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L’ORIENTE E IL RITORNO DEL VIRUS

L’Asia cerca di tornare alla normalità ma il rapido diffondersi di nuovi focolai nella regione rischia di compromettere gli sforzi, adottati in questi mesi, per contenere il virus. Nella Corea del Nord del dittatore stalinista Kim Jong-un non ci sono conferme di infezioni. In quella del Sud, il livello del monitoraggio è attento, dopo gli ultimi casi di Seoul è stato reso noto che la seconda ondata prevista dai virologi per il prossimo autunno è giunta in largo anticipo nel Paese rispetto alle attese: forse innescata dalle affollate spiagge o dalla movida nei locali della sera. Le autorità sudcoreane hanno vietato gli eventi pubblici e imposto l’obbligo di indossare la mascherina. Riaperti invece i cancelli delle scuole. Termometri agli infrarossi ed ingienizzante per le mani devono essere presenti all’ingresso di grandi magazzini, ristoranti ed alberghi. Intanto, altri cluster compaiono in Cina. Fallito il tentativo di circoscrivere l’epicentro di Pechino, il virus ha superato i confini dei quartieri della capitale arrivando ad interessare la provincia di Hebei. Déjà vu di Wuhan: test e tamponi a tappeto, militari dislocati nelle strade, lockdown. Migliaia di voli cancellati. Nella lotta al Covid i vertici di governo cinesi hanno autorizzato la vaccinazione, sperimentale, all’esercito. In India, purtroppo, la crescita giornaliera delle infezioni è drammatica. A Mumbai ed a Delhi il sistema sanitario è oramai prossimo al collasso. La Germania ha esortato i connazionali presenti nel territorio a “considerare il rientro o il temporaneo spostamento in uno stato con migliori strutture sanitarie”. Nel resto dell’Estremo Oriente il quadro “clinico” è assai più ottimistico. Fanno eccezione l’Indonesia e le Filippine alle prese con un innalzamento del numero di casi. A Singapore, invece, valori stabili e non preoccupanti. Come del resto non allarmano la Malesia e il Giappone. La Thailandia, che nelle ultime settimane è retrocessa di posizione in posizione nella classifica delle statistiche degli stati con i maggior contagi mondiali, ha riaperto le saracinesche dei bar, dopo i giorni del coprifuoco notturno. A livello globale, meglio di Bangkok, solo Mongolia, Vietnam, Myanmar, Laos e Cambogia con zero decessi.

LA VALIGIA DEL COOPERANTE

Alle 9.41 di lunedì 30 marzo nella mia casella di posta elettronica compare una mail, in Italia sono le 4.41. Oggetto: recapiti whatsapp per segnalazione di voli. La missiva è firmata dal corrispondente consolare in Cambogia. Che mi invita a recarmi immediatamente in capitale a Phnom Penh in attesa di un volo di rientro. È iniziata l’evacuazione anche degli italiani. La notizia che aspettavo, non solo io. Ci siamo, si torna. Quasi euforico provo a chiamare la mia compagna. Non risponde, a quest’ora di solito è in sala operatoria. Intanto, incomincio a tirare fuori le valigie. Verifico la disponibilità di un mezzo di trasporto, sei sette ore di macchina, ci separano dalla prossima meta. Avviso gli amici connazionali, la loro reazione è molto contenuta rispetto alla mia, hanno il dubbio su cosa fare. Io da parte mia no. La Cambogia potrebbe precipitare da un momento all’altro nella legge marziale. È meglio tirarsi fuori il prima possibile, prima che la finestra si chiuda definitivamente. Squilla il cellulare, finalmente è lei. Paola è medico anestesista, e lavora presso una struttura sanitaria a Battambang per un progetto di cooperazione allo sviluppo. Da due anni gestisce e istruisce il personale medico locale. Ho giusto il tempo di dirle del piano d’emergenza in corso. Mi chiede: quando? Rispondo: subito! Silenzio. Abbiamo un problema. Il collega che dovrebbe sostituirla è entrato in quarantena. Se lei partisse dovrebbero chiudere le sale operatorie. Dentro di me risuona un deprimente noooo. Lo sapevo: “Mai una gioia”. Non posso nemmeno ribattere, sarebbe di cattivo gusto. Cerchiamo di vedere il lato positivo della cosa. Non c’è. O almeno non riesco a trovarlo. Eppure ci dovrà essere. Poi, una luce. Mi torna alla memoria la limpida foto del dolce sorriso di un bambino il giorno che è stato dimesso dall’ospedale, era saltato su una mina e aveva perso l’arto inferiore sinistro. Fisso l’immagine nella mente. Paola affonda il coltello nella ferita, la bambina che venerdì è stata operata d’urgenza perchè i capelli gli si erano intrappolati in un ordigno infernale, la rudimentale macchina per spremere la canna da zucchero, è ancora sotto sedativi ma sta molto meglio: salva. Guardo la mia valigia, un breve sospiro e con lentezza la ripongo sotto il letto. Non mi servi, non oggi.

Enrico Catassi

LA BREXIT CHE PENALIZZA I POVERI

Al numero 10 di Downing street l’inquilina Theresa May è al lavoro per comporre una delicata maggioranza in parlamento, se fallisce non è escluso che scelga di dare le dimissioni. È rientrata dal vertice di Bruxelles con le valigie vuote ma l’umore “rallegrato” dall’apertura ventilata dai laburisti. Se accetta la mano tesa da Corbyn dovrà affrontare la resa dei conti nell’aula di Westminster con l’ala oltranzista del suo partito, capeggiata da Boris Johnson. L’erede della Tatcher ha margini di manovra che si assottigliano più si avvicina la fatidica data della Brexit, e in caso di mancato accordo l’unico obbiettivo a cui deve sperare, come lei stessa ha promesso, è che il confine con i “cugini” irlandesi resterà invisibile, sopratutto per evitare il riacutizzarsi del conflitto. Carta con cui spera di impietosire Juncker e l’Europa. Intanto è costretta, come la volpe durante la caccia, a sfuggire alla muta dei cani che la inseguono. Oltre ai latrati, sempre più vicini, la premier britannica deve fare i conti con una serie di fattori economici avversi, l’incertezza dello scenario postBrexit è, in gran parte, responsabile dell’ulteriore calo di crescita del Paese. I prezzi del mattone hanno avuto una battuta d’arresto e il timore è che nel corso dell’anno potrebbero entrare in una fase decrescente, portando la soglia dei costi delle case a perdere anche il 5% di valore.

Chi invece potrebbe pagare un conto salato a causa delle potenziali ricadute del divorzio tra Londra e Bruxelles sono i Paesi in via di sviluppo, già fragili economie di stati con indice di povertà diffusa. Secondo alcune simulazioni c’è il rischio che il divorzio comporti un aumento delle condizioni di estrema povertà per circa 2milioni di persone. La Cambogia con il 7,7% di esportazioni verso il Regno Unito risulterebbe il più colpito. Con un calo del PIL che potrebbe sfiorare l’1,4% in meno. Quadro a tinte scure anche per l’Etiopia, con la prospettiva di un aumento del grado di povertà stimato in +1,12. Nel caso dell’ex colonia italiana gli effetti della Brexit andrebbero, molto probabilmente, ad inficiare direttamente sui prezzi dei generi alimentari. Contraccolpi negativi in generale su tutti gli stati aderenti alle tariffe commerciali EBA, che includono i 49 paesi classificati dalle Nazioni Unite come più bisognosi. A risentirne saranno principalmente quelli impegnati nell’esportazione del tessile verso le sponde del Tamigi.

Alla fine la realtà per i paesi meno sviluppati del mondo potrebbe essere peggiore degli studi di settore. L’impatto globale dello scollamento della Gran Bretagna dal Vecchio Continente è un labirinto d’incognite, tra tante incertezze non è da escludere che la contrazione degli aiuti internazionali induca nuove ondate migratorie. Intanto, i primi a scappare sono le grandi multinazionali giapponesi che, in fretta e furia, abbandonano l’isola al suo triste destino.