Israele al voto. In una giornata serena e primaverile gli elettori in coda ai seggi per eleggere i 120 deputati che siederanno alla Knesset, il Parlamento. È la ventesima elezione dal 1948 ad oggi (in Italia ne abbiamo avute 17) per lo Stato d’Israele. Il meteo politico all’apertura dei seggi prevede nubi sparse sul futuro governo. Il dato elettorale chiarirà meglio gli assetti e i meccanismi della coalizione che nascerà, tenendo conto che sono 25 le liste al voto (un quadro complesso in Israele che ci fa ricordare la nostra prima Repubblica) e che in un sistema elettorale proporzionale solo alcuni di questi, 11 o 12 liste, supereranno lo sbarramento del 3,25%: partiti religiosi, laici, liberali, nazionalisti, sinistra e lista araba sono tutti potenzialmente papabili partner per il governo. Parlarne ora è pura fantascienza, tenendo conto che al momento le principali liste sono accreditate di 23/25 seggi ciascuno e che gli indecisi sono circa il 15% dei 6 milioni di votanti. Intanto il neo presidente d’Israele Rivlin incoraggia, ma non forza la mano, per raggiungere la formazione di un governo di unità nazionale. Alla luce degli ultimi sondaggi la sfida tra Netanyahu e Herzog andrebbe al secondo, in vantaggio con una forbice di 3-8 punti. Il centrosinistra si presenta al voto con una lista dove la ex ministra della giustizia estromessa da Netanyahu, Livni è co-leader con Herzog della lista Unione Sionista, tra i due, infatti, c’è un accordo che prevede la rotazione alla guida del Paese in caso di vittoria. Herzog, il politico israeliano che parla inglese con accento democratico, raccoglie consensi nell’arena politica dove è giudicato e stimato quale persona molto concreta. Intelligentemente, il giovane politico cresciuto nelle file del partito laburista, ha impostato l’ultima parte della campagna elettorale spostando al centro del dibattito non tanto l’introduzione di nuove politiche economiche ma bensì paventando il pericolo della riconferma di Netanyahu. Che questo voto rappresenti un giudizio sull’operato dell’ex premier è cosa nota. Che lo stesso Netanyahu abbia tentato l’azzardo del colpo grosso sciogliendo a dicembre il Parlamento e indicendo nuove elezioni con lo scopo di rafforzare la sua posizione è un dato di fatto. Che la sua scommessa preveda un cambio “costituzionale” per il Paese e una politica estera aggressiva nei confronti dell’Iran sono dati oggettivamente riscontrabili. Che non abbia la benché minima idea di risolvere la questione israelo-palestinese è inoppugnabile. Tutto ciò premesso, Netanyahu è consapevole di attraversare un momento negativo di popolarità e credibilità. Ha tentato di provocare gli avversari interni ed esterni sui temi della sicurezza e del sionismo, ma non è servito a molto: secondo molti analisti il punto debole del Likud è proprio l’arroganza del suo candidato premier. Auto proclamatosi re del popolo israelita nella speranza di risalire la china e ribaltare i sondaggi ha dovuto fronteggiare la reazione e l’opposizione dei vertici militari, a partire dai servizi segreti, si è inimicato mezza Europa e tutta l’amministrazione del presidente Obama. E così il suo sogno da monarca, e forse la sua carriera politica, sono ad un passo dal baratro. Nella lunga notte di martedì sapremo se Netanyahu è capace ancora di volare, padroneggiando il cielo d’Israele oppure se il “razionale” Herzog ha definitivamente abbattuto il ”falco”. Nelle prossime ore, dunque, si decide la storia d’Israele, proprio come ci ha ricordato, Etgar Keret, celebre scrittore israeliano, il suo futuro è un’incognita: “Le prossime elezioni in Israele sono solo la variabile più immediata da cui dipenderà la compagine politica che guiderà il paese nei prossimi anni, ma gli sviluppi geopolitici nell’area non hanno certo meno influenza e significato.” In Israele la speranza per un cambiamento è forte, almeno alla vigilia del voto, almeno nelle parole di Keret: “Posso solo esprimere la fondata speranza che la leadership israeliana che verrà eletta nelle prossime elezioni, sia in grado di trarre le giuste conclusioni dalla guerra avvenuta nella scorsa estate e di porre al centro della propria responsabilità la vita dei propri cittadini ma anche dei civili dell’altra parte, che dia ancor più peso ai diritti delle minoranze e del diverso e alla libertà di espressione, rafforzandosi come democrazia. Nonostante tutte le difficoltà, la democrazia è nei geni di questa nazione.”
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EPTACAIDECAFOBIA
Correva l’anno 1999. Era il 17 maggio. E in Israele si tenevano le elezioni per eleggere il Primo Ministro e il nuovo parlamento. Il premier uscente e candidato in pectore era il leader della destra Benjamin Netanyahu. Lo sfidante invece era il laburista Ehud Barak. Dallo scrutinio delle schede uscì vincitore Barak con il 56% dei consensi. La sua lista One Israel raccolse il 20%, comprendeva oltre ai laburisti anche esponenti centristi. Il Likud rispetto alle precedenti elezioni ebbe un clamoroso tracollo, perdendo ben 13 seggi nella Knesset. La disfatta politica segnò per Netanyahu un declino politico e l’ascesa di Ariel Sharon. Ci volle quasi un decennio prima che il falco Netanyahu tornasse di nuovo al potere. L’esperienza di governo di Barak non fu molto fortunata, per formare una maggioranza di governo fu costretto ad allargare la coalizione a partiti minori, inclusi quelli religiosi, e il suo mandato si contraddistinse per frizioni interne che portarono in breve tempo a nuove elezioni. E alla fine del centrosinistra. Marzo 2015 Netanyahu è ancora in corsa per la poltrona di premier. Ricorsi storici e scaramantici, in Israele si vota il 17. Superstizione? Nei sondaggi il Likud è dato sfavorito contro il centrosinistra. Al posto di Barak oggi c’è Herzog. Per Netanyahu il 17 non è un numero fortunato, pare.
LA CAMPAGNA ELETTORALE PER LA KNESSET APPRODA AL CONGRESSO DI OBAMA
Nei giorni scorsi il Congresso americano ha dichiarato amore incondizionato al leader israeliano Benjiamin Netanyahu. Una dimostrazione d’affetto smisurata, ben oltre i solidi legami storici tra i due paesi: un gesto d’amore incurante di rompere i protocolli diplomatici della Casa Bianca, persino sgarbato e offensivo nei confronti del Presidente Barack Obama. Invitato a Washington dai repubblicani e boicottato dai democratici, non tutti, il Primo Ministro ha tenuto, la scorsa settimana, un lungo discorso ai membri del congresso statunitense riuniti in seduta congiunta. Nell’aula dell’organo legislativo più importante al mondo Netanyahu è stato accolto calorosamente, osannato, coperto da applausi e da standing ovation. Il succo del suo lungo discorso era la minaccia iraniana e l’accordo sul nucleare. L’obiettivo era frenare la trattativa in corso in queste ore. Alzare un polverone su Teheran. Mettere l’amministrazione Obama in un angolo. C’è riuscito. Grazie a quello che molti hanno definito il discorso perfetto, un monologo teatrale recitato convintamente e appassionato, proprio come piace alla platea anglosassone. Ha parlato di terrorismo, di bomba atomica, di geopolitica nella regione e di nazionalismo, sia ebraico che statunitense. Ha giocato le carte anche quelle più ovvie e quelle politicamente più scorrette. Ha paventato di raccontare i segreti di Obama. Non ha tralasciato di lanciare l’accusa di antisemitismo all’Ayatollah, per un suo tweet. Ha sapientemente scaldato gli animi della platea facendo rullare i tamburi di guerra: “ … anche se Israele dovesse restare solo noi non ci piegheremo. Ma so che Israele non è da solo. So che voi siete con Israele.” E ha concluso il suo intervento con tanto di citazione biblica. Il sermone di Netanyahu, che ha convinto gli americani non ha tuttavia avuto l’effetto sperato in patria: convincere l’elettorato israeliano. Le reazioni della stampa israeliana sono state negative e le critiche pesanti: chutzpa. Insolente. Arrogante. Alla fine i sondaggi, ad una settimana dal voto non hanno portato nulla di più, il viaggio americano non ha avuto l’effetto sperato. La coalizione di centrosinistra mantiene di qualche punto il primato. Il piccolo divario è stabile e solido. Dopo aver pestato i calli a Obama e a metà dei capi di stato europei al falco della politica israeliana non resta altro da inventarsi in questa campagna elettorale. Dove è stato costretto ad inseguire gli avversari. Dove si è procurato nemici su nemici. Dove ha perso credibilità. Nel tentativo di recuperare voti e consenso Netanyahu ha buttato acqua sul fuoco del dibattito tra sionismo e post sionismo, ha posto al centro della questione il ruolo d’Israele per gli ebrei nel mondo: “Israele è la casa di tutti gli ebrei.” E poi ha pronunciato un accorato invito agli ebrei ad una migrazione in massa verso le coste meridionali del Mediterraneo. Il no all’appello di Netanyahu è stato ripetuto con forza a più livelli. Le dichiarazioni del leader israeliano lasciano tuttavia ampio spazio alle interpretazioni. E’ innegabile che al momento in Europa il livello di guardia è stato superato, il fondamentalismo islamico ha lanciato la sua guerra santa al cuore del continente. Attacchi terroristici, profanazione di luoghi di culto, attentati alla stampa. Gli ebrei, ma non solo, sono purtroppo vittime del neo fanatismo islamico. In questo contesto l’invito lanciato da Gerusalemme a migrare in Terra Santa suona come un mantra per esorcizzare la paura e non una vera e propria strategia, lo stesso ragionamento vale per il nucleare iraniano. Il problema è che al momento non solo le comunità ebraiche ma tutti noi abbiamo la stessa paura e dobbiamo affrontare il medesimo pericolo. Per questo il messaggio di Netanyahu è in realtà fuorviante: lascia adito all’idea che l’unica alternativa possibile alla crisi attuale sia “fuggire” in un altro luogo, lontano da Parigi o Londra. Inoltre, le parole di Netanyahu introducono nella discussione il concetto che l’Europa non appartiene agli ebrei. Una tesi che è un falso storico, una bugia dalle gambe corte e pericolosa. Non ci può essere futuro per l’Europa senza la presenza ebraica, è nei fondamenti della nostra società e cultura. Molti di noi forse ignorano di aver avuto antenati israeliti, in ebraico sono chiamati anusim. Nello scorso secolo gli ebrei europei che non seguivano l’ortodossia dei dettami religiosi erano identificati come assimilati. Oggi, nell’era della globalizzazione parlare di assimilazione è un controsenso, alla stregua della definizione di razza. Insomma, l’appello di Netanyahu non risponde alle esigenze e necessità del momento, è pura propaganda elettorale. E soprattutto non indica la prospettiva di un percorso di pace con i palestinesi, non chiarisce il modus operandi per una soluzione politica che stabilizzi la regione e che resta il principale problema irrisolto di questo secolo.
OPERAZIONE ABBATTERE IL FALCO
Il suo nome non è Bond, James Bond ma Dagan, Meir Dagan. È l’ex capo dei servizi segreti israeliani, il deus ex machina dell’intelligence forse più potente al mondo. Dagan è l’ultima personalità in ordine cronologico ad entrare prepotentemente nella campagna elettorale 2015. Il soldato pluridecorato, eroe di guerra, leggenda dei corpi speciali, spia con licenza di uccidere e decidere chi eliminare, è salito sul palco della manifestazione di Tel Aviv e ha pubblicamente sparato a zero contro Netanyahu. La piazza Rabin gremita di sostenitori del “cambiamento” ha ascoltato in silenzio le parole dell’uomo che negli ultimi decenni ha protetto la loro sicurezza e quella del Paese. Calvo, sbarbato, abito scuro, occhiali squadrati e sguardo glaciale, piegato ma non spezzato da una terribile malattia che ha lasciato il segno e con la quale lotta da anni, uomo di cultura e appassionato d’arte, ha raccolto gli applausi della folla, lui abituato a stare in disparte, a muovere le pedine dietro le quinte, si è preso il suo spazio di notorietà e pubblicità. Ha parlato con voce flebile, senza retorica ma con semplicità: “Israele è circondato da nemici. Ma non sono loro che mi fanno paura. Io sono preoccupato della nostra leadership.” È apparso, in alcuni tratti del suo discorso, visibilmente emozionato, anche Bond almeno una volta ha pianto, per poco, ma ha versato lacrime vere. Piangere è umano. Quanto Dagan sia umano non è detto saperlo, la spia nata in Russia anzi in USSR (leggenda vuole che la madre abbia partorito sul treno mentre la famiglia scappava dalla Polonia occupata dai nazisti), ha dimostrato di essere un leader politico e carismatico o almeno non nasconde le potenzialità per poterlo, a breve, diventare. In Israele è cosa assai comune che un militare in carriera possa passare “in prestito” alla politica, non c’è da essere scandalizzati. Fatto sta che Dagan è divenuto un elemento chiave della campagna di discredito verso Netanyahu, le sue dichiarazioni affossano, giorno dopo giorno, la credibilità del premier. Suona strano che proprio lui così schivo ai sensazionalismi, ai riflettori, alla fama, sia diventato l’icona del centrosinistra israeliano e il front man che “sbugiarda” costantemente il capo del governo. Lui che certo non è mai stato uomo dichiaratamente di sinistra, nominato al vertice dell’Istituto da Sharon e poi in passato lodato dallo stesso Netanyahu. La rottura dei rapporti tra i due è legata alle recenti crisi di Gaza e al presunto dossier iraniano. L’ex capo dell’Agenzia è strenuamente critico sul pericolo nucleare paventato dal Primo Ministro israeliano: “Netanyahu ha causato ad Israele il peggior danno strategico.” E nel suo commento, alle parole pronunciate recentemente dal leader israeliano al congresso americano, pare sia stato colorito e caustico: “stronzate”. Ovviamente Netanyahu non ha risposto agli attacchi di Mr Mossad. Offendere, inimicarsi l’uomo che ha raccolto e spulciato nei segreti di tutti non è certo una bella mossa politica, a prescindere dagli scheletri che nascondiamo nell’armadio. Nel 2015 i servizi segreti israeliani sono ancora circondati da un alone di mistero e dalla fama d’infallibilità, al pari dei servizi di Sua Maestà, almeno di quelli cinematografici. “Vorrei ricordarti che questa operazione andava condotta con una certa discrezione…” Ammoniva M, capo del MI6, con queste parole l’agente Bond. Discrezione è sinonimo di servizi segreti. Dagan ha fatto cose che molti di noi ignorano, segreti coperti da un profondo silenzio tombale e dalla ragion di stato. La voce dell’ex 007 resta molto ascoltata e rispettata nella società israeliana. L’uomo che celava segreti oggi infiamma le piazze e guida il movimento per il cambiamento, vuole sconfiggere Netanyahu. L’operazione “abbattere il falco” è in atto. Parola di Dagan, Meir Dagan.
Voto israeliano 2015: traguardo volante
Il voto israeliano del 2015 passerà alla storia per aver dato vita, almeno durante la campagna elettorale, alla creazione di grandi coalizioni e aver prodotto non trascurabili rotture interne ai principali partiti. Per la prima volta avversari storici hanno deciso di convogliare a nozze, mescolando i propri candidati in liste congiunte. In ordine cronologico i primi a siglare un accordo sono stati i laburisti dell’Avodà e i centristi di Hatnua. I due partiti insieme rappresentano nei sondaggi la più forte forza politica del paese. Il sodalizio tra laburisti e centristi è scaturito dalla ricerca di erigere un fronte comune alla candidatura di Netanyahu. La popolarità del Primo Ministro è ancora molto alta in Israele. Tuttavia il suo partito il Likud scricchiola. Messo sotto pressione dalle varie costole fuoriuscite in questi anni: a destra dall’ascesa dei nazionalisti di HaBayit HaYehudi, movimento guidato da Naftali Bennet giovane cresciuto politicamente nelle file del Likud, e a sinistra dalla recente scissione e conseguente formazione del partito Kulanu, espressione di Moshe Kahlon già ministro delle comunicazioni e del sociale per il Likud. Entrambi gli schieramenti andranno a pescare nel bacino di voti di Netanyahu. E sarà quindi interessante capire quali danni questa lenta erosione potrà causare alla struttura del partito del premier. Chi non pescherà tra i voti dei delusi del Likud è certamente l’altra unione originata in queste ore. Lo sfaccettato mondo dei partiti arabi, meglio dire dei partitini vista l’esigua entità numerica, ha scelto la via della coalizione. Partiti che storicamente sono stati in perenne lotta tra di loro, che si sono scontrati per una manciata di voti necessari a passare lo sbarramento, per una volta, hanno deciso di unirsi. Il neo listone o listino coagula i comunisti di Hadash, i riformisti di Ta’al, i panarabi di Balad e gli islamici del Ra’am. Atei, laici e religiosi con l’obiettivo di diventare il terzo blocco nella Knesset. Uniti sotto la bandiera dell’anti-sionismo i leader della nuova organizzazione politica hanno dato inizio alla campagna elettorale con una conferenza stampa a Nazareth: “Non riconosciamo l’approccio arabi contro ebrei o ebrei contro arabi. La nostra lista che include sia arabi che ebrei non è contro la società israeliana, ma lotta per la società israeliana.”