme si è fermato in preghiera al Muro di separazione tra palestinesi ed israeliani. Ha incontrato i giovani dei campi profughi palestinesi. Sul Monte Herzl ha reso omaggio al memoriale delle vittime del terrorismo. Nella sala della Rimembranza ha rinvigorito la fiamma della memoria delle vittime della Shoa. Ha zappato e piantato un ulivo nella residenza del presidente israeliano Shimon Peres. E un altro albero “romano” ha posto anche nell’orto del Getsemani. Pochi giorni dopo nei giardini Vaticani ha compiuto lo stesso gesto insieme a Peres e Abu Mazen, ancora ulivi della pace, della speranza di pace: “Se il Papa ha piantato degli olivi questo non è perché il Santo Padre ama il giardinaggio. Ma perché l’olivo è un simbolo di pace, longevità e di “lentezza”. Prima di gustare il frutto di questo albero, bisogna avere pazienza. Francesco ha piantato in Terra Santa qualcosa nel cuore di ciascun cristiano. E la maturità di questo frutto arriverà a suo tempo. Intanto bisognerà dare molte cure a questo albero affinché ci dia i suoi prodotti migliori. Respingendo le minacce che già ci sono. Infatti, dopo le ripetute invocazioni alla pace abbiamo assistito ad un ritorno di violenza cieca e intollerabile. Ora è più urgente che mai comprendere quella conversione a cui il Pontefice ci invita”. Abraham Yehoshua, il famoso scrittore israeliano, proprio lo scorso anno, alla vigilia dell’arrivo di Francesco in Terra Santa, da noi intervistato disse: “Il suo comportamento popolare, informale, sembra proprio quello che ci vuole per riavvicinare il mondo cattolico alla propria Chiesa.” Il viaggio di Francesco in Terra Santa dal 24 al 26 maggio 2014 è stato un pellegrinaggio “ordinario”, in perfetta modalità Bergoglio.