Israele curva decisamente a destra. Sono arrivati i risultati finali delle elezioni israeliane, che si sono tenute martedì 23 marzo e che ha visto oltre il 67% degli elettori recarsi a votare in piena pandemia (erano stati il 71% alle precedenti), e nulla è sostanzialmente cambiato.
Il quadro elettorale appare però più chiaro per Benjamin Netanyahu e burrascoso per l’armata Brancaleone degli avversari, dal liberale Yair Lapid alla laburista Merav Michaeli, dal centrista Benny Gantz alla sinistra di Nitzan Horowitz. Disastroso, rispetto al 2020, il risultato delle disunite liste arabe. A differenza delle precedenti elezioni esce dalle urne uno spazio maggiore di movimento per Netanyahu, in una situazione dove per governare serve costruire alleanze e incasellare almeno 61 seggi. Difficilmente il premier in carica però dialogherà ancora con l’ex amico Lieberman o l’ex delfino Sa’ar.
Per il nazionalista Bennett sedersi al tavolo è invece un atto dovuto. Soprattutto dopo che è stato tradito dai sondaggi e ha visto erodere il suo elettorato dall’estrema destra del Religious Zionism party, guidato da Bezalel Smotrich, con il suo movimento omofobo e populista. Il giovane politico, leader di Yamina, si può ovviamente consolare per il fatto che senza di lui nessuno va da nessuna parte. Onnipresente al fianco di Netanyahu è il blocco degli storici partiti religiosi haredim, Shas e UTJ. Aggiungete un paio di parlamentari “responsabili” ed il Netanyahu VI è servito.
Insomma, che il falco della destra sarebbe stato il predestinato a governare a lungo è stato chiaro a molti già nel 2009. C’era stata la parentesi del 1996 quando, archiviato il cordoglio per la perdita di Yitzhak Rabin, il leader del Likud ottenne la cattedra di primo ministro, quella prova si dimostrò costellata di troppi errori e tanta impreparazione. Con il nuovo millennio giunge a completare la maturità politica, sfoggia abilità nel saper fondere anime diverse per dar vita a governi impensabili. In questi anni ha risucchiato il centro-sinistra, si è aggregato ai russofoni, ha consolidato la maggioranza grazie ai religiosi ortodossi. In un crescendo di spasmodica ricerca di alleati ha offerto la mano agli arabi islamici. Per finire strizzando l’occhio all’estrema destra israeliana.
Queste sono le diverse stagioni dell’era Netanyahu. E sotto sotto c’è il sospetto o presentimento che le mire alla presidenza dello Stato (a giugno scade il mandato di Rivlin) siano un’opzione attentamente calcolata, mai scartata completamente. Tuttavia, in questo arco temporale è cresciuto parallelamente nel paese un dissenso diffuso nei suoi confronti.
Ad attenderlo domani tre incognite: la piazza che invoca le sue dimissioni, l’approvazione della legge di bilancio e l’ostacolo dei processi a carico in tribunale. Dove indosserà i panni dell’imputato, e non il costume da supereroe che preferisce, Mr Vaccino. A cui ha legato indissolubilmente la sua immagine, e propaganda, durante la campagna elettorale, non commettendo l’errore di Trump. Un successo indubbio, ripagato nell’urna. Adesso è solo questione di risolvere piccole banalità fra amici o ex amici, una pura formalità viene da pensare. Se così non fosse c’è la quinta elezione alla porta.
IL 23 DEL MESE, A VOTARE!
In epoca di pandemia e vaccini Israele torna alle urne per trovare il bandolo di una matassa dai fili aggrovigliati e consumati. Quanto il paese è sempre più vicino all’immunità di gregge, tanto il quadro politico attuale è ingarbugliato. Assomigliando sempre più ad una maionese impazzita. Chi dovesse recuperarla, salvando la ricetta, potrà tentare di guidare un paese che oggi pare ingovernabile. E con la prospettiva, nemmeno troppo assurda, che dalle schede esca ancora un nulla di fatto. Aprendo la strada, per la quinta volta dal 2019, al voto. “Israele rischia di aver preso troppo sul serio la didascalia che ne fa l’unica democrazia del Medio Oriente. Se l’elezione parlamentare è la prova suprema della democrazia, noi in Israele ne facciamo tre o quattro all’anno, così, in scioltezza”.
È il commento tagliente ed ironico del demografo di fama mondiale Sergio Della Pergola. Il prolungato caos parlamentare è oggettivamente legato a vari fattori, uno di questi è la legge elettorale vigente: proporzionale puro con soglia di sbarramento al 3,25%. Che elegge 120 parlamentari, 61 i seggi che determinano una maggioranza. Spiega della Pergola: “Il sistema dei partiti è composto da almeno quattro diverse tribù politiche, il che implica la necessità di formare governi di coalizione”. Grosso modo nel panorama della Knesset sono riconoscibili, anche se frammentate al loro interno, un’area di destra nazional-religiosa, un polo laico-liberale e progressista, i religiosi ortodossi e la casa dei cittadini arabi. Per avere la certezza della stabilità almeno due di queste famiglie dovrebbero accettare una piattaforma condivisa.
Domani, a spoglio delle schede in corso, capiremo meglio quale chiaro di luna si prospetta in Israele. Intanto, supponiamo che nel corso della mattina di mercoledì Netanyahu abbia ottenuto insieme agli alleati il quorum per dare vita ad un governo, in questo caso la vittoria sarebbe schiacciante, e definitiva. Al momento resta un opzione ma è sicuramente la meno accreditata. Più probabile invece che per decidere le sorti della carriera del “falco” della destra si debba passare attraverso l’allargamento del sostegno, ricercando voti utili in parlamento. Due sentieri sembrerebbero essere praticabili dal premier israeliano nella fase post voto. Imbarcare l’estrema destra di Naftali Bennett, per molti versi affine ideologicamente. Oppure, invitare al tavolo il partito degli islamisti arabi.
Un mezzo miracolo per un patto storico, che tuttavia andrebbe a ricalcare sul piano nazionale il successo ottenuto dal modello lanciato da Trump con gli “Accordi di Abramo”, tra Israele e il mondo arabo. Mentre sono in molti a tremare all’idea di un Netanyahu in versione profeta. L’alternativa a questo disegno, non biblico ma tipicamente politico, è che numeri permettendo la destra anti-Netanyahu, il centro liberale e la sinistra sionista avviino un processo di convergenza, nel nome del comune avversario. Aree e anime incompatibili sotto lo stesso tetto, con l’unica missione di detronizzare il “Re”.
INTERVISTA AD ANTONIO ALOI
Il viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq è un evento storico senza precedenti, cosa ha voluto dire per una comunità tra le più martoriate?
“Per la minoranza cristiana non solo dell’Iraq ma di tutto il Medio Oriente la visita del Papa è sicuramente un fatto di grande rilevanza. Da anni questo viaggio apostolico era atteso, già si lavorava per questo evento nel 2014 quando ero a Duhok nel Kurdistan occidentale, ma lo “scompiglio” creato dall’ISIS prima e dalla pandemia da COVID19 poi hanno rallentato il processo.
Oserei dire però che la rilevanza è solo per i cristiani, dubito che al di là della cortese ospitalità, qualche cosa muti nella mentalità mussulmana. Noi cristiani, finalmente o per fortuna abbiamo smesso di difendere o propagandare la nostra Dottrina a fil di spada (gli interessi “occidentali” non hanno più bisogno di mascherarsi dietro un crocifisso) dubito sia così per la mentalità mussulmana. Mi spiego: ho vissuto a lungo in Medio Oriente ed ho visitato, per lavoro, tutto il mosaico dei Paesi che lo compongono, e come sempre ed ovunque, la maggioranza delle persone è pacifica ed accogliente, ma le ferite inferte dallo strapotere militare e coloniale prima e dalla mentalità agnostica ed affarista ora, continuano ad alimentare una totale diffidenza verso il nostro mondo. Questa diffidenza è ben sfruttata da chi, per i propri affari, è interessato ad alimentare divisioni e conflitti. Questa situazione crea un blocco, un nodo molto difficile da dipanare! Per cui questo tentativo di “pulizia” etnica e culturale, iniziato anni fa violentemente in Libano, proseguito in Jugoslavia e via via in Medio Oriente temo proprio non sia ancora finito.
Ricordo, tanto per dare un’idea, un episodio che mi raccontò molto tempo fa Sua Eccellenza Fuad allora vescovo a Tunisi e poi Patriarca a Gerusalemme. Lui da piccolo viveva con la sua famiglia in un villaggio della Giordania, cristiani, mussulmani, ebrei condividevano la stessa vita, gli stessi giochi, l’unica evidente differenza di quella popolazione unita e pacifica era il giorno in cui si recava a pregare; fino a quando il Governo giordano dichiarò la religione cristiana una religione protetta. Quel giorno cominciò la discriminazione…
Ritornando, dunque, alla domanda: i patimenti della minoranza cristiana in M.O. volgono al termine? Direi di no! Una cosa è certa però da credente so che alla base c’è un disegno buono della Provvidenza che sa volgere al bene anche il male non voluto. Questa certezza o meglio speranza genera nel popolo cristiano un perfuso senso d’ottimismo che rimane insieme alla Fede la struttura portante della sua resilienza (tanto per usare una parola che va di moda)”.
Anche dal punto di vista della stabilità politica nella regione il dialogo interreligioso promosso dal pontefice rappresenta un aspetto non di poco conto, l’incontro con l’ayatollah al-Sistani può servire a cambiare qualcosa?
“Al di là delle visite un po’ folkloristiche di tutti i Rappresentanti delle religioni del mondo che si sono svolte ad Assisi, direi che fino a quando rappresentanti dell’Islam non contraccambieranno in Vaticano le visite papali, recando effettive novità al rapporto interreligioso, temo che queste visite apostoliche servano quasi esclusivamente alle comunità cristiane. Temo infatti che, al di là della cortesia ed ospitalità offerta, la mentalità mussulmana interpreti queste visite come un tributo, un omaggio a sé dovuto o poco più. La cultura del perdono è un patrimonio cristiano, oserei dire cattolico, questa virtù, veramente difficile, alberga poco tra le altre religioni specialmente se dovesse essere esercitata verso “estranei”.
L’altro risultato cercato è un’autentica crociata, l’affermazione dell’esistenza di un Dio! Ciò certo accomuna i capi religiosi contro il dilagante agnosticismo, ma sappiamo quanto gestione politica e religione siano una cosa sola per l’Islam e quanto tutto ciò non esista più nel mondo occidentale”.
L’ascesa che pareva irrefrenabile del Califfato è un incubo passato, ma a quale prezzo?
“Il Califfato dell’Isis ha spadroneggiato dove e fino a quando ha fatto comodo a chi veramente muove i pezzi sulla scacchiera degli inconfessati interessi mondiali, quando non è servito più è stato spazzato via, e questo si sapeva fin dall’inizio, con la buona pace delle innumerevoli vittime innocenti.
Fatta questa premessa, si apre un capitolo a parte sui Curdi. Sono stati gli unici capaci di difendere ed osteggiare l’apparente strapotere Isis in Iraq, per difendere la propria entità etnica. Duhok è a 45 Km da Mossul, dei tre governatorati curdi è quello che ha sostenuto il confronto più ravvicinato con l’Isis, praticamente vivevamo nelle retrovie di uno scontro quotidiano tra i Peshmerga e le bandiere nere dell’Isis, eppure la vita in quella città ha continuato a svolgersi come prima, la compattezza della popolazione non ha permesso nessuna infiltrazione, nessun attentato. Per l’ennesima volta il popolo Curdo è stato ingannato dall’Occidente e così per vari interessi e convenienze le promesse fatte, una volta spazzato via l’Isis, sono state disattese. Un popolo di 45 milioni di persone diviso tra quattro Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran, continua a vivere, bistrattato e non riconosciuto. Tutto ciò aprirebbe un discorso a parte, ma come accennavo poc’anzi, anche le profonde divisioni interne, una volta scampato il pericolo Isis, hanno minato le legittime aspettative curde”.
Come si è mossa la cooperazione italiana in questi difficili anni?
“La Cooperazione italiana, è presente in Iraq dalle guerre del Golfo, prima per sostenere le popolazioni provate dal conflitto e per aiutare la ricostruzione del paese, successivamente, a Nord nel Kurdistan, per contribuire all’organizzazione della concessa autonomia (prima della guerra con l’Isis) ai tre Governatorati Erbil, Sulaymaniyah e Duhok. Personalmente ho prestato servizio nel lasso di tempo prima e durante il conflitto con l’Isis. Il nostro lavoro è consistito nel supporto alla Sanità del Governatorato di Duhok. In una prima fase offrendo il know how alla riorganizzazione e modernizzazione del servizio sanitario, quando i dividendi del mercato del petrolio parevano offrire al Kurdistan la necessaria disponibilità finanziaria, poi, svanita questa risorsa, a sostenere con personale e mezzi il servizio sanitario e l’assistenza ai numerosissimi profughi siriani ed iracheni. Il Governatorato di Duhok non ha lesinato aiuti ai profughi inserendoli gratuitamente nell’assistenza del proprio servizio sanitario, e permettendo, a differenza degli altri governatorati, la libera circolazione dei profughi nel proprio territorio. Appena fuori dalla città di 250.000 abitanti c’era un campo profughi di 80.000 persone…”
* Antonio Aloi. Medico chirurgo. Già direttore UTL di Gerusalemme e della sede di Kampala. Ha svolto incarichi di prestigio quale delegato presso l’Organizzazione mondiale della Sanità, referente all’UNAIDS e presso l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA. In Iraq è stato rappresentante per l’AISPO.
MISSIONE ABRAMO PER FRANCESCO
Il primo viaggio evangelico di papa Francesco nell’era della pandemia è ormai prossimo, destinazione Iraq. Arrivo in Medioriente il 5 Marzo e ritorno a Roma il giorno 8. Tour dalle mille criticità. L’incontro con i fedeli a Baghdad, le tappe a Najaf, Nassiriya e Qaraqosh. La messa conclusiva domenica 7 marzo a Erbil. La parola sicurezza è quella che determinerà se il viaggio verrà cancellato o meno nelle prossime ore. Se così non fosse quello che ci attende è una visita in modalità Bergoglio, piena di messaggi dal forte valore simbolico. A partire dall’incontro interreligioso previsto presso la Piana di Ur, luogo della nascita secondo la tradizione biblica del profeta Abramo. Comune radice per cristiani, ebrei, musulmani e baha’i. Religioni monoteiste o del Libro e per estensione anche abramitiche. Non a caso il nome di Abramo è stato recentemente legato all’accordo di pace tra Israele e diversi Stati arabi, dal Marocco al Bahrein. Abramo identificato quindi come capostipite della fede. Per il Cardinal Martini: “primo esempio drammatico di obbedienza della mente”. L’altra lettura invece lo vuole espressione di totale asservimento che sfocia nella cieca schiavitù. Sono le due facce del modello Abramo, una che porta al dialogo e l’altra alla violenza religiosa. Quale di questi due percorsi ha intrapreso il Pontefice è noto. Come del resto ben sappiamo quale strada disseminata di sangue hanno lasciato in questi anni i seguaci del fondamentalismo jihadista. Due visioni opposte, quella del “Siete tutti fratelli” voluto da Francesco come motto-logo del viaggio apostolico e quella dello strumento delirante della “guerra santa” dell’Isis per rifondare il califfato. Un regno infernale da dove non solo i cristiani, quando hanno potuto, sono stati costretti a fuggire, dopo una millenaria presenza. E ai quali Francesco dedica questo pellegrinaggio dai tanti risvolti politici. Il faccia a faccia a Najaf con la massima autorità sciita in Iraq ovvero l’Ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al-Sistani potrebbe aprire un capitolo nuovo nelle relazioni tra il Vaticano e il mondo sciita. Al-Sistani gode di ampia credibilità internazionale. Investito di una forte presa sulla popolazione, è considerato politicamente un moderato. Leader molto rispettato sia dalla comunità sunnita che curda, svolge un ruolo determinante negli attuali assetti politici dell’Iraq post Saddam Hussein. È stato di fatto l’artefice della caduta di due primi ministri Nuri al-Maliki e Abdel Abdul Mahdi, e il vero perno del governo di “transizione” di Ayad Allawi, nominato dalle forze di occupazione. Al-Sistani ha resistito, almeno per ora, al tentativo di essere marginalizzato da parte della corrente di Muqtada al-Sadr. Altra figura chiave dei giochi di potere a Baghdad. A capo dell’ala più militante. Ha lanciato la “resistenza” armata contro “l’invasore” statunitense e non teme l’Iran. Figura scomoda. Intanto, papa Francesco in questo periodo di lockdown e quaresima ricorda che “non si dialoga con il Diavolo”.
LE TENEBRE E LA NEBBIA DELL’AFRICA, IERI E OGGI
Nella nostra storia contemporanea abbiamo già avuto modo di scrivere pagine tragiche ricordando coloro che sono caduti durante missioni di pace, compiendo gesti di solidarietà e umanità. La loro memoria è entrata nella cultura di intere generazioni come del resto i luoghi lontani dove hanno perso la vita, da Nassiriya a Gaza, da Farah a Beirut. E infine Kanyamahoro, nella Repubblica Democratica del Congo, dove sono morti l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista. Vittime del fanatismo e di forti interessi economici e geopolitici internazionali. Nel Novembre del 1961 la notizia dell’avvenuto massacro nel Congo di tredici militari dell’Aeronautica Militare italiana scosse l’Italia. Si trattava di un gruppo di aviatori appartenenti alla 46ª Brigata Aerea in missione per conto dell’Onu, in un area devastata dai conflitti. Era la prima volta, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, che partecipavamo come Caschi Blu ad un incarico sotto il vessillo internazionale. Tra l’11 e il 12 Novembre mentre viaggiavano disarmati e trasportando generi alimentari, furono fatti prigionieri e giustiziati, perchè ritenuti mercenari. Nei giorni a seguire sulla stampa molti i dettagli atroci sulla sorte dei cadaveri che non rispondevano tuttavia al vero. Di quanto fosse accaduto poco o nulla si sapeva. I corpi vennero ritrovati mesi dopo in fosse comuni nel villaggio di Tokolote. Nel 1962 le salme furono finalmente rimpatriate. Oggi riposano nei pressi dell’aeroporto di Pisa in uno sacrario a loro dedicato che porta il nome di Kindu, la città congolese dove perirono. Le circostanze precise e l’identità degli assassini non sono mai state appurate pienamente. Testimoni hanno raccontato che l’ufficiale medico Francesco Paolo Remotti sarebbe stato il primo ad essere ucciso. La mediazione per liberare gli altri fallì. Due mesi prima il segretario generale al Palazzo di Vetro, il diplomatico svedese Dag Hammarskjöld, era morto in circostanze misteriose mentre, tentava di negoziare la pace nella regione. Allora, il Congo era appena diventato indipendente, ma aveva perso (dopo essere stato destituito) l’uomo che stava guidando il cambiamento, Patrice Lumumba, il primo e, per molti anni, unico leader congolese ad essere stato eletto democraticamente nel 1960. Nel fragile stato africano tra spinte secessioniste e lotta per il controllo delle risorse minerarie, la guerra incombeva nella sua totale drammatica opacità. Poco è cambiato in questi lunghi anni in quella parte d’Africa. Nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDC) la guerra è oggi una quotidianità. Il jihadismo si è sovrapposto ai conflitti tribali esistenti. Bande armate senza un centro di comando, sigle del franchising di Al Qaida che saccheggiano, razziano e stuprano. Piccoli eserciti di profughi hutu che spadroneggiano indisturbati. Decine di differenti gruppi di miliziani che fanno di quella parte del mondo un luogo oscuro e pericoloso. Dove anche un convoglio umanitario è una preda.
IL SULTANO CHE L’UNIVERSITA’ CONTESTA
In Turchia si allarga la protesta. La scintilla che ha fatto scattare le manifestazioni studentesche è stata la nomina di Melih Bulu a rettore dell’Università Boğaziçi. Bulu è un noto esponente del partito AKP del presidente Erdogan, tra le cui fila si è più volte candidato. Figura molto vicina al Sultano che ha voluto personalmente caldeggiare l’incarico nella prestigiosa Università del Bosforo, ateneo famoso per essere considerato trai i più progressisti del Paese. Il conferimento a Bulu è stata una scelta imposta dall’alto, decisione che però non è piaciuta al mondo accademico e tantomeno agli studenti. L’onda del movimento contro l’evidente intromissione della politica negli “affari” universitari è montata propagandosi anche ad altre università. Cortei, disordini e centinaia di studenti arrestati in pochi giorni nelle principali città. Sintomi di un malcontento generale, che serpeggia sia tra i giovani – il tasso di disoccupazione sfiora il 30% – che tra le famiglie della classe della media borghesia, quella su cui ha pesato maggiormente la recente crisi economica e finanziaria con la perdita di posti di lavoro e riduzione del potere d’acquisto. Svalutazione della moneta ed aumento del debito pubblico, con il calo di consensi per un logorato Erdogan. Indebolito nei sondaggi e battuto nella precedente tornata di elezioni amministrative. Dal post golpe del 2016 ad oggi l’uomo solo al comando ha tracciato un percorso di governo poco incoraggiante: meno libertà e laicità, più accentramento monopolistico. Ha silenziato le voci di dissenso, attuando una repressione indiscriminata. Ha introdotto misure di stampo conservatore e religioso, chiuso decine di facoltà e purgato quasi diecimila docenti. Aprendo una netta frattura generazionale, in una Turchia polarizzata e indirizzata verso le prossime cruciali elezioni politiche, previste per il 2023, quando i nodi verranno al pettine. Le possibilità di Erdogan di restare eternamente sul trono tendono a diminuire. Le urne che avevano incoronato la sua ascesa potrebbero invece segnare il suo declino di popolarità, mettendo fine al sogno di re-instaurazione imperiale. In politica estera Erdogan ha mostrato un atteggiamento non meno sfrontato di quella interna, alleandosi con Putin e minacciando l’Europa. Nell’estate 2020 non è stata solo la pandemia a preoccupare. Le tensioni tra Ankara ed Atene sono state sul punto di degenerare in un conflitto. Il Mar Egeo solcato da fregate pronte alla battaglia, evitata grazie alla mediazione di Berlino. Qualcosa di quella crisi lampo è stato in parte ricucito in questi mesi, i leader dei due stati si sono seduti al tavolo e stretti la mano. Un primo passo importante per tentare di diramare le tante dispute esistenti: status delle isole, diritti sull’estrazione di gas, sovranità sulle acque e spazio aereo. Resta da placare tuttavia il pesante scontro diplomatico con Macron. Se il Sultano intende avvicinarsi al Continente deve prima chiedere scusa all’inquilino dell’Eliseo.
BURMA GOLPE
Ieri Birmania, oggi Myanmar. Una storia contemporanea scritta per gran parte dai militari. Almeno fino al 2015, quando il partito dell’opposizione guidato da Aung San Suu Kyi vinse in modo schiacciante quelle che sono considerate le prime elezioni libere nel Paese. Il regime militare vedeva definitivamente incrinato il proprio potere, la giunta dei generali sembrava sul punto di tramontare definitivamente. Il palcoscenico e le luci erano tutte per la donna che aveva reso possibile questo sogno di democrazia. Ma la realtà era ben diversa dalle aspettative di cambiamento in cui tanti avevano riposto la propria speranza.
Il Myanmar è uno stato attraversato da una miriade di guerre intestine, focolai di rivolta presenti nelle regioni al confine con l’India e in quelle a Nord verso la Cina. Aree dove ciascun gruppo etnico rivendica ampi spazi di autonomia, sfoggiando milizie armate. Contenziosi e violenza. Interminabili guerre civili. Guerriglia e terrorismo. Attentati a cui il governo centrale ha risposto con il pugno duro, lanciando rappresaglie che hanno colpito indiscriminatamente anche la popolazione civile appartenente alle minoranze.
San Suu Kyi agli occhi di molti sembrava l’unica figura in grado di mediare le diverse anime in conflitto, riportare la pace, dare stabilità. È stata frettolosamente elevata a garante del percorso di riconciliazione tra le parti già prima di vincere la propria battaglia per la libertà. Per l’attività in difesa dei diritti umani, i lunghi anni trascorsi agli arresti, il coraggio dimostrato, è stata insignita del premio Nobel per la Pace. A lei, era stato affidato un compito immane, cambiare il corso della storia. Alla fine però si è dimostrata fragile e facilmente manovrabile, troppo condizionata dalla vecchia casta che orbita nella sfera di Pechino. L’aver abbandonato quella che appariva come l’unica vera opzione politica spendibile, l’introduzione di un sistema federale, è stato forse il maggior errore politico commesso.
A pesare nei rapporti di forza è stato il veto dei vertici militari, aspramente contrari a qualsiasi concessione apparisse come una minaccia all’unità nazionale. Non aver preso una netta posizione di critica sulla questione delle violenze nei confronti della comunità musulmana Rohingya ha ben presto oscurato la sua immagine internazionale. Dalle contestazioni, alle onorificenze ritirate, sino allo spettro dell’accusa di genocidio.
Nonostante i fallimenti il consigliere di stato San Suu Kyi, che non può per legge ricoprire la carica di premier, ha nuovamente portato alla vittoria elettorale il suo movimento. A novembre 2020, in piena ondata pandemica, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) ha ottenuto un plebiscito nelle urne. Il partito dell’esercito ha trumpianamente invocato “brogli” nei seggi, non riconoscendo l’esito finale. E così San Suu Kyi è ancora una volta tornata ad essere una vittima. Mentre sale la voce di condanna per il colpo di stato la Cina tace. Come se la cosa non fosse d’interesse, invece, lo è parecchio.
OGGI NON E’ UN GIORNO COME GLI ALTRI
La Shoah è la più grande malvagità coscienziosamente premeditata da una nazione ideologizzata. La storia delle vittime dello sterminio nazista è una ferita aperta nella civiltà. È la storia innegabile di milioni di ebrei esposti ad abusi allucinanti. Internati nei lager, dove i vivi erano fantasmi. Costretti a muoversi a testa bassa passo dopo passo, camminando lungo il perimetro di un cerchio senza speranza che sprofondava nell’abisso delle tenebre. Trattati come bestie da macello, annichiliti in ogni forma possibile ed inimmaginabile. Obbligati ad indossare una divisa carceraria che era un testamento, lascito passato inesorabilmente dall’uno all’altro, camicie lise, colorate dalla stella gialla cucita sul petto. Vincolati al lavoro forzato. Ridotti a esseri scheletrici, affamati. I sopravvissuti sono testimoni di quanto non avrebbe mai dovuto accadere. Sono stati marchiati a vita con un numero, tatuato sul braccio. Attraversati, toccati dal peggiore incubo. Svuotati, cambiati per sempre. Nelle loro orecchie hanno risuonato come un boato stridente gemiti, preghiere, suppliche. Il naso si è impregnato dell’irrespirabile e stagnante puzza della putrefazione, del marcio, della decomposizione dei corpi. La loro pelle è stata imbevuta di sudore, lacrime, sangue. Hanno sopportato lo spettro incombente della morte. Hanno visto scendere dal cielo la polvere dei resti di esseri umani gassati e poi ammucchiati. Volti perduti di donne, bambini, anziani accostati in un ultimo lungo silenzioso abbraccio prima che venissero avvolti dalle fiamme dei forni dei campi di concentramento. Hanno sopportato le risate dei sadici aguzzini. Inermi hanno visto le scene di parenti ed amici lasciati azzannare dai cani per puro divertimento, bastonati per gioco, fucilati o impiccati per macabro gusto. Sono morti non una ma mille volte. Torturati. Selezionati. Cavie da laboratorio per la ricerca nazista. Pesati e misurati. Stuprati in ogni orifizio. Inoculati da fiale di virus, drogati, colpiti da scariche elettriche. Vivisezionati e amputati. Gli organi smembrati e conservati, riposti in bella mostra nelle teche. Schiavizzati brutalmente. Non hanno ricevuto nessuna compassione, nemmeno la possibilità di appellarsi ad un ultimo desiderio da condannato. Non c’è rimorso salvifico che tenga, il crimine commesso nei loro confronti è troppo grande ed ingiusto. Non potrà esserci clemenza per quell’abominio. Non c’è risarcimento commensurabile per aver affrontato e sopportato un destino inumano, vissuto attimo dopo attimo. Per essere stati fatti cadere in una realtà di miseria mentale. Impossibile offrire il perdono quando si è trattato qualcuno da rifiuto, trasformandolo in spazzatura. Il Giorno della Memoria è un momento di ricordo e riflessione, non di scuse tardive e caritatevoli. Se abbiamo un minimo di dignità liberiamoci della truce mistificazione negazionista che aleggia. Almeno questo glielo dobbiamo.
FASCISMO TRUMPIANO
La storia ci insegna che c’è protesta e protesta, c’è una profonda differenza tra legittimo dissenso e il tentativo, sleale, di demolire alle fondamenta le istituzioni. L’assalto al cuore politico di Washington è un attentato alla democrazia e non può essere messo sullo stesso piano dei tumulti nelle Università dell’Oriente. I seguaci di Trump rappresentano una generazione di protofascisti, violenti squadristi con valori pericolosi, esempio sconcertante ed inquietante di inciviltà vandalica. Altra cosa sono le dimostrazioni che nel 2020 hanno dato voce agli studenti. A Nuova Delhi lo scorso Dicembre la polizia è entrata in un campus armata di scudi e manganelli, sparando lacrimogeni, picchiando ed insultando chi criticava le decisioni incostituzionali del governo, che mettono a rischio la laicità dell’India. In Turchia la polizia in assetto antisommossa ha disperso con la forza i manifestanti all’ingresso dell’Università Bogazici. A Istanbul lottano per mantenere l’indipendenza dell’istruzione e non accettano la nomina voluta personalmente dal Sultano Erdogan del nuovo rettore, Melhi Bulu. Esponente del partito islamista AKP del presidente e considerato un fedelissimo di corte. Le politiche di Erdogan hanno fatto scendere le tenebre sul Bosforo. La porta verso l’Asia è diventata un pozzo senza fondo di ingiustizie e soprusi con arresti indiscriminati e il permanente bavaglio alla stampa. La vendetta, dopo il fallito colpo di stato, non ha riguardato solo i protagonisti ma tutta l’opposizione, tacciata di terrorismo. Ad Hong Kong dopo mesi di contestazioni è l’ora del “ritorno” all’ordine, imposto dal governo locale e sollecitato dalle pressioni della Cina. Nell’ex colonia britannica con il nuovo anno decine di attivisti sono stati arrestati con l’accusa di attentare “al potere e allo stato”. Incolpati di essere traditori al servizio di potenze straniere e pericolosi sovversivi.
A Teheran un’anno fa veniva repressa la rivolta degli atenei, che ciclicamente contestano la brutale dittatura degli ayatollah, rischiando la vita. La miccia che allora fece scattare la piazza iraniana fu l’abbattimento di un velivolo civile. A Bangkok il movimento studentesco ha preso un periodo di pausa festiva, stop ai cortei fiume che hanno attraversato e colorato pacificamente la capitale. Promettono di non arrendersi e voler tornare con maggiore intensità nel nuovo anno. In questi mesi i giovani thailandesi sono arrivati persino a sfidare il re Maha Vajiralongkorn, mettendone in discussione assurdi privilegi di casta. Invocano una nuova costituzione ed elezioni libere per l’antico Siam. Nell’era della pandemia la passione, e il sogno, per la democrazia non è venuta meno. Il virus ha imposto misure restrittive, talvolta strumentalmente manipolate dalle dittature per silenziare il dissenso. In altri casi ignobilmente si è scelto di negare il coronavirus, e dare adito ad allucinanti e vergognose teorie del complotto. Tesi fallaci e criminali. Trump ci ha lasciato anche questo triste ricordo.
FINE DI UN AMORE MAI NATO
Israele e la crisi politica. Dopo tre gironi elettorali in meno di un anno e la nascita di un governo di larghe intese, nato con lo scopo di gestire la pandemia, le tensioni dentro la traballante maggioranza sono emerse frantumando la coalizione. A Marzo 2021 si torna alle urne per scegliere la composizione della prossima Knesset. E con molta probabilità anche il nome del futuro premier. Fallito per solo due voti il tentativo di posticipare le scadenze sull’approvazione del bilancio 2020-2021, proroga che avrebbe mantenuto in piedi l’esecutivo, il parlamento si è automaticamente sciolto alla mezzanotte del 22 Dicembre, come previsto dalla legge.
La scorsa primavera, dopo le insistenti pressioni del presidente Reuven Rivlin e l’emergenza Coronavirus, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz ha ceduto scendendo a patti con il rivale Netanyahu. Firmando un accordo che prevedeva la rotazione al vertice del governo nel Novembre 2021. Ma che Netanyahu, in molti hanno pensato, non abbia mai avuto nessuna vera intenzione di rispettare. A confermare la reale intenzione i tanti segnali lanciati dal capo del Likud in questi mesi: dalla mancata approvazione proprio del bilancio – nodo cruciale del contenzioso – alla gestione personalistica – e talvolta segreta – della diplomazia internazionale. Fatto sta che a mettere la parola fine a questa legislatura è stato l’intrecciarsi di vari fattori. Due dei quali sono stati determinanti: lo strappo del Ministro della Difesa Gantz che in queste settimane ha aspramente attaccato e criticato Netanyahu, pur lasciando aperto lo spazio per la trattativa. E la scissione del Likud provocata da Gideon Sa’ar. Già da tempo spina nel fianco del falco della destra, ribelle e deciso a mettere fine al regno di Netanyahu.
Gantz, l’ex generale e fondatore del movimento Blu e Bianco (Kachol Lavan), nelle ultime settimane aveva manifestato non poca insofferenza nei confronti dell’alleato-nemico, minacciandolo pubblicamente. Fino ad arrivare ad istituire una commissione nel suo dicastero per investigare sulle presunte tangenti legate all’affare dei sottomarini venduti dalla Thyssen ad Israele. Scandalo dove il premier è chiamato in causa come testimone. Mentre, persone a lui molto vicine sono indagate. Quella di Gantz è stata una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti di Netanyahu. A far precipitare la situazione c’è voluta comunque l’uscita, polemica, di Sa’ar dal suo partito. Che ha deciso di dar vita ad un suo movimento, posizionandolo tra il Likud e Kachol Lavan. Operazione a cui hanno aderito parlamentari proprio delle due forze, togliendo ossigeno e numeri preziosi alla maggioranza.
Oggi, Israele è diviso equamente tra sostenitori e contrari al più longevo politico israeliano della storia, che nel corso degli anni ha “giocato” contro il centrosinistra, poi lo scontro si è spostato con l’area centrista e infine, a quanto pare, è diventato un duello interno alla destra. Il rapido deterioramento del governo è riconducibile, in parte, al contraccolpo del cambio di clima a Washington. Il declino di Trump ha ovviamente investito l’amico Netanyahu, aprendo il valzer dei posizionamenti.