A Manchester Boris Johnson ha chiuso il congresso programmatico dei conservatori, il primo in ritorno in presenza dei delegati, da una posizione di forza nel panorama politico britannico.
I tories sono saldamente il primo partito del Regno, mantenendo un agevole vantaggio sui laburisti di Keir Starmer. Il governo grazie ai vari rimpasti di questi mesi è oramai di fatto composto unicamente da fedelissimi devoti al premier.
La Brexit è finalmente iniziata e la pandemia preoccupa molto meno di pochi mesi fa, anche se il numero dei contagi giornalieri viaggia intorno a decine di migliaia. Sul piano internazionale, mostrando totale nonchalance, Johnson è invece passato dalla sintonia con Trump alla perfetta armonia con Biden, pur di garantirsi una stretta alleanza geopolitica che gli consente di entrare nel gioco della “calda” partita contro la Cina, da titolare inamovibile.
Infine, il palcoscenico dell’appuntamento più atteso del momento, gli stati generali della lotta ai cambiamenti climatici: Glasgow ad inizio novembre. Evento sotto tutti gli aspetti cruciale per le sorti del Pianeta, che Johnson ospiterà da padrone di casa. E dal quale cercherà di massimizzare visibilità e tornaconto mediatico, a prescindere dai reali risultati ottenuti.
All’apice della popolarità al primo ministro erede della Tatcher non resta che un’ultimo azzardo per assicurarsi una lunga permanenza a Downing street, anticipare il voto al 2023. Scandendo il tempo che separa dal ritorno alle urne e concentrando il fuoco della propaganda contro gli avversari laburisti: “assurdi opportunisti”. Buttandosi anima e corpo in una campagna elettorale da protagonista, in perfetto stile “one-man-show”. Ideale alle corde comunicative di questo personaggio, abile rappresentante dell’internazionale nazional-populista.
Alla conferenza di Manchester il partito gli ha tributato tutti gli onori. Lui ha entusiasmato la platea con la retorica dell’ottimismo. In contraddizione con la sconsolante fotografia di un paese attraversato da lunghe file di auto in attesa di fare il pieno. Il vanto di aver portato a termine il divorzio da Bruxelles è di corto respiro quando le “magagne” escono fuori: catena del rifornimento in tilt, scaffali dei supermercati vuoti, il problema dei visti e quello dell’esportazione del pesce. Carenza di manodopera, dai braccianti agricoli agli autisti, dai macellai agli idraulici.
E poi, l’incognita dei rapporti tra Europa ed l’Irlanda del Nord da dirimere. Lo scandalo di corruzione che coinvolgerebbe finanziatori delle casse del suo partito, esploso con la pubblicazione dell’inchiesta giornalistica dei Pandora papers. Mentre, l’opinione pubblica è profondamente scossa dall’omicidio di Sarah Everard, perpetrato da un agente di Scotland Yard, crimine che ha fatto crollare la fiducia nella polizia.
Johnson si gioca gradimento e consenso con il piano di vaccinazione, ma non risolvendo altri problemi. Un recente sondaggio ha rilevato che il 18% dei britannici è convinto che abbandonare l’Europa sia stata una buona scelta. Il 53% è convinto del contrario.
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BOJO IL POCO SERIO
“La vita non può tornare alla normalità”, almeno per ora. Ha ammesso il primo ministro britannico Boris Johnson. Eccentrico ed istrionico politico anglosassone. Crociato della hard Brexit. Populista e sodale di Trump. Ha prima sconfessato la pericolosità del virus per poi convertirsi, dopo essere finito in terapia al Saints Thomas’s Hospital a Londra in condizioni cliniche realmente serie. Duro con Bruxelles e debole nel prendere decisioni nella lotta al coronavirus. Sulla cui questione ha demandato pieni poteri al segretario alla sanità Matt Hancock.
Lentezze nella definizione della strategia di contrasto alla pandemia sono valse non poche critiche all’operato di governo. Lontano il successo elettorale del 2019, dovuto indubbiamente alla sua trascinante personalità. Oggi, ha perso appeal sul pubblico. L‘esecutivo da lui presieduto ha iniziato ad oscillare pericolosamente, mettendo in bilico la sua poltrona.
Il nome insistentemente invocato per sostituirlo è quello del giovane ministro delle finanze, e cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, che, tuttavia, nega di essere il predestinato alla successione. Avere in mano in questo momento specifico il cordone della borsa, le armi per affrontare la crisi economica, è un punto, se giocato bene, a suo vantaggio per il dopo Johnson.
Intanto, in aula del parlamento a spingere per defenestrare l’attuale premier sono il laburista Sir Keir Starmer, successore dello sbiadito Corbyn e impegnato a ricostruire la credibilità del movimento, ma anche una parte del partito conservatore. Quella referente all’ala più moderata e conciliante nella trattativa da tenere con l’Unione europea sulle clausole di distacco.
La ribellione interna ai Tories è montata parallelamente al diffondersi dei contagi. L’accusa principale è di aver perso il controllo in un momento drammatico per il Paese. Sbeffeggiato dai tanti casi di “covidioti”. Screditato nei sondaggi. Stretto tra le richieste di un’azione meno confusa e dalle pretese dei ferventi libertari a non accettare l’introduzione di misure di restrizione “coercitive”, considerate assurde e troppo severe.
L’ex sindaco di Londra viene annoverato insieme ai sovranisti, Trump e Bolsonaro, tra gli scettici al virus. È stato il primo esponente della lista dei negazionisti a risultare positivo alla malattia. Ha inizialmente indicato la strada dell’immunità di gregge per uscire dall’epidemia. Per ripensarci ed affidarsi al futuro vaccino di Oxford. Potrebbe non mangiare il panettone a Downing street a Natale. Se invece calma le acque lo scoglio è spostato a primavera con le amministrative, dal quel risultato dipende il suo futuro.
D’altronde l’unico assolutamente certo della propria permanenza in carica è il presidente brasiliano. Mentre, Trump alla Casa Bianca e Johnson al Numero 10, tra voto presidenziale e maggioranza a Westminster sono ad un passo dal flop. Colpa del Covid e delle loro megalomani e strambe idee.