La rivalità tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il suo omologo egiziano Abdel Fattah al-Sisi non è una novità del teatro di guerra libico. Il sultano di Istanbul e il faraone del Cairo rappresentano concezioni opposte ed inconciliabili. Sono l’ultimo esempio della tradizionale contrapposizione ideologica del mondo arabo contemporaneo, diviso tra il movimento islamico ispirato dalla Fratellanza musulmana e quello nazionalista-autoritario imposto da Nasser. Simbolicamente rappresentano lo scontro tra radicalismo religioso e pseudo socialismo: il potere dei chierici o dei generali, il corano o la spada. In comune hanno l’intolleranza per il sistema democratico, la propensione a negare i diritti e a reprimere la libertà, a partire da quella di stampa, evitando di dire verità scomode, come quella sul caso Regeni.
La rottura e l’inizio delle “ostilità” tra Erdogan e al-Sisi risale al luglio 2013, quando l’esercito egiziano rimuove con un colpo di stato il presidente Mohamed Morsi. Esponente di spicco della fratellanza, alleato di Ankara. Martire della causa per Erdogan. Terrorista per al-Sisi. Da allora sarà un crescendo di tensioni tra i due stati che culminerà proprio nel faccia a faccia della guerra civile libica, dove sono schierati uno al fianco del presidente al-Saraj e l’altro con il maresciallo Haftar. Egitto e Turchia hanno dispiegato mezzi e uomini sul campo alzando il livello ad aperto conflitto, non più una silenziosa guerra per procura. Ma offensiva e contro-offensiva, con l’obiettivo del controllo totale dell’ex colonia italiana in Africa.
Il coinvolgimento turco, salvifico per il governo di al-Saraj, ha cambiato le sorti della battaglia di Tripoli, frenando così il successo della campagna militare di Haftar. Trasformando una vittoria che sembrava imminente in una disastrosa ritirata. Al punto che il Cairo difronte ad una disfatta inaspettata ha cercato di prendere tempo proponendo un ritorno al tavolo delle trattative. Percorso impervio, almeno finché Haftar rimane sulla scena e gode della fiducia sia del faraone che dello zar Putin. Se questa credibilità dovesse venir meno sia sul piano internazionale che su quello delle alleanze interne, oramai incrinate, rimarrebbe solo ad affrontare il suo destino. Il Napoleone della Cirenaica è un vero trasformista di casacca, è stato: agli ordini di Gheddafi, al servizio della CIA, garante della Francia, sotto l’ala protettiva di al-Sisi. Un trasformista politico e arrogante comandante, le cui qualità strategiche sono state spesso incautamente sovrastimate. Ha perso una guerra vinta in Ciad e oggi vede svanire il sogno di conquistare sotto i suoi vessilli la Libia. Nella sua eloquente disastrosa caduta offre le spalle al nemico e arretra verso il confine egiziano, dove si stanno ammassando truppe che potrebbero diventare la sua unica speranza. E da dove negli ultimi giorni sono, con molta probabilità, decollati i jet che gli hanno permesso di ridurre le perdite. Nel gioco libico qualcuno rischia di rimanere con un pugno di mosche in mano.
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VARIABILE LIBICA
Nel vertice con Francia, Spagna e Germania, l’Italia ha raccolto plausi e consensi: cooperazione decentrata con gli enti locali libici e lotta ai trafficanti. Non sono mancate pacche sulle spalle e vigorose strette di mano. Tuttavia, il sentore è che non c’è un reale interesse ad operare in perfetta e piena sinergia per risolvere il caos libico. Nei fatti Macron pensa ad aprire hotspot (centri di accoglienza e detenzione) in giro per l’Africa, peccato ne esistano già e siano dei lager. La cancelliera tedesca è intenzionata a rivedere gli accordi di Dublino, e stravincere così le imminenti elezioni. Mentre, l’Italia vorrebbe evitare di restare isolata.
Comunque, per affrontare la questione libica nella sua interezza c’è prima da risolvere la variabile Khalifa Haftar. In questi mesi il generale libico ha ripreso la lunga marcia di conquista, occupando o liberando città e villaggi della costa. Ha scatenato quella che è la più grande campagna militare nel nord Africa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, l’Operazione Dignità. Una lotta spietata e durissima purtroppo non solamente contro il terrorismo. Fonti delle organizzazione per i diritti umani presenti sul territorio accusano gli uomini di Haftar di compiere metodicamente uccisioni di massa e di essere responsabili di “crimini contro l’umanità”: il tribunale dell’Ajia ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Mahommud Al-Werfali, fedelissimo di Haftar, carnefice nell’assedio di Bengasi.
Il capo di stato maggiore della Cirenaica, tra propaganda e ostilità nei confronti di Roma, in un paese attraversato e devastato da odi tribali promette di mettere fine all’anarchia con l’uso della repressione. Gheddafiano pentito e collaboratore stimato della CIA, pretende dall’Europa un credito, economico e logistico, illimitato per schierare la sua milizia lungo la frontiera meridionale: respingendo i profughi, disarmati e alla fame, che vi transitano. Elucubrazioni dell’uomo oggi più potente in Libia.
Nel contesto della guerra civile libica contano, comunque, le alleanze internazionali. Haftar è legato da doppio filo al presidente egiziano Al-Sisi. Esercito e servizi segreti egiziani sono un fattore determinante dell’ascesa del generale libico. Ufficialmente il Cairo appoggia entrambi i governi: Tripoli e Tobruk. Una strategia di comodo per dimostrare alla comunità internazionale che ogni tipo di soluzione deve passare dalle rive del Nilo oppure è destinata a fallire: è il diritto di prelazione sul futuro assetto geopolitico della regione a prescindere da dove si sposterà l’ago della bilancia. Sul campo di battaglia Al-Sisi è spalla a spalla con l’Esercito nazionale libico (LNA) di Tobruk e di Haftar. Nell’emiciclo di New York parla la stessa voce del Governo di Unità nazionale (GNA) di Tripoli e di al-Serraj. Ambivalente? No, scaltro e freddo calcolatore. La partita nel Maghreb è talmente complessa che il rischio di esserne fagocitato è alto. Al-Sisi ha sfruttato le ambizioni napoleoniche di Macron tessendo, in parte segretamente, la rete che ha portato al vertice di Parigi del 25 luglio dove al-Serraj e Haftar hanno siglato la tregua di La Celle Saint Cloud. Un accordo precario che difficilmente verrà rispettato dalle parti, ma che se dovesse palesarsi disastroso e inconcludente avrebbe come unico capo espiatorio il giovane inquilino dell’Eliseo, e non il nascosto manovratore egiziano.
Intrighi e intrecci all’ombra dei quali si compie il dramma dei migranti. Sfruttati, torturati e schiavizzati, costretti in condizioni disumane a sopravvivere sulle dune del Sahel, nella speranza di un imbarco. Tappare l’imbuto della Libia alla migrazione può alla fine risultare proficuo, remunerativamente, a chi oggi gode d’impunità. La Turchia del sultano Erdogan, pagata profumatamente per bloccarli in un’altra sponda del Mediterraneo, insegna. Eppure, tutti vorrebbero aiutarli, a parole.
Libia, due leader una poltrona
Libia, diario di una guerra alla porta. La battaglia di Sirte è conclusa dopo intensi bombardamenti aerei e il cannoneggiamento della marina. Decine di morti e centinaia di feriti. Le truppe governative hanno preso il controllo dei luoghi nevralgici, incluso il porto della città. Sconfitta la roccaforte del terrorismo fondamentalista nel Maghreb. Le milizie del Califfato “occidentale” battono in ritirata, probabilmente nel tentativo di ricomporre le fila dell’esercito nella zona interna del paese. Il Fezzan potrebbe a breve trasformarsi in un nuovo campo di battaglia. L’esito della vittoria di Sirte tuttavia induce dubbi sulla esatta cifra dei seguaci dell’Is schierati in suolo libico, stimato intorno alle 6 mila unità. Gli uomini del terrore impegnati negli scontri di queste settimane erano solo poche centinaia. Il dato positivo è che la bandiera nera è ammainata dal Golfo della Sirte, dove oggi sventolano quelle dell’esecutivo di unità nazionale (GNA) guidato da Al Serraj. Ma ancora una volta a smuovere le acque libiche, già di per se turbolenti, è il generalissimo Khalifa Haftar, figura controversa che deve la sua rapida ascesa al potere agli USA e all’Egitto. Messo in disparte dai ruoli chiave del governo di Al Serraj l’uomo forte di Tobruk ha deciso di non sottostare all’esecutivo di unità nazionale e per contro, dopo un primo tentativo di marciare alla volta di Sirte, ha preferito non essere coinvolto in questa decisiva battaglia, ritirando le proprie truppe su posizioni defilate. Haftar e Al Serraj, due leader per una poltrona e due opposte visioni: federalista il militare e centralista l’altro. Un confronto, trasformatosi talvolta in aperta ostilità, che peserà sul futuro della Libia e sull’assetto geopolitico della regione. Intanto sui cieli della Libia volano da tempo silenziosi droni ma anche i rumorosi bombardieri del Pentagono. Secondo fonti del Washington Post una piccola élite dei corpi scelti dell’esercito a stelle e strisce è dispiegata nelle città libiche di Misurata e Bengasi sin dalla fine dello scorso anno. Due squadre operative, meno di 30 soldati. Ufficialmente non sono lì, occhi e orecchi invece si. Di fatto sono la testa di ponte di una prossima missione, vincolata alle condizioni richieste dal Governo italiano. La strategia fortemente appoggiata dal ministro Gentiloni si è rilevata corretta, producendo risultati sul campo, spingendo i libici ad affrontare e cacciare il Daesh. Il pericolo che la ricchezza primaria della Libia cada nelle mani e tasche sbagliate è un aspetto allarmante così come l’eventualità di un’ondata massiccia di profughi verso le coste italiane. Una emergenza umanitaria che investirebbe anche l’Europa e la sua moralità bipolare. In queste ore l’Unicef pubblica statistiche agghiaccianti sulla situazione dei migranti: “La maggior parte dei minori che hanno attraversato il Mediterraneo fino all’Italia quest’anno erano accompagnati da adulti. Purtroppo è incrementato il numero di minori non accompagnati che sono saliti a bordo di barche insicure e pericolose”. Decine di migliaia di bambini ogni giorno mettono a repentaglio la propria vita intraprendendo il viaggio della speranza verso il Vecchio Continente. E con l’arrivo dell’estate il numero è destinato ad aumentare esponenzialmente. Per fronteggiare il terrorismo ed evitare una crisi catastrofica ci sono teoria e pratica: la prima riguarda il pattugliamento delle coste e il blocco navale, la seconda la necessità di scendere con gli stivali nella sabbia delle dune. In Libia la teoria è in grado di incidere ma non di annullare il problema dei migranti. Mentre la pratica rischia di essere un’incognita.
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“Muove nella giusta direzione” il premier incaricato Fajez Al Serraj, il giudizio del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni bene descrive l’evolversi della situazione politica in Libia. L’indirizzo diplomatico della Farnesina, tra speranza e apprensione, è altrettanto chiaro: pieno sostegno al governo di riconciliazione sia “sul piano politico, umanitario che economico”. È un segnale d’imprimatur al “coraggio” del leader libico, sostenuto dall’ONU per riordinare il paese, che è riuscito nelle passate settimane a insediarsi e mettere insieme una maggioranza di parlamentari all’interno del Congresso. Aprendo un percorso politico che prevede lo scioglimento del Consiglio di Stato e poi, in una seconda e più complessa fase, la riunificazione con l’amministrazione di Tobruk per poter smantellare le milizie, attivare il processo elettorale e infine cacciare l’Is. Incrociando le dita la soluzione al disastro libico potrebbe aver imboccato la strada giusta. Chi sosteneva che Al Serraj avrebbe fallito prima ancora di cominciare a tessere la sua tela deve per ora aspettare e magari domani ricredersi di tanto scetticismo. Riconciliazione, stabilità e lotta al terrorismo sono le sfide di Al Serraj. La lezione che abbiamo ereditato dalla Libia è che con l’intervento militare della NATO abbiamo favorito lo scoppio di una guerra civile che ha aperto la strada al fondamentalismo islamico e destabilizzato la regione, dal Mali al Burkina Faso. I trafficanti di armi hanno svuotato e poi messo sul mercato gran parte dell’arsenale del Colonnello Gheddafi, arricchendosi. Purtroppo la qualità della vita della stragrande maggioranza della popolazione libica è peggiorata notevolmente a causa della drastica riduzione della produzione petrolifera. Oggi in molti centri, di quello che era considerato il paese con il più elevato tenore di vita tra le realtà africane, scarseggiano elettricità, generi alimentari e medicinali. «In risposta alla grave situazione umanitaria in corso in Libia ed accogliendo la richiesta di aiuto» il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale ha disposto un finanziamento multilaterale di emergenza di 1 Milione di € a favore del Programma Alimentare Mondiale. Intanto i C130 dell’areonautica volano in Libia con a bordo medicinali e tonnellate di cibo. Passi importanti che rischiano di essere vanificati se la rotta dei migranti per e verso l’Italia dovesse riprendere con maggiore intensità, una minaccia pronta a trasformarsi in un’arma politica contro Al Serraj: “la Libia è il futuro ground zero -epicentro- dei migranti che cercheranno di raggiungere l’Europa”. È l’analisi, poco ottimista, dell’ex comandante della NATO, l’ammiraglio statunitense James Stavridis. Dalla primavera del 2015 la marina militare italiana è alla guida della missione di pattugliamento nelle acque al largo della Libia EUNAVFOR MED, in codice operazione Sophia: oltre 11 mila salvataggi, 58 scafisti arrestati. Avvicinare la flotta internazionale in prossimità delle coste potrebbe diventare a breve una necessità umanitaria. La tratta dei migranti è un business per le organizzazioni criminali, e una fonte di sostegno alle casse dell’Is, la cifra è stimata intorno ai 300 milioni di dollari l’anno, proventi della tassazione imposta agli scafisti del Golfo della Sirte. In Libia il traffico di esseri umani rende più del petrolio. Ma il secondo è il piatto più appetitoso per le multinazionali, a partire dall’italiana Eni. Nella corsa agli idrocarburi libici e con un certo senso di colpa per aver provocato un caos totale Londra si è detta disponibile a fornire aiuti militari al neo governo. Per il presidente della commissione esteri di Westminster, Crispin Blunt, tale iniziativa dovrebbe svolgersi senza un dispiegamento di forze sul campo, “che sarebbe percepito come una invasione”, ma con l’invio di mille “formatori” militari al fianco di personale italiano e francese. L’importante è non ripetere l’irripetibile.