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PALESTINA, ISRAELE E TRUMP

Il 28 marzo del 1988 in piena Prima Intifada palestinese, uno dei massimi esponenti della nascente Hamas, Mahmoud A-Zahhar, venne “invitato” ad incontrare l’allora ministro degli esteri israeliano Shimon Peres, il quale era intenzionato a risolvere rapidamente la questione della protesta palestinese. Il cofondatore dell’organizzazione terroristica e un padre della patria, un fondamentalista islamico e un sionista, due nemici sedevano allo stesso tavolo di scambio, confrontandosi per la prima volta. Il palestinese offriva la pace in cambio di: fine dell’occupazione, ritiro da Gaza e West Bank, libere elezioni. Peres rispose in modo secco accettando l’azzardo: ci possiamo ritirare da Gaza subito, ci servono sei mesi per lasciare la West Bank e su Gerusalemme rinviamo la questione. A quel punto A-Zahhar avrebbe rifiutato l’ordine cronologico dei punti incalzando con “Jerusalem should be first”: Gerusalemme al primo posto. E ovviamente quel timido tentativo d’incontro, la prima “apertura” islamista ad Israele o viceversa fallì. Dopo poco Peres e Yitzhak Rabin apriranno un credito ad Arafat, si costruirono gli accordi di Oslo. Poi arrivò la seconda Intifada e tornò la guerra.

Tre decenni dopo quell’incontro “obbligato” il capo politico dell’organizzazione terroristica palestinese Khaled Mesh’al (tra i pochi ad essere sfuggito alla caccia del Mossad) annuncia, con enfasi e ampia copertura mediatica, una nuova storica pagina per il movimento prima di passare il testimone a Ismail Haniye. Dichiarando che Hamas non è il braccio operativo palestinese dei Fratelli musulmani, smarcandosi clamorosamente dalla casa madre e stendendo il tappeto al faraone al-Sisi. Annuncia inoltre che la Carta fondante del 1988 è superata: il Mithaq non è il Corano. E che i confini dello stato palestinese sono quelli del ’67, prima della guerra dei sei giorni. Una smentita parziale, una policy volutamente ambigua nei rapporti con Israele e l’Occidente, ma anche un messaggio agli USA su eventuali segrete trattative da compiere nei prossimi mesi all’ombra delle piramidi. Nel documento “programmatico” si spiega che la lotta continua, che non è una guerra di religione tra ebraismo e islam. Manca tuttavia il “tassello” del riconoscimento di Israele. “Fumo negli occhi” tagliano corto da Gerusalemme. Botta e risposta nel siparietto mediorientale che ha anticipato, e in parte condizionato, il vertice della Casa Bianca, di qualche giorno fa tra Trump e Abu Mazen: tra un presidente imprevedibile, talvolta impresentabile e ed un rais logorato, criticato e delegittimato. Un faccia a faccia poco proficuo e dai contorni vaghi. L’inquilino presbiteriano della Casa Bianca è “sentimentalmente” vicino a Netanyahu e appare totalmente indifferente al fatto che dall’eterno conflitto israelopalestinese emerga uno stato binazionale o due stati. Il progetto a breve termine di Trump è scattare la foto con i due inossidabili leader che si danno la mano, in un gesto di apparente distensione. Strette di mano a parte l’imminente “pellegrinaggio” del neo presidente in Terra Santa potrebbe a catena avere effetti sulla maggioranza di governo di Netanyahu, risicata numericamente e condizionata da pulsioni nazionaliste. Mentre il reggente della Muqata ha uno spazio d’azione ridotto persino all’interno di Fatah (stretto tra le fazioni dell’esiliato Dahalan e quella di Marwan Barghouti, ancora chiuso, dopo le plurime condanne all’ergastolo, in un carcere israeliano). Abu Mazen frettolosamente ha firmato una cambiale in bianco a Trump, per limitare l’azzardo, in queste ore, ha cercato, e ottenuto, garanzia dallo zar Putin. Intanto, da una parte del muro e dall’altra, c’è già chi, in attesa di un suo tweet, elogia il chiomato magnate come un nuovo messia.

L’IGNORANZA TRUMPIANA SU ISRAELE E PALESTINA

Quando nel 2010 Benjamin Netanyahu si presentò a colloquio alla Casa Bianca il padrone di casa non degnò, il primo ministro israeliano, del picchetto di onore e lo fece entrare da una porta secondaria. In quell’incontro che non lasciò notizia, quasi non fosse mai avvenuto, lo scontro tra i due leader ebbe toni pesanti, così raccontano i ben informati. Nessuna stretta di mano immortalata da foto di rito, nemmeno la classica amichevole conferenza stampa congiunta. I dissidi tra Obama e Netanyahu hanno avuto picchi di tensione altissima, ciò tuttavia non ha alterato lo stretto legame tra i due paesi, al contrario l’impegno americano in favore di Israele non è mai venuto meno, anche se il premier israeliano scaltramente, ha sempre lasciato passare il messaggio opposto al fine di screditare Obama e la sua visione. Sulla questione della Terra Santa l’ex presidente afroamericano aveva un’idea apertamente contraddittoria con l’indirizzo politico espresso dal governo di Netanyahu: possiamo accettare, praticamente, tutto, tranne il prolificare degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Ovviamente durante tutto il ciclo obamiano “il falco” della Knesset si adoperò per autorizzare altre colonie, facendo orecchie da mercante ai richiami di Washington. In realtà l’approccio di Obama all’eterno conflitto mediorientale non aveva nulla di nuovo, era in linea con quello dei suoi predecessori, a partire da Carter e sintetizzabile nel motto: porre le basi per la creazione di uno stato palestinese e assicurare la sicurezza di Israele. Clinton e Bush junior rafforzarono questo assioma, lavorando alacremente al processo di pace e organizzando una serie di incontri trilaterali dalle tante, troppe, aspettative. L’agenda della diplomazia statunitense, a prescindere dal partito di appartenenza del presidente e dai risultati raggiunti, era scritta in calce. Uno spartito passato di mano in mano agli inquilini della Casa Bianca. Per buttare al vento decadi di diplomazia internazionale in Medioriente è bastata una frase banale di Trump durante una conferenza stampa, nei giorni scorsi, al fianco dell’amico sodale Netanyahu: uno o due stati per me non fa differenza. Aggiungendo: decidano loro. L’ignoranza trumpiana, perchè di questo si tratta, lascia sgomenti. Com’è possibile trattare con tanta leggerezza una questione così intrigata e complessa? E che alla fine alimenta solo violenza. Il magnate newyorkese in pochi secondi ha smantellato l’impalcatura che reggeva il sogno di poter aver, un giorno, uno stato di Palestina in pace e limitrofo con Israele. Due popoli per due stati non è più una priorità delle trattative, non è più il faro nel mezzo di una tempesta implacabile. La soluzione dei due stati non è solo una voglia del momento o un castello di sabbia, è una lunga e tortuosa strada che nasce da un consensus internazionale su di una formula strategica per porre le condizioni di una pace futura: la Terra Santa è di entrambi, palestinesi ed israeliani, così come Gerusalemme. E se si vuole spingere per riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele, allo stesso tempo si dovrebbe almeno concedere che la parte est della città Santa diventi la capitale dello stato palestinese. O no? Trump, al solito, naviga nella vaghezza, scimmiotta, è sconcertante: al momento si è impuntato per spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, sfidando l’ONU. Una chiave di lettura delle affinità e influenze della destra israeliana su Trump è certamente da cercare nei consigli del genero Jared Kushner, un pontiere tra Gerusalemme e Washington, è stato lui ad aprire la linea di credito di Netanyahu sul suocero. L’obiettivo immediato di Netanyahu è definire una stretta alleanza con il mondo arabo “moderato”: Egitto, Giordania e stati del Golfo. Più o meno dittature al pari del vero nemico di tutti, l’Iran. Il mondo arabo ora dovrà scegliere se abbandonare al loro destino i palestinesi per frenare l’espansionismo persiano nella regione. E c’è da credere che Trump giocherà un ruolo centrale.  

 

I TERRORISTI DEL CALIFFO ALLE PORTE DI GERUSALEMME

Nel 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la risoluzione 181 con un piano di partizione della Terra Santa, nel tentativo di risolvere il conflitto tra arabi ed ebrei scoppiato nella regione: il mondo arabo scelse la risposta peggiore. Settant’anni dopo attendiamo ancora la nascita di uno stato palestinese: democratico, indipendente e sovrano. C’è qualcuno che crede che ciò possa avvenire nel 2017? Obiettivamente pensiamo che solo un miracolo possa appianare uno dei conflitti più lunghi della storia. La situazione politica interna alle due realtà, palestinese ed israeliana, è talmente e palesemente compromessa da non permettere spiragli positivi: la destra nazionalista israeliana al governo, le criticità di Fatah e la dittatura di Hamas a Gaza, la prospettiva del radicarsi dell’Isis, la visione di Trump.

Eli Kaufam editorialista del Jerusalem Post, recentemente ha scritto nel suo blog non un commento di fisica quantica, ma una riflessione filosofica sull’era che ci attende: «Possono causa ed effetto andare indietro nel tempo? Nella realtà delle cose può il futuro determinare il passato? …. Se il futuro fosse in grado di determinare il passato, allora con un futuro meraviglioso quello che ci attenderebbe sarebbe un presente radioso, perché abbiamo già visto il passato e non era così bello.»

Nel contesto della Terra Santa gli errori del passato, effettivamente, sono stati troppi, determinando il presente e il futuro: culturalmente ma sopratutto politicamente il mancato riconoscimento dell’altro, da entrambi le parti, è ancora un aspetto sconcertante della questione israelopalestinese. Sicurezza, diritti umani, confini definiti per due stati per due popoli sono sempre stati l’obiettivo primario della Comunità internazionale. La cartina geografica più diffusa della Terra Santa è ferma al ’67, attualmente quindi è obsoleta. A prescindere dal caso in cui si creino le condizioni per uno stato binazionale, che si opti per una sorta di stato federale o meno, ci vorranno intense trattative e lunghi trattati. Oppure ciò che ci aspetta sono barriere, occupazione e terrorismo? La matita che dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra palestinesi ed israeliani è oggi spuntata, e Trump è pronto a strappare i fogli su cui disegnare.

Nei prossimi giorni a lasciare un segno sul quadro mediorientale ci proverà il presidente francese Francois Hollande, lontano dalla ricandidatura ha deciso di affrontare, senza troppe pretese, il nodo gordiano del conflitto israelopalestinese, invitando a Parigi per il 15 gennaio i rappresentanti di 70 stati. L’iniziativa parigina è l’ennesimo tentativo di alimentare il percorso di due stati per due popoli. Un summit accolto favorevolmente da Abu Mazen, presidente senza consenso, ma non da Netanyahu, primo ministro in bilico. A Parigi non ci saranno strette di mano tra nemici. In realtà c’è però un certo interesse per quanto presenteranno le tre commissioni che da mesi lavorano ad una road map. Ciascuna analizzando una differente prospettiva: la struttura delle istituzioni palestinesi, il contributo economico, in particolare quello europeo, e infine la partecipazione della società civile al processo di pace. L’ultimo attentato sulla promenade di Gerusalemme, e la folla a Gaza in visibilio per il martirio dell’attentatore; le minacce alla giuria e le proteste di piazza al processo contro il soldato israeliano che freddò un prigioniero palestinese; le vignette pubblicate qualche giorno fa dal quotidiano Al-Hayat Al-Jadida che mostravano soldati dell’esercito israeliano uccidere Babbo Natale; i nuovi insediamenti israeliani. Dipingono un presente senza futuro.

IL NONNO DI ISRAELE

Zona del vecchio mercato di Giaffa a Tel Aviv. È mattina quando entriamo nella stretta viuzza che porta al caratteristico ristorante dove è fissato l’appuntamento. Lui è già lì sulla porta accerchiato dalla scorta e con il menù del cibo in mano. Era arrivato all’incontro con qualche minuto di anticipo o forse eravamo noi in ritardo di poco. Vestito elegantemente con una cravatta sgargiante e molto giovanile. Lo sguardo è impenetrabile ma la dialettica sciolta. Il pensiero invece è rivolto al piatto che ordinerà per colazione: la shakshuka. Che la sua attenzione sia tutt’altro che per noi appare chiaro a tutti all’arrivo delle padelle fumanti, per ciascuno 4 uova, pomodori, peperoni etc etc. Lascia di stucco osservarlo mentre annusa a pieni polmoni prima di inzuppare una fetta di pane nel pomodoro bollente e portarla famelicamente alla bocca, il “nonno di Israele” dagli occhi eternamente ragazzini e birichini è pienamente soddisfatto, sprigiona felicità. In fondo è lui al centro dell’interesse, non potrebbe essere diversamente se sei seduto allo stesso tavolo con uno statista mondiale e premio Nobel per la Pace. Tuttavia anche nell’incontro precedente il politico israeliano aveva dimostrato il suo volto umano e la propensione al convivio. Questo è lo Shimon Peres che abbiamo conosciuto. Quella sera d’autunno del 2004 al banchetto preparato nel locale sulla marina di Tel Aviv aveva “duellato” per una bottiglia di vino rosso. Inizialmente aveva resistito al tentativo di “esproprio” da parte di una politica italiana con una salda presa al collo di vetro per poi cavallerescamente cedere, a malincuore, l’ottimo Yarden di annata. Altre volte lo abbiamo incrociato nel ristorante marocchino Darna di Gerusalemme confermando la nostra idea sulla sua passione per il buon vino e la cucina maghrebina. È cosa nota che persino Ariel Sharon avesse una preferenza smodata per il kebab, tanto che quella ricetta tipicamente mediorientale gli sarebbe stata sottoposta come terapia olfattiva durante il lungo stato di coma da cui non si sarebbe mai svegliato. Entrambi questi attori, criticati, hanno segnato la storia recente della Terra Santa. Erano legati da una vera amicizia che li porterà nell’ultima parte della loro vita a fondare insieme un partito, loro che per anni sono stati seduti su sponde diametralmente opposte. Un rapporto certamente meno complicato della rivalità con Rabin: alla base della quale c’è stata, è bene ricordarlo, la lotta di potere per la leadership del centrosinistra israeliano. Per decenni i due leaders del partito laburista si sono confrontati con intensità, sfociando in conte interne quasi sempre a favore di Rabin. Peres dal canto suo era lontano dalle dinamiche di partito e non ha mai goduto della popolarità di Rabin. Preferendo la fama e il riconoscimento internazionale. Shimon Peres è stato una figura di spessore, ha ricoperto tutte le più importanti cariche istituzionali del suo paese, è stato un fine diplomatico e tessitore di trattative impensabili, ma discusso sino alla fine: ha sposato il nazionalismo patriottico e l’apertura alla globalizzazione; è stato un uomo di guerra e di pace; ha lavorato perchè l’esercito con la stella di Davide avesse la supremazia militare nella regione – con tanto di bomba atomica – e ha creato una fondazione per il dialogo con il mondo arabo che porta il suo nome. È stato uno dei fautori della politica di sviluppo degli insediamenti coloniali in Cisgiordania e ha perseguito il progetto di pace con i palestinesi costruendo personalmente l’impalcatura degli accordi di Oslo. Amava circondarsi dei grandi del pianeta dai Clinton a Mandela, Gorbaciov era spesso suo ospite, non nascondeva simpatia per Veltroni, con Papa Francesco ha legato profondamente. Nel Giugno 2005 ad un galà della sua fondazione fece un ingresso degno di una rockstar. Manifestava teatralmente una innata capacità politica, con un certo egocentrismo. Non mancava di citare il trionfo di Oslo, purtroppo, oggi definitivamente sepolto.

Brexit e Israele

Il referendum sulla Brexit non è solo una questione esclusivamente British ma impone una attenta analisi fuori dei confini del Vecchio Continente. Il valore e il peso dell’esito di questo appuntamento hanno ricadute internazionali che vanno ben oltre la cornice europea. «L’uscita della Gran Bretagna dalla Ue sarebbe una battuta d’arresto non solo economica ma geopolitica» ha recentemente commentato il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. L’ansia di Londra, in queste ore di voto, contagia le borse, le banche e le altre capitali europee. Anche in Medioriente il dibattito è aperto. La Brexit entra persino nella questione più intrigata di sempre: il conflitto israelo-palestinese. Non poteva essere altrimenti, la Terrasanta, come oggi la conosciamo geograficamente, è strettamente legata alle scelte politiche dell’Impero di Sua Maestà: il vulnus storico è, e rimane, il periodo del Governatorato britannico della Palestina post Prima Guerra Mondiale. Con l’inasprimento del confronto tra arabi ed ebrei, “l’uso e la strumentalizzazione” dell’odio degli uni verso gli altri, radicando nelle rispettive società e culture la paura e l’uso della violenza. Un orrore, che nasce da un errore, di cui ancor oggi paghiamo le drammatiche conseguenze. Alla vigilia del voto inglese è interessante osservare e capire come a Gerusalemme palestinesi ed israeliani riflettono su questa scadenza elettorale. La maggioranza delle persone, di qua e di là dal muro, dimostrano un approccio di fondo strettamente legato al proprio portafoglio, guardando la concretezza della cosa, gli effetti immediati sulla valutazione della moneta visto che l’Europa è il primo partner commerciale: cosa farà lo shekel, ci sarà la svalutazione del nuovo siclo israeliano in caso di Brexit? Domanda più che logica. Tuttavia, indipendentemente dagli effetti monetari, ci preme mettere in risalto anche taluni aspetti più tecnicamente “diplomatici”. Secondo Tusk l’uscita rappresenterebbe un cataclisma: «potrebbe essere l’inizio della distruzione non solo dell’Unione europea, ma di tutta la civiltà politica dell’Occidente». Gli analisti israeliani sono divisi sul significato oggettivo della Brexit. Per Israele, c’è chi ritiene che produrrà un cambiamento in negativo “è preferibile che la Gran Bretagna rimanga nella Ue dove rappresenta una voce moderata in favore di Israele. Preferiamo vedere un’Europa solida economicamente, commercialmente e fortemente unita nella sua battaglia contro il terrorismo” ha affermato una fonte autorevole israeliana. E chi invece, in maniera diametralmente opposta, assume che ci sarà un effetto positivo con la riduzione della tendenza ad appoggiare la causa palestinese e il frastagliarsi dell’Ue. Indebolendo notevolmente l’influenza europea nello scenario Mediorientale e smontando definitivamente l’iniziativa di Parigi per la riapertura del processo di dialogo tra israeliani e palestinesi, osteggiata dallo stesso Netanyahu. Per parte della destra israeliana nazionalista vale il concetto che “con l’uscita britannica l’Ue diventa più fragile e questo avrà un impatto positivo, perchè nel suo complesso le istituzioni dell’Unione sono su posizioni molto più critiche nei confronti di Israele rispetto ai singoli paesi europei”. La lettura della Brexit che fà il lato palestinese appare più distaccata, alcuni accademici ritengono infatti che, a prescindere dal risultato finale, il Regno Unito e l’Europa hanno imboccato un percorso irrefrenabile di “simpatia e vicinanza” per le sorti della Palestina: “La Gran Bretagna dentro o fuori non cambierà l’atteggiamento europeo”, ripetono da Ramallah. La controversia degli insediamenti israeliani nella West Bank è materia sentita e fatta sentire da Bruxelles, la voce europea suona stonata per Gerusalemme. E così qualcuno mormora che i mal di pancia di Netanyahu per le richieste della Mogherini si curano con la Brexit.

LOST NELLA POLITICA DI ISRAELE

Gerusalemme, i negoziati con i palestinesi sono congelati da tempo, il piano proposto da Parigi è stato rigettato da Gerusalemme, che tuttavia in queste ore ha lasciato uno spiraglio d’azione alla diplomazia egiziana, coinvolgendo indirettamente al tavolo anche la Lega Araba, nella prospettiva di riportare la questione palestinese in un ambito regionale. Intanto la maggioranza di governo si allarga con l’ingresso di Ysrael Beitenu, assorbendo un’ altra forza di estrema destra. Nella attuale Knesset (il Parlamento israeliano) il premier Netanyahu può contare 66 voti su 120 seggi. E in vista dell’approvazione del prossimo bilancio si prepara ad evitare uno scoglio viscido. Mentre, sul fronte dell’opposizione il centrosinistra israeliano naviga tra malumori interni e la mancanza di una luminosa leadership. Generali, sindacalisti, sindaci, giornalisti e avvocati si sono susseguiti alla guida della principale forza laburista del paese (HaAvoda) in questi quindici anni. Figure lanciate coraggiosamente a mani nude nell’arena politica per essere sbranati dal leone di turno. Parabole discendenti di leader provvisori. Una generazione dirigenziale decapitata asfaltata dal voto, al ritmo di: «avanti un altro». Ben Eliezer, il falco della sinistra; Mitzna, il politico venuto dal kibbutz; Peres, lo statista senza popolo; Peretz, “il baffone”, il sindacalista che si è perso in guerra; Barak, la minestra riscaldata; Harish, lo sconosciuto; Yachimovich, la giornalista che sapeva di perdere; Herzog, il secchione, il primo della classe. L’ultimo della lista, “inciampato” politicamente in una recente trattativa con lo stesso Primo Ministro, operazione fallita nel battere di un’ala di farfalla, come era prevedibile. Pesano sul leader laburista le dichiarazioni da lui stesso pronunciate pubblicamente in questi mesi: «Mai con Bibi». Per poi inaspettatamente scegliere di sedersi al tavolo dei negoziati, forse nella speranza di ottenere quel ruolo che molti, non solo in Israele, vorrebbero che ricoprisse: il vertice della diplomazia. Posizione chiave che tuttavia Netanyahu si è guardato bene dall’offrire all’avversario mentre lo accomodava nella sua tana fatale. Alla fine per Herzog il tiro incrociato della stampa e le offese, non proprio gentili, di alcuni suoi colleghi di partito. Un partito che ha smarrito il contatto con la base e perso il radicato consenso elettorale. Paradosso di uno spazio politico che ha letteralmente costruito le fondamenta democratiche dello stato ebraico e che con il passare del tempo non ha saputo risollevarsi da un lento e inesorabile declino. Il centrosinistra è così entrato in un limbo, una stagnazione, una asfissia tra il sogno di diventare un’alternativa concreta di governo e la realtà di restare a vita una minoranza silente, debole, ininfluente. In Israele oggi il potere è saldamente in mano al politico più longevo della sua storia, Benjamin Netanyahu. Fondatore di una nuova destra nazionalista: meno liberale e più settaria. L’uomo del grande freddo con la Casa Bianca. Diffidente per natura, in primis con i palestinesi. Erede dell’ideologia populista di Begin. Distante anni luce sia dalla visione di compromesso storico di Shamir che dal pragmatismo di Sharon. Mattatore delle campagne elettorali, politico di successo. Il Likud, il suo partito è con lui, il presidente della Repubblica Rivlin no. Netanyahu il falco, fautore di una linea di pensiero che guarda ai coloni e apre ai religiosi. È alleato di Naftali Bennet, non solo per convenienza. Ha messo sul carro l’ultra nazionalista Lieberman, nominandolo alla Difesa, e ha fatto uscire dal governo una figura storica e autorevole del suo partito come Moshe Ya’alon. Netanyau con noncuranza e tanti compromessi continua per la sua strada. Ha puntellato una maggioranza scricchiolante, ma con quale rischio?

Un tavolo di pace ancora è possibile

Roma crocevia del futuro assetto politico della sponda Sud del Mediterraneo. Il viaggio del Segretario di Stato americano John Kerry nella città eterna è stato denso di contenuti, al centro dei colloqui questioni delicate come Libia e Siria, a sottolineare l’ultimo atto o tentativo di politica internazionale dell’era Obama. “E lui ora può fare ciò che vuole” libero da vincoli di mandato, l’opinione è di Isaac Herzog, leader del centrosinistra israeliano, rilasciata durante la sua visita romana. Herzog ha presentato a Kerry, in un incontro non ufficiale, un piano strutturato per la ripresa del percorso di pace tra palestinesi ed israeliani che prevede il disimpegno militare dalla West Bank, la fine di fatto dell’occupazione: “separazione” e organizzazione di una conferenza regionale sulla sicurezza in cooperazione con i paesi arabi. “Israeliani vengono uccisi nelle strade e nel mondo vediamo sorgere iniziative surreali e boicottaggi. Il ritiro – dalla West Bank – è il cammino, l’unico, per la soluzione di due Stati.” Il leader laburista, sconfitto nelle passate elezioni da Netanyahu, non è ottimista, non elude il problema del governo di destra che governa il suo paese, a differenza del falco della politica israeliana è consapevole di avere un forte ascendente e un canale privilegiato nei rapporti con Washington. Dove gode di quella amicizia che Netanyahu letteralmente ha portato ai minimi termini, i rapporti tra il leader della Knesset e il presidente degli USA sono pessimi, non c’è fiducia tra i due storici alleati tanto da arrivare, nei passati mesi, ad aperte accuse di spionaggio. Quanto Herzog sia riuscito a convincere il capo della diplomazia della prima potenza mondiale lo capiremo a breve. Intanto c’è tornata alla memoria una vecchia intervista a Khaled abu Awwad, palestinese e pacifista: “Noi e gli israeliani viviamo nel luogo più bello al mondo, eppure non c’è normalità e umanità nel nostro agire.” Khaled ha trascorso un lungo periodo di detenzione nelle carceri israeliane per motivi politici, oggi è considerato uno delle 500 personalità arabe più influenti e in Palestina è impegnato nel promuovere la via della non violenza e del dialogo: “la scelta delle armi è sbagliata, non è con la violenza, con il terrorismo dei kamikaze che raggiungeremo la libertà. C’è un cammino da fare insieme agli israeliani ed è quello del dialogo, dobbiamo sederci e chiarirci una volta per tutte: Qual è il vostro problema? Qual è il nostro problema? Ebrei, cristiani e musulmani siamo su questa terra per costruire e non per distruggere ed uccidere. Pace è una bella parola solo se ha un valore è un contenuto.” Forse hanno ragione Herzog e Khaled una possibilità per mettersi al tavolo, ancora una volta, è possibile. Il problema, a questo punto, è chi invitare.

 

INTIFADA 2.0

Pochi giorni fa, nella terra arida delle colline della Samaria, dove qualche olivo pennella di verde la bianca pietraia che scende verso la strada che porta all’insediamento di Itamar, all’interno di una macchina utilitaria sono stati rinvenuti due corpi inermi. La famiglia Henkin, marito e moglie, crivellati di pallottole, i quattro bambini a bordo, fortunatamente, incolumi. Le vittime, una giovane coppia di coloni israeliani, freddati da cecchini palestinesi miliziani di Hamas. In queste ultime ore gli appartenenti al gruppo di fuoco sono stati arrestati e avrebbero confessato durante l’interrogatorio, mentre a Ramallah dall’Ufficio del presidente palestinese sono arrivate parole ferme di condanna alle violenze e un invito ad abbassare i toni. Intanto, nel fine settimana è la Città Vecchia, il cuore di Gerusalemme, teatro di un attentato dove perdono la vita due israeliani, uno è un rabbino che si stava recando con la famiglia a pregare al Muro del Pianto. Domenica mattina quando il sole non è ancora comparso un giovane palestinese con in mano un coltello è circondato e ucciso dalla polizia, le immagini corrono sul web. La prima risposta di Netanyahu è la chiusura della Città Vecchia agli arabi non residenti, è la prima volta che il governo israeliano prende una tale misura di sicurezza. Oltre tremila soldati sono dislocati a presidiare i vicoli e le porte d’ingresso ai cinque storici quartieri. Nella giornata di lunedì numerosi incidenti nella Cisgiordania, a Tulkarem perde la vita un diciottenne palestinese. Mentre a Betlemme, nel campo profughi di Aida, muore un bambino palestinese di tredici anni. In Terra Santa non si placa la scia di sangue, sono giorni dove si contano morti e feriti, muoiono israeliani e palestinesi. E la protesta violenta dalla Spianata delle Moschee di Gerusalemme si allarga alla periferia, nei campi profughi come nei principali centri della West Bank. I giovani palestinesi – shabab – volto coperto da kefiah e muniti di fionda che caricano con sassi e scagliano con forza ai soldati, alle camionette e alle vetture in transito, nelle arterie che portano al centro della Città Santa. Volano molotov e l’esercito israeliano risponde con lacrimogeni e proiettili, senza tuttavia, essere in grado di contenere gli scontri non più sporadici ma oramai quotidiani. È la nuova Intifada. Qualcuno a sentire questa parola storce il naso, obbiettando che è presto per definirla così, eppure la realtà e la storia di quei luoghi contesi ci insegna che è il nome forse più appropriato. È Urban Intifada o Intifada 2.0, una “rivolta”, questo il significato della parola in arabo, portata avanti da una nuova generazione, per molti versi catalogabile come di rottura con le precedenti: colpisce in strada ma viaggia su facebook e sui social networks. Una eruzione incontenibile che nasce dalla rabbia e dalla voglia di vendetta, rifiuta la trattativa e non crede nella pace, sono “lupi solitari”. Non pensano a vincere e a far trionfare la causa palestinese, tantomeno accettano di essere politicizzati e strumentalizzati da una parte, lo fanno semplicemente per orgoglio e, purtroppo, cultura. Per molti di loro alla fine ci sarà il carcere. Entreranno nelle prigioni israeliane dove ad attenderli ci sono i “rivoltosi” della prima Intifada e i terroristi della seconda, trent’anni di storia del Medioriente e del conflitto israelopalestinese. Tre decenni di disastri a cui la politica non ha dato risposte e rimedio. Le colpe sono davanti agli occhi di ciascuno di noi, non c’è giustificazione nemmeno per la comunità internazionale che avrebbe dovuto proporsi da cuscinetto se non da pacere. Il giornalista Alain Gresh nel libro Israele, Palestina scrive: « Il patto di Ginevra prova, ed era lo scopo dei suoi promotori, a dimostrare che c’è di volta in volta una soluzione politica possibile ….. L’unica altra opzione ha a che fare con l’incubo, con l’apocalisse tanto spesso annunciata su questa terra tre volte santa, un’apocalisse che non farebbe alcuna differenza tra gli uni e gli altri, tra vincitori e vinti. Un’opinione simile ha espresso in queste ore Hilik Bar, esponente di spicco del partito laburista israeliano e speaker alla Knesset: “La radicalizzazione in atto a Gerusalemme Est non è solo il risultato della propaganda delle organizzazioni islamiche – Hamas e Jihad – deriva anche dalla mancanza di scelte che Israele avrebbe dovuto fare riguardo al futuro di Gerusalemme Est e dei suoi abitanti. La situazione complessiva nella maggior parte dei quartieri arabi della città rispecchia lo status ufficiale dei loro abitanti: residente permanente – meno di un cittadino e più di un lavoratore straniero.” Hilik, segretario generale dell’Avodà, punta il dito contro il governo di Netanyahu: “Lo Stato di Israele deve far appello alla logica. La crescente violenza è un chiaro segno del fallimento della politica di Netanyahu centrata sull’esclusivo uso della forza. L’ordine è importante e la dissuasione non è meno rilevante, ma in un luogo così complesso e sensibile come Gerusalemme sono insufficienti. Non si può aspettare l’introduzione di pene più severe o la costruzione di altre barriere per risolvere tutti i problemi. Non si può trattare solo con i sintomi ed evitare di andare a fondo alla radice del problema.” La proposta di Hilik è “trasferire la responsabilità della fornitura di servizi pubblici nei quartieri arabi”, migliorando la qualità della vita e rendere sostenibile, adeguato il livello dei servizi. Un percorso, quello proposto da Bar, che trova vari ostacoli, sia da parte dell’attuale governo che della controparte palestinese. È infatti chiaro che il collasso del processo di dialogo implica la fine dello status a cui “eravamo abituati”. La direzione è oscura, porterà quasi sicuramente ad un punto di rottura con il passato: oggi una nuova rivolta popolare palestinese, domani forse le dimissioni di Abu Mazen o lo smantellamento dell’Autorità Nazionale palestinese per giungere, un giorno non troppo lontano, alla cancellazione degli accordi di Oslo.

Ariel, ebreo-etiope a Tel Aviv: una storia nelle sue parole

In Israele come a Baltimora c’è tensione sociale. La minoranza di colore di origine eritrea ed etiope protesta e accusa la polizia di razzismo. La protesta prosegue da giorni. Teatro delle manifestazioni sono le città di Gerusalemme e Tel Aviv. Centinaia di persone in strada con cariche della polizia, granate assordanti e lacrimogeni. Arresti e feriti. Per capire meglio questa comunità ebraica di origine africana, chiamati Falasha, e il loro contesto in Israele vi proponiamo un’intervista di grande attualità del 2013 a Ariel, ebreo-etiope di 34 anni. Ci incontriamo a Rishon LeZion alle porte di Tel Aviv. Nel suo piccolo ufficio al secondo piano di un centro commerciale squallido e buio. All’ingresso la sicurezza con metal detector e pistola. Controllano e frugano nelle borse di chiunque. In lontananza si scorge l’azzurro mare Mediterraneo. È una giornata di sole e caldo. Ariel ci accoglie alzandosi dalla poltrona nera in cui è sprofondato, è sorridente. Statura media e fisico palestrato. Indossa una camicia Oxford, un pullover nero, jeans e scarpa di cuoio. È giunto in Israele dall’Africa nel 1984: L’inizio è stato duro, io e i miei fratelli non parlavamo ebraico. Guardavamo la televisione per ore, affascinati dal quel miracolo. Una piccola scatola con tutte quelle persone dentro! Ricordo che ci volle del tempo prima di prendere le proporzioni con tutte quelle novità. La tristezza prende il sopravvento ricordando quei giorni. La drammatica fuga durante la quale perse la madre. Nella storia d’Israele spesso la strada dell’aliyah, intrapresa dagli ebrei per raggiungere la Terra Santa, è un viaggio arduo da portare a termine. Ariel ha lasciato tutto quello che aveva da bambino nel suo villaggio in Etiopia, ha nascosto la sua identità ebraica per settimane. A 5 anni è salito su di un aereo del Mossad in Sudan per scendere in Israele: Gerusalemme è diventata la mia vita. È cresciuto in Galilea, in un kibbutz. Scuola e lavoro nei campi. Ha indossato la divisa dell’esercito con la stella di Davide per sette anni. Raggiungendo il grado di ufficiale, cosa di cui è visibilmente orgoglioso: Una scimmia che avrebbe dovuto vivere sugli alberi invece, era diventata ufficiale. Come? Perchè? Per gli altri commilitoni era difficile d’accettare. E se non me lo dicevano in faccia, si leggeva nei loro occhi che proprio non gli andava giù. L’ironia di Ariel spiazza, è tagliente contro il razzismo dilagante a Occidente e Oriente: I gradi e la guerra mi hanno trasformato in un israeliano come gli altri. Altrimenti sarei rimasto un escluso ed emarginato. Amos Oz nel suo libro “Tra amici” fa dire al personaggio immaginario del “compagno” Zvi una grande verità: “Chiudere gli occhi di fronte alle crudeltà della vita, secondo la mia opinione è tanto stupido quanto colpevole. Possiamo fare ben poco. Allora, quantomeno è un dovere dirle”. Ariel è stato ferito in una operazione militare nei Territori Palestinesi: Avevo 40 uomini ai miei ordini. Durante uno scontro a fuoco sono stato colpito da due proiettili. Ho perso due miei uomini in quel conflitto sulle colline di Betlemme. Allora decisi di lasciare le armi. Ariel ha viaggiato molto all’estero, in particolare in Asia. È tornato sui banchi a studiare. Praticantato presso il Ministero di Giustizia, è avvocato. Oggi è a disposizione come riservista dell’esercito. Sposato con due figli è impegnato nella causa dei diritti degli ebrei-etiopi israeliani: la gente della mia comunità è quella che nella società israeliana svolge i lavori più umili. Lavano i piatti nei ristoranti, puliscono le strade, gli aeroporti, i centri commerciali e non sono protetti dalla legge. Io mi adopero contro queste discriminazioni nei confronti degli etiopi. Lavoro per cambiare le legislazioni che impediscono di avere tutti uguali diritti. La comunità etiope in Israele non supera il 2% della popolazione. Vengono abitualmente chiamati Falasha: Non mi piace essere chiamato Falasha. È l’appellativo che ci hanno affibbiato in Etiopia i cristiani per dire che eravamo diversi, stranieri. Io sono israeliano e la mia identità culturale e religiosa è di ebreo etiope. Politicamente la comunità etiope è sempre stata un bacino di voti sicuri per il Likud, il partito di Bibi Netanyau e nelle case degli etiopi alle pareti non mancano mai le foto di Begin o Shamir. È sotto i loro governi che noi siamo arrivati in questa terra. Votare per il Likud è una forma di riconoscenza per la mia gente. Oggi questo “obbligo morale” di voto è ad una svolta. Ariel è il rappresentante di una nuova generazione, borghese e progressista. Chiede meno tasse, una educazione ed un futuro migliore per i suoi figli. L’area politica di riferimento è quella della classe media israeliana, dei partiti centristi e liberali come Yesh Atid.

Il falco dispiega le ali, anche controvento

In Israele vince Benjamin Netanyahu, contro tutti i pronostici che lo davano per sconfitto. Il leone della politica israeliana ha, durante gli ultimi giorni e le ore del voto, movimentato le acque e compiuto un vero e proprio colpo da campione, smentendo tutti i sondaggi che lo davano sconfitto. Netanyahu non risulterà simpatico ma indubbiamente è stato ancora una volta assolutamente gaon, geniale. Quella di Netanyahu è una vittoria a 360°. Perché ha raccolto 30 seggi, la metà di quelli necessari per governare; portato di nuovo il Likud, un partito sempre più “personale”, ad essere la prima forza del paese; demolito il fronte di centrosinistra e oscurato la stella nascente di Herzog; ridimensionato gli storici alleati di governo, in particolar modo i nazionalisti di Bennet e il partito dell’ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman; ed infine, cosa non da poco, ha convinto gli elettori israeliani a non disertare le urne, la percentuale dei votanti è stata alta, oltre il 70%. A questo punto Netanyahu non avrà il vincolo di formare un governo di coalizione nazionale, come chiede il capo dello Stato, Reuven Rivlin, può allearsi con le forze politiche di destra a lui più vicine, riportandole al governo. Ha poi nei fatti, enfatizzando nell’opinione pubblica il pericolo, “ghettizzato” il voto arabo, terza forza in Israele. Il futuro Primo Ministro ha inoltre, mandato un chiaro messaggio ad Obama e ai paesi europei: è con lui che devono trattare nei prossimi anni, nolenti o dolenti. Ha con questo risultato azzittito le critiche dei vertici dell’esercito, dimostrando che il loro peso nell’influenzare la società è inferiore al suo carisma politico. Domani Netanyahu non dovrà ascoltare i suggerimenti di nessuno, tranne quelli della vicina, anche politicamente, moglie Sara. Il falco è libero di volteggiare, il problema di fondo è dove volerà? Verso il riconoscimento internazionale della sua figura di grande statista, come è stato in passato per due storici primi ministri, Yitzhak Rabin e Ariel Sharon, oppure spiccherà il volo verso nuove guerre e una politica che isolerà ancor di più Israele? Come trasformerà il consenso ricevuto in una proposta complessiva di governo, che dia risposte ai problemi economici e sociali di una grande parte della popolazione ed insieme costruisca la convivenza con i paese vicini? Sono tutte domande che a breve avranno una risposta. A riguardo abbiamo raccolto l’opinione di Itzhak Rabihiya, giornalista e portavoce del partito laburista israeliano ai tempi di Ehud Barak: “Oggi è una pessima giornata per il fronte progressista, per chi è convinto della necessità di aprire un dialogo costruttivo con i palestinesi. La vittoria di Netanyahu è schiacciante, senza ombra di dubbio. Ha vinto puntando ancora una volta sulla paura degli israeliani, evocando la minaccia palestinese e quella iraniana. Magistralmente, ahimè, ha saputo convincere gli elettori della necessità di una leadership forte, la sua. Mentre il centrosinistra ha fallito sotto questo aspetto, non ha saputo capitalizzare il vantaggio iniziale e aggregare l’elettorato. C’è da anni nel centrosinistra una deficienza di leadership che diventa palese il giorno dopo il voto. Vedete io, dopo questo risultato, mi auguro che Netanyahu dimostri coraggio, che non scelga la via di un governo di destra pura ma che apra anche al centro, che bilanci le tendenze dell’estrema destra con i liberali di Lapid e forse anche con il centrosinistra di Herzog e Livni. Per il bene di Israele dovrà trovare un partner palestinese con cui dialogare in maniera diretta, altrimenti agire attraverso la mediazione europea o di Obama.” A Zoughbi Zoughbi, politico, pacifista e fondatore del Palestinian Conflict Resolution Centre, abbiamo chiesto di commentare il voto visto dal lato palestinese. Nelle sue parole c’è rassegnazione e poca speranza: “Le elezioni sono sempre un beneficio alla democrazia. Nel caso israeliano la vittoria di Netanyahu è l’affermazione di una destra che si pone in contrasto aperto con la Comunità Internazionale, una politica che non cerca soluzioni al conflitto israelopalestinese. La politica e le parole di Netanyahu buttano acqua sul fuoco del processo di pace. E annunciano nuove catastrofi.”