Trump tratta la politica estera come lo stereotipo del giocatore di poker che con sigaro in bocca e bicchiere di whisky in mano rallegra il tavolo da gioco con battute demenziali e scadenti, quanto stia in realtà bleffando, in questo periodo di transizione, lo scopriremo ben presto. Indubbiamente il protrarsi di toni bellicosi nelle concitate settimane che hanno seguito l’esito elettorale non sono di buon augurio, ma la troppa vaghezza e le sintomatiche contraddizioni sul Medioriente potrebbero alla fine spingerlo a più ragionevoli consigli, ovviamente se ci saranno delle colombe e non dei falchi a suggerirgli all’orecchio cosa dire e fare. Delle simpatie del successore di Obama per taluni discutibili leader mondiali già sappiamo abbastanza, personaggi politici che se in Europa non fanno rabbrividire almeno diciamo che non lasciano sogni tranquilli a metà delle capitali del Vecchio Continente. Come non citare ovviamente la quasi referenziale ossessione di Trump per Putin. Vigilia di amichevoli incontri in qualche dacia nelle sperdute tundre caucasiche o in un ranch nel far west, tra abbracci, colbacchi e cappelli da cowboy, fucili da caccia e cartine geografiche da ridisegnare con nuovi confini. USA e Russia restano, ad oggi, le uniche forze in grado di imporre un piano di stabilizzazione per il Medioriente o almeno di risultarne in modo determinante l’ago della bilancia. La sintonia tra la retorica populista del neo presidente della più grande potenza al mondo e la visione imperiale dello zar del Cremlino sono una metamorfosi geopolitica verso la creazione di un nuovo ordine mondiale. Dove la futura collaborazione tra Donald e Vladimir aprirebbe, per ricaduta, uno spiraglio di sopravvivenza al regime di Bashar al-Assad in Siria, a quel punto uomo forte e presentabile alla comunità internazionale come male minore rispetto al caos dilagante e alla presenza dell’Isis nell’area. Eppure più che grande statista amato e adorato dal suo popolo Bashar è un tiranno che massacra e affama la sua gente, tortura gli avversari, rade al suolo interi villaggi. Un leader impresentabile che ha provocato immani sofferenze. L’assedio di Aleppo è il simbolo di un ignobile capitolo della disumanità che si protrae giorno dopo giorno in Siria. Una guerra civile che non risparmia nessuno, dove non c’è tregua o bandiera bianca che venga rispettata: scuole, asili e ospedali sono un bersaglio quotidiano. In Siria c’è una guerra resa ancor più schifosa dall’indifferenza internazionale. In quella regione martoriata l’integralismo islamico ha trovato linfa vitale e creato il suo falso mito, elevandolo a fine supremo. Anche se le milizie del califfato sono in ritirata su quasi tutti i fronti, lasciando dietro di loro una scia di sangue, la battaglia finale è lontana. E nessuno oggi è in grado di predire cosa sorgerà dalle ceneri di questo scontro, non siamo nell’Olimpo greco o nel Valhalla vichingo, siamo nel mondo terreno attraversato da distruzione e dall’incubo di ideologie aberranti. Credere che Trump possa essere la soluzione di tutti i mali non è una fiaba ma una barzelletta di pessimo gusto. Forse però non è nemmeno ciò che da lui pretendono i suoi elettori americani e i suoi sostenitori fuori dai confini statunitensi, in fondo a lui chiedono tutt’altro, qualcosa di assai semplice, appariscente e pacchiano: erigere un muro che impedisca di vedere altrove, porre un velo su quanto avviene oltre il loro piccolo recinto quotidiano. Allora è lecito ancora una volta domandarsi cosa effettivamente farà Trump una volta insediatosi nell’ufficio ovale per risolvere la catastrofe siriana? Agli occhi degli analisti scettici l’indirizzo dell’era trumpiana in Medioriente si preannuncia come benzina sul fuoco di un contesto già altamente esplosivo, oggi purtroppo partiamo da qui.
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SIRIA LA TREGUA IN & OUT
Siria, tregua in e out, quella entrata in vigore a Febbraio per consentire il dialogo di una trattativa delicata è stata ripetutamente violata. A livello diplomatico c’è tuttavia un cauto ottimismo, ma di fatto la guerra civile continua. Aleppo muore. È l’ennesimo appello lanciato dalle organizzazione cattoliche. “Servono soluzioni politiche. Tutto quello che è successo in questi anni ha prodotto una situazione che sarà molto difficile da ricostruire”. Ha detto il cardinale Pietro Parolin alla stampa. La battaglia di Aleppo è stata una delle più cruente di questi anni, la Gettysburg siriana. Decine di morti nei feroci scontri, strada per strada, casa per casa, tra gruppi ribelli e forze governative. Il controllo di Aleppo, la capitale del Nord della Siria è nevralgico. Per motivi economici e culturali. Chi conquista la città vince la guerra di primavera. Per raggiungere l’obiettivo ogni mezzo. Nessuna remora. E così la devastazione della battaglia ha colpito purtroppo luoghi che per definizione simboleggiano la neutralità. “Troppo spesso gli attacchi contro cliniche e personale medico non sono eventi isolati o accidentali, ma piuttosto rappresentano un obiettivo sensibile. Tutto ciò è vergognoso e ingiustificabile” ha tuonato Ban Ki-moon ai membri del Consiglio di Sicurezza nella riunione che ha adottato all’unanimità la risoluzione 2286 (2016). Nel testo la condanna agli attacchi contro le strutture sanitarie, e il principio che l’assistenza sanitaria è un bene primario, sia per chi indossa una uniforme che per i civili. Ad Aleppo culla della civiltà questo principio è stato costantemente violato dall’abominio del danno “collaterale”. Colpito l’ospedale ostetrico di Al-Dabeet. Stessa sorte era toccata alla clinica Al Marja. Chiuso l’ospedale Al- Quds nel quartiere di Sukkari dopo il raid aereo che ha sollevato lo sdegno internazionale e in cui hanno perso la vita almeno 50 persone, tra le vittime sei medici e tre bambini. Bombardamenti mirati che in pochi secondi riducono le corsie e le sale operatorie in cumuli di macerie. Nella città dei 10 ospedali operativi, che si contavano prima dell’inizio del conflitto, secondo fonti, solo cinque sarebbero attualmente in funzione con una capacità di circa 500 posti letto. La violenza barbarica è la tragica realtà di un Medioriente senza pietà. E dove per sopravvivere l’unica disperata soluzione è la fuga. Migliaia di arabi cristiani hanno in questi anni abbandonato le proprie case, intraprendendo un doloroso cammino. Lasciano l’Inferno delle persecuzioni, della profanazione dei luoghi di culto, degli stupri di massa, delle conversioni forzate e delle torture. Nella lettera che papa Francesco ha indirizzato al patriarca copto di Alessandria la denuncia: “Sono ben consapevole della vostra seria preoccupazione per la situazione in Medio Oriente, specialmente in Iraq e in Siria, dove i nostri fratelli e sorelle cristiani e altre comunità religiose devono affrontare prove quotidiane”. La linea ufficiale del Vaticano è ancora quella esplicitata durante il Concistoro del 2014 quando emerse che “un Medioriente senza cristiani sarebbe una grave perdita per tutti”. Sul piano strategico il Concistoro pose le basi per un’alleanza storica con la Chiesa ortodossa, nel nome di una comune visione tra il pontefice e i patriarchi d’oriente. Un patto per “incoraggiare i cristiani affinché restino in Medio Oriente”. Nel disegno della diplomazia della Santa Sede anche la creazione di apposite “zone di sicurezza” per i profughi e la necessità politica d’introdurre un modello di coesistenza culturale civile. La via per la pace, in Medioriente e nel mondo passa attraverso il prossimo World Humanitarian Summit che si svolgerà a Istanbul il 23 Maggio. Il rischio è di perdere altro tempo, inutilmente.