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ISRAELE E LA LUNGA ESTATE PRIMA DEL VOTO

In Israele è tensione sociale, a manifestare è la comunità etiope, i Beta Israel o falasha (questa parola nelle sue varie accezioni ha anche il significato di “straniero”). Appartengono alla famiglia dell’ebraismo in quanto rivendicano la tradizione di essere i discendenti del connubio tra re Salomone e la regina di Saba. In 45 mila migrarono grazie and un ponte aereo in Israele dall’Africa nel decennio 1980-1991. Attualmente rappresentano circa il 2% della popolazione. L’episodio che ha provocato decine di arresti e feriti è l’uccisione di un giovane ragazzo da parte di un poliziotto fuori servizio. Il poliziotto dopo aver pagato una cauzione di 1400$ è stato posto agli arresti domiciliari, provocando la rabbia degli israeliani etiopi.

Intanto la macchina politica in vista delle elezioni anticipate a settembre è in moto. Indette in seguito al fallimento di Netanyahu di dare vita ad una maggioranza di governo dopo il voto di aprile. Allora, andò in scena il dramma collettivo del centrosinistra con i laburisti dell’Avodà che ottenevano il peggior risultato di sempre, relegati al 4,02% dei consensi e ad una compagine di 6 parlamentari. Deludente fu anche la performance dell’altro partito socialista, il Meretz, che ottenne solo 4 seggi nei banchi della Knesset. Tre mesi dopo e il campo del centrosinistra è in piena sollecitazione, cambio di vertici. Nel Meretz il giornalista Nitzan Horowitz ha preso il posto di Tamar Zandberg. Mentre, dalle animate e partecipate primarie (65mila iscritti) dei laburisti è uscito il nome dell’ex sindacalista Amir Peretz, esponente della vecchia guardia del partito dei padri fondatori della nazione ed entrato tra i banchi della Knesset nel “lontano” 1988. Peretz già sindaco di Sderot era stato leader dell’Avodà nel 2006 ed ha rivestito, senza non poche critiche, il ruolo di ministro della Difesa dal 2006 al 2007. Quando venne sostituito e spodestato da Ehud Barak. Oggi, ha ripreso le redini del partito avendo avuto la meglio nei confronti dell’ala dei trentenni che ispirò le proteste di massa del 2011, tra cui spiccano due figure di riferimento il “glaciale” Itzik Shmuli e la “focosa” Stav Shaffir. Non unendo le forze hanno lasciato spazio libero ad una facile affermazione di Peretz (47% delle preferenze), intenzionato pare ad aprire all’idea di un’alleanza con il Meretz.

In Israele il quadro politico attuale è di due grandi poli attrattivi: quello di destra che ruota intorno al Likud di Netanyahu (35 parlamentari) e quello centrista della lista Blu e Bianco (35 parlamentari) capitanata dall’ex capo di stato maggiore dell’esercito Benny Gantz. L’obiettivo più plausibile per una “rinascita” del centrosinistra è la nascita di un blocco unico, stessa sorte per i partiti arabi destinati a chiudere il capitolo della faziosa divisione. Il vero dilemma è come riusciranno a fare sintesi l’anima del Meretz guidato dal “rosso” Horowitz, quella dei laburisti di Peretz e infine la neo formazione, di cui non si conosce il nome, lanciata dal militare più decorato di Israele Ehud Barak, ritornato in politica dopo una parentesi dedicata al business della cannabis. E deciso anche lui a sfidare Netanyahu.

RE BIBI SENZA TRONO

Israele torna al voto. Sciolto il parlamento insediatosi dopo il risultato delle elezioni del 9 aprile scorso. Tempo scaduto per Netanyahu che aveva mietuto l’ennesimo parziale successo elettorale, 35 seggi conquistati su 120. Alla pari con l’antagonista ed ex capo di stato maggiore Benny Gantz, ma a differenza del suo avversario con la possibilità di imbastire una larga coalizione includendo l’estrema destra e i partiti religiosi. Per questo motivo aveva ricevuto come da consuetudine il mandato esplorativo, la strada era spianata e quella che sembrava una pura formalità è degenerata complicandosi in poche settimane. Le consultazioni post elettorali si sono trasformate in un tormento per il premier. La causa del fallimento diplomatico del falco della politica israeliana è il frutto di un teso confronto ideologico all’interno della destra sulla laicità dello stato. Veleni che sono riemersi nello scontro sull’approvazione della legge per la coscrizione obbligatoria degli studenti delle scuole religiose promossa da Avigdor Liberman (già ministro della difesa del precedente governo) e contestata dai partiti religiosi: Shas e UTJ. Movimenti politici che rappresentano le principali famiglie dell’ortodossia ebraica, contano ciascuno 8 seggi in parlamento e sono l’indispensabile ago della bilancia delle geometrie di Netanyahu. Il rifiuto all’apparentamento di un inamovibile Avigdor Liberman, leader del partito nazionalista e russofono Yisrael Beytenu (5 seggi nella XXI Knesset), è un’amara presa di coscienza per il premier israeliano: quadratura del cerchio da rifare. Sfumato, per ora, il sogno di insediarsi per la quarta vola consecutiva sul trono di Israele. E allora, il leader populista del Likud pur di non lasciare campo di manovra al presidente Rivlin, consentendo una chance a Gantz per verificare un eventuale governo di responsabilità nazionale dalle larghe intese, ha voluto con un corsa contro il tempo che il parlamento votasse per la sua dissoluzione, terminando questa legislatura lampo, nata sotto una cattiva stella.

TREGUA

Medioriente. Storie di normalità paradossale. Dalla Striscia di Gaza piovono su Israele centinaia di razzi, provocando il panico tra la popolazione della regione mediorientale del Paese. L’esercito con la stella di Davide risponde con i caccia dell’aviazione, colpendo le strutture militari di Hamas, coinvolti nei bombardamenti anche i civili. Ore di tensione e spirale di violenza. Morti da entrambi gli schieramenti. Le Nazioni Unite invitano alla calma, il presidente Turco Erdogan accusa apertamente di terrorismo Israele, Trump al contrario lo difende schierandosi al suo fianco al 100%. Tregua. Pare. Sospensione delle ostilità siglata grazie al lavoro svolto sul campo dalla Mukhabarat, i servizi segreti del Cairo. È una nuova pagina dell’eterno conflitto tra i due popoli, asimmetrico o meno negli ultimi dieci anni si sono svolte tre guerre (2009, 2012 e 2014) e un numero impressionante di “schermaglie”. La guerra, l’ennesima, è dietro l’angolo. La pace, se di pace si possa mai parlare, è appesa ad un filo. Tenue. In gioco troppe varianti: Israele è alla vigilia della ricorrenza della sua nascita (che coincide con la nakba, l’inizio della catastrofica disavventura palestinese) e nel bel mezzo della formazione del prossimo governo, la maggioranza uscita dalle elezioni del 9 aprile ha dato mandato, riconfermandolo, a Netanyahu per la formazione dell’esecutivo. Per dar vita ad un governo solido (con più di 61 dei 120 seggi) il falco della destra necessita tuttavia dell’appoggio del partito nazionalista Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman, ministro della difesa dimissionario per divergenze con il premier proprio sulla questione della gestione della crisi di Gaza lo scorso novembre. Il grattacapo di Netanyahu, in queste ore, è se fare un passo indietro e offrirgli nuovamente quel dicastero, in una fase così altamente delicata. L’altra variabile è dal lato palestinese la jihad islamica, organizzazione terroristica responsabile del massiccio lancio di missili, longa manus dell’Iran e ai ferri corti con Hamas, per la spartizione dei fondi promessi dal Qatar. Sono una scheggia impazzita, e pericolosa, in un contesto già caldo.

NETANYAHU SCEGLIE LA PRIMAVERA PER LE ELEZIONI

In Israele verso il voto. Elezioni ad Aprile, anticipate rispetto alla naturale scadenza di mandato del prossimo autunno. Lo scioglimento della Knesset, il parlamento, era nell’aria da qualche settimana, dopo l’uscita dalla maggioranza del partito guidato dal nazionalista Lieberman, che di fatto aveva staccato la spina all’attuale esecutivo. E così la campagna elettorale entra nel vivo, all’insegna della ricerca dell’antitodo a Netanyahu. Il falco della destra israeliana resta, almeno per il momento, il candidato favorito. In questi anni ha tenuto ben saldo il potere nelle sue mani, concentrando su di se attenzione e dicasteri. Dal suo cilindro magico inaspettatamente può uscire di tutto: guerre, tregue, minacce, affari. È impelagato in una serie di procedimenti della magistratura per presunta corruzione. Le indagini sono tutt’ora in corso ma nessuno è convinto che i giudici si esprimeranno in tempi rapidi, rischiando di portare il dibattito politico in un campo di scontro mortale tra organi dello stato. Una bomba ad orologeria a cui è stato temporaneamente disattivato il timer. Correrà in parallelo al voto per il rinnovo del parlamento europeo, dove appoggia apertamente i partiti populisti. Netanyahu ha una lunga esperienza nel collezionare successi elettorali. In pubblico è uno squalo nel suo habitat. Vittime preferite, e predestinate, sono i leader del centrosinistra laburista, messi tutti al tappeto da Ehud Barak a Isaac Herzog. Chi non vorrebbe entrare nella fossa del leone è il segretario in carica Avi Gabbay. Disposto a farsi da parte per dare spazio, anche alla luce di impietosi sondaggi, ad un blocco centrista. Se la coalizione dovesse concretizzarsi il nome più plausibile al vertice del listone dovrebbe essere quello di Benny Gantz, ex capo di stato maggiore dell’IDF. Le chance di sconfiggere il falco sono appese ad un filo tenue.

LA RETE DIPLOMATICA PUTINIANA

La Madre Russia non è mai stata così influente in Europa. E, c’è chi ritiene, come il finanziere Soros, che l’Italia rischia di essere la testa di ponte del piano putiniano: edificare la cattedrale d’oriente sulle rovine del condominio di Bruxelles. Putin ha saputo avvantaggiarsi internazionalmente grazie al periodo obamiano delle politiche di disimpegno dai contesti caldi, rafforzando poi la sua posizione con la nomina del capriccioso e inaffidabile Trump. Sul piano diplomatico Putin ha messo in campo strategie che hanno cambiato gli assetti di intere regioni: dalla troika con Erdogan e Rouhani per il controllo della Siria, all’appoggio insieme al faraone al-Sisi al generale Haftar per la conquista della Libia. Nuovi e vecchi teatri su cui muoversi in quasi totale libertà. Da un lato la Russia postsovietica continua ad avere un peso specifico rilevante sulla questione dei Balcani, in difesa dei fratelli serbi, dall’altro Putin non ha abbandonato qualche velleità nei confronti dei Paesi Baltici. Con la Polonia invece le distanze sono culturali e le affinità politiche. L’ex agente del KGB poggia gran parte del successo estero su propaganda e lobbismo. Ha assecondato Chirac, Sarkozy, Hollande e ora fa lo stesso con Macron. Con la Merkel non c’è amicizia ma affari, e a Berlino va bene così. Fronte complesso quello con l’Ucraina, una guerra nemmeno troppo silente, tra spionaggio e attentati, veri come l’abbattimento del volo civile MH17 con un missile Buk in dotazione all’esercito russo o presunti come l’assassinio del giornalista russo Arkadij Babcenko, dato per morto e poi ricomparso “resuscitato”, lasciando tutti interdetti tranne il controspionaggio ucraino. In Italia, l’erede di Stalin, può contare su un variegato parterre. La simpatia per Berlusconi, l’endorsement a Salvini e l’elogio per il neo governo di Conte. Ottime relazioni con la Cina dell’imperatore Xi Jinping, l’asse tra il comunismo maoista e quello stalinista continua ad avere una corsia preferenziale, addirittura migliore che in passato quando l’ideologia dell’ortodossia marxista non era sufficiente ad appianare aperte “divergenze” d’indirizzo geopolitico, dal Vietnam all’Albania. Nel Vicino Oriente sicuramente Putin non lascerà degenerare la crisi politica in cui è scivolata l’Armenia. Mantenendo allo stesso tempo un legame speciale con Ilham Aliyev, signore dell’Azerbaigian. Sostiene, in linea con l’Europa, l’accordo iraniano di denuclearizzazione. Mentre, concede a Netanyahu sconfinamenti in suolo siriano, basta che venga informato preventivamente e non sia messa in pericolo la vita dei suoi uomini dislocati in appoggio ad Assad. Netanyahu non tira troppo la corda, manifestando prudenza, e soggezione, nei confronti dello zar di Pietroburgo. Il quale oltre alla superiorità militare può contare su un fattore sociale, molto convincente: un sesto della popolazione israeliana, con diritto di voto, è di origine russa. Ha tifato, spudoratamente, Brexit. Oggi però paga tensioni crescenti tra le sponde del Tamigi e del Volga. Dal governo della May pesano le accuse che la lunga mano di Putin abbia ordinato l’avvelenamento dell’agente segreto moscovita Sergej Skripal, passato al servizio di Sua Maestà e miracolosamente vivo dopo l’attentato subito. Un caso in stile James Bond con 007 doppiogiochisti e una catena di eventi che ci ha riportato agli anni della Guerra Fredda. Infine, il rapporto tra Putin e Trump, ondivago e difficile da interpretare. Tra i due non c’è dualismo e ostilità, al contrario, ma in USA non solo il Pentagono chiede distanza e maggiore trasparenza. I vertici statunitensi vorrebbero evitare che Trump finisca per diventare un topolino nelle grinfie del gatto siberiano. Il crollo dei regimi comunisti ha portato la Casa Bianca a togliere quel cordone di sicurezza che presidiava i confini adiacenti alla Cortina di Ferro, incluso il nostro. Zone d’interesse strategico che sono diventate prede “appetibili”, in un nuovo spazio dove vale sempre di più il principio di “cane mangia cane”.

MORTE NELLA STRISCIA PALESTINESE

La Primavera della protesta palestinese è iniziata con un bagno di sangue. Lungo il confine di Gaza avrebbe dovuto svolgersi una manifestazione dedicata al Giorno della Terra, la prima di una lunga serie, per ricordare i territori confiscati da Israele. La propaganda di Hamas ha prontamente aderito all’evento. Dall’altra parte della frontiera i soldati israeliani ricevevano l’ordine di sparare. Alla fine manifestanti uccisi e feriti. Tutto questo a poco più di un mese dall’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme e nei giorni che precedono la ricorrenza della tragedia palestinese, la Nakba. Il livello di tensione si alza notevolmente. Con un movimento palestinese destinato a crescere nei prossimi giorni, nelle cui file affluisce un fiume di giovani. E che coagula differenti componenti della politica palestinese, da chi professa l’approccio non violento, alle frange di miliziani fondamentalisti. Gaza in queste ore è una pentola a pressione. Una “prigione” che ospita quasi 2milioni di palestinesi, in un fazzoletto densamente popolato dove comanda il regime di Hamas. A partire dagli anni ’90 Israele ha introdotto la limitazione di movimento ai cittadini della Striscia. Ma solo nel 2007 Egitto e Israele mettono i sigilli alle frontiere. Allo stesso tempo, Ramallah entra in collisione con Gaza, la frattura politica tra Fatah e Hamas si incancrenisce e diventa anche geografica.
A Gaza oggi la situazione di criticità è endemica nei servizi, da quelli idrici alla sanità. Peggiorata da scarse forniture di carburante e dalla ripetuta emergenza elettrica. Israele che dal 2017 aveva tagliato l’elettricità, ha ripreso la fornitura. Le spese sono a carico dell’Autorità Nazionale Palestinese, riluttante a coprire i debiti di Hamas. È collasso anche nella gestione dei rifiuti, decine di migliaia di tonnellate di spazzatura lasciata in strada a marcire. A febbraio 12 ospedali pubblici non erano in grado di fornire la diagnostica. Uno stop aggravato dallo sciopero del personale medico per il mancato pagamento degli stipendi arretrati. Gli aiuti internazionali, pur rilevanti, non bastano a migliorare il contesto. La sforbiciata di Trump ai fondi umanitari delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi ha trovato altri canali di finanziamento. Chiudere la borsa è stato l’ultimo affronto pubblico di Trump ad Abu Mazen. Le relazioni tra USA e Palestina sono ormai compromesse dal riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele, avvenuto lo scorso dicembre. Decisione che ha isolato Washington sul piano internazionale, provocando una reazione nel mondo arabo, anche fuori i confini del Medioriente. Trump potrebbe decidere di partecipare personalmente all’inaugurazione della nuova sede diplomatica di Gerusalemme, nel qual caso l’erede di Arafat non avrebbe alternative a rispondere con una dichiarazione di pari portata: se non “guerra” quasi.
La scelta della Casa Bianca ha alimentato contrapposizione, lasciando il cielo della Terra Santa a falchi, pronti a gettare benzina sul fuoco. Ismail Haniyeh, leader di Hamas, minaccia che: “non cederemo un pezzo di terra di Palestina, né riconosceremo l’entità israeliana”. Proclama bellico che estende a Trump: “Promettiamo di non rinunciare a Gerusalemme ”. Jason Greenblatt, inviato statunitense per le negoziazioni tra Israele e Palestina, ha lanciato pesanti accuse incolpando a sua volta Hamas di “incoraggiare una marcia ostile” e “istigare alla violenza”. Ormai in secondo piano Abu Mazen, relegato in una posizione marginale, compromessa dall’età e dalla salute. Il suo partito Fatah non è al momento in grado di veicolare o controllare la protesta, tantomeno a Gaza. In questa fase l’escalation garantirebbe quindi ad Hamas un maggiore consenso popolare e una posizione di forza. Che potrebbe sfruttare nella scelta del futuro presidente del popolo palestinese. Sul fronte israeliano, qualsiasi conferma che non esiste una controparte con cui dialogare, porta solo acqua al mulino di Netanyahu.

TRUMP E I SIONISMI

L’anno appena concluso ha visto Trump ordire la sua vendetta contro l’Onu, tagliandogli i fondi per aver boicottato e condannato la sua decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. Nella città Santa il 2018 si apre con il partito di destra del premier Netanyahu che spinge pubblicamente per annettere gli illegali insediamenti israeliani in Palestina. Il conflitto israelopalestinese è per sua natura alimentato da ideologie religiose e pretese politiche, e viceversa da pretese religiose e ideologie politiche, che inaspriscono la contrapposizione fomentando la violenza senza fine.
“Io continuo ad essere fiducioso nel raggiungimento di una pace basata sul principio due popoli – due Stati, sebbene la colonizzazione che Israele ha portato avanti negli ultimi decenni in Cisgiordania metta sempre più a rischio la possibilità che sorga uno Stato palestinese indipendente dotato di una minima contiguità territoriale. Proprio perché penso che questa sia la strada da perseguire, auspico un impegno forte della comunità internazionale in tal senso. Vista la posizione dell’amministrazione Trump, ripongo ovviamente le mie speranze nell’Unione Europea, a patto che Bruxelles abbia la consapevolezza che il tempo rimasto per la creazione di uno Stato palestinese degno di questo nome è molto poco e agisca con coerenza e rapidità”. A parlare è Arturo Marzano docente di Storia del Medio Oriente e Storia del conflitto arabo-israeliano all’università di Pisa, autore del volume Storia dei sionismi. Lo stato degli ebrei da Herzl a oggi (Carocci, 2017).
Professor Marzano quanto l’idea di Gerusalemme capitale è presente nel pensiero sionista?
“Da quando il movimento sionista, nel 1905, decise di scegliere la Palestina, allora parte dell’Impero Ottomano, come il luogo della realizzazione della propria rinascita nazionale, Gerusalemme ha avuto un ruolo centrale. Non è un caso che proprio a Gerusalemme sia stata fondata nel 1918 l’Università ebraica e che subito dopo la Guerra del 1948 Gerusalemme ovest – la parte orientale era passata sotto controllo giordano – sia stata scelta come capitale del neonato Stato. Con la Guerra dei Sei Giorni e la conseguente conquista della città vecchia – dove si trova il Muro occidentale (Kotel), il luogo più sacro per l’ebraismo – poi, Gerusalemme ha assunto un ruolo ancora più rilevante dal punto di vista identitario”.
L’annuncio di Trump ha scatenato il caos, perchè una mossa così avventata?
“Il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele è dovuto, da un lato, a fattori di politica interna – mobilitare ulteriormente i propri elettori riconducibili alla destra evangelica filo-israeliana – e, dall’altro, a elementi di politica internazionale, vale a dire segnare la discontinuità con la prevedente amministrazione Obama rispetto al processo di pace israelo-palestinese e riaccendere lo scontro con l’Iran con l’obiettivo di smantellare l’accordo sul nucleare”.
Il pacifismo israeliano è una realtà radicata nella società, la politica di Netanyahu è vincente da due decadi nelle urne: è questa la grande spaccatura di Israele?
“Sono tante le divisioni all’interno della complessa e multiforme società israeliana. A mio avviso, la più rilevante frattura è attualmente quella tra due visioni di Israele. Da un lato, quella che si identifica con l’espressione Medinat Israel (Stato di Israele), che considera fondamentale l’esistenza di uno Stato ebraico indipendentemente dai suoi confini ed è, dunque, disposta ad un compromesso territoriale con i palestinesi. Dall’altra, la visione che si identica con Eretz Israel (Terra di Israele) e che ritiene essenziale il mantenimento del controllo su Giudea e Samaria (cioè la Cisgiordania), occupate nel 1967. Mentre per la prima tendenza rinunciare ai Territori palestinesi occupati significherebbe il proseguimento del sogno sionista, per la seconda il ritiro da quei territori significherebbe al contrario la fine stessa del sionismo”.
Nazionalismo palestinese e nazionalismo israeliano troveranno mai un punto d’incontro o rappresenteranno l’eterna contrapposizione di due mondi, e due popoli, inconciliabili?
“Non userei espressioni come “eterna contrapposizione”. Nonostante il conflitto sia chiaramente la realtà prevalente, sono esistiti in passato ed esistono tuttora numerosi esempi di collaborazione tra israeliani e palestinesi. Le organizzazioni non governative congiunte come “Combattenti per la pace”, tra le tante, lo confermano”.
La contesa di Gerusalemme è un libro aperto, pagine drammatiche di un conflitto secolare, dove le strategie imperialiste britanniche in passato e la visione trumpiana oggi continuano a giocare un ruolo inopportuno.

L’ESTATE DEL BIBIGATE

In Israele il governo guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia di voler oscurare l’emittente televisiva Al Jazeera, perchè fiancheggerebbe il terrorismo. Ma la decisione presa dal ministro delle Comunicazioni di Gerusalemme presenta talmente tante anomalie da risultare pressochè inefficace e quasi certamente fallimentare. Infatti, prassi vuole che la revoca delle credenziali ai giornalisti esteri deve essere motivata, e comprovata, con una informativa delle agenzie di sicurezza. Inoltre, per spegnere la CNN araba occorre il sostegno delle compagnie che mettono sul mercato i pacchetti televisivi via cavo o satellitari, anche in quel caso il provvedimento non avrebbe nessun effetto per il semplice dato che gli arabi israeliani seguono il canale qatariota avvalendosi di antenne paraboliche. Infine, la serrata delle sedi locali dell’emittente di Doha è materia del parlamento (Knesset). E ciò può avvenire solo dopo aver seguito l’iter burocratico: passaggio della  mozione nel gabinetto dei ministri, verifica di costituzionalità dell’atto da parte dell’avvocatura di stato e poi ritorno alla Knesset per il voto finale. Insomma, Al Jazeera resta accesa. Dietrologia vuole che con questa manovra il governo israeliano abbia voluto banalmente mandare un messaggio “distensivo” al blocco dei paesi del Golfo non allineati con il Qatar, emiri sauditi in primis. Intanto, un vero e proprio terremoto politico rischia di demolire la popolarità e definitivamente la carriera di Benjamin Netanyahu. Uno scandalo a catena che riguarderebbe presunti illeciti del primo ministro in questi anni. Lui, che non è digiuno a scalpori e gossip, dalle vociferate relazioni extraconiugali alle critiche per le vacanze lussuose spesate da noti imprenditori, risponde che è vittima di un linciaggio mediatico. Differente lettura danno i magistrati che lo “braccano” oramai da mesi su vari fronti. Prima l’apertura di due fascicoli denominati 1000 e 2000: uno per i regali alla moglie Sara che nasconderebbero tangenti, l’altro per le pressioni ad un editore per “ammorbidire” la linea. E poi, ad inguaiare il leader del Likud il filone d’inchiesta 3000, una presunta frode nella commessa di sottomarini acquistati dal gruppo tedesco ThyssenKrupp. Ad arricchire le ricerche del procuratore generale Avichai Mandelblit c’è la testimonianza dell’ex capo di gabinetto di Netanyahu, Ari Harow. Devoto “servitore”, Harow accusato di molteplici reati, ha preferito aprire una trattativa sulla sua testimonianza con gli inquirenti e ricevere così una pena ridotta, evitando il carcere. Eppure, anche difronte ad un maremoto di questa portata non è da escludere la possibilità che Netanyahu ne esca “brillantemente” pulito. Al momento nel tentativo di sedare dolorose faide interne al suo partito ha scavato una trincea intorno all’esecutivo. Stiamo parlando del più longevo politico israeliano, dopo il padre della nazione David Ben Gurion, che ha dimostrato di essere inossidabile e intramontabile, ma forse oggi è più vulnerabile. Ha estremizzato la sua posizione nel corso delle stagioni e polarizzato l’attenzione pubblica sulle sue “verità”: “con i palestinesi non c’è dialogo e l’Iran è il male”. Convinto antiobamiano e antieuropeista. Amico di Putin. Nemico di Abu Mazen, “confinato” in queste ore a Ramallah nella Muqata, dopo le violenze esplose in Terra Santa nelle passate settimane. Netanyahu ha cavalcato il trumpismo, e come l’inquilino della Casa Bianca attraversa un periodo nero. Populista carismatico, scafato e diffidente, rispettato e odiato. La retorica del re nudo bene descrive la discesa lenta ed inesorabile di questo statista, che ha saputo incarnare i vizi di Israele. Se le prove di Harow dovessero incastrarlo la favola volgerà al termine. Attendiamo nuove sorprese sotto il sole di Gerusalemme: Dimissioni? Crisi di governo? Nuove elezioni? Comunque, la saga del “falco” sembra aver imboccato, una volta per tutte, la lunga strada dell’aula di un tribunale.

FUOCO ALLE POLVERI IN MEDIORIENTE

A nulla è servito l’accorato appello di papa Francesco “alla moderazione e al dialogo” per il Medioriente. Gli echi del conflitto israelopalestinese tornano prepotentemente alla cronaca in un susseguirsi di violenza senza confini. È caos dalla Palestina alla Giordania, dove nella zona residenziale di Amman è stato compiuto un attacco terroristico all’ambasciata israeliana. A Gerusalemme, il venerdì della “rabbia” palestinese era arrivato, prevedibile e inesorabile. Dopo giorni di proteste e scontri la città eterna è stata attraversata da tensioni culminate con morti e feriti. Due popoli condannati dall’abisso eterno dell’incomprensione, in una terra contesa pietra per pietra. Il sangue palestinese scorre nelle strade di Abu Dis, El-Azarya, Ras Al-Amud e At-Tur, quartieri periferici di Gerusalemme est. La scia di dolore si sparge nella colonia illegale di Halamish, tra Ramallah e Nablus. In passato i teatri della violenza sono stati i vicoli arabi di Shuafat, Silwan, Jabel Mukaber o gli insediamenti israeliani di Efrat, Ariel e Maccabim. Cambiano i nomi dei luoghi e si aggiornano le statistiche di morti, feriti e arresti.

C’è chi oggi parla di una nuova Intifada alle porte ma, forse, è sempre la stessa che non è mai finita. Dal ’67 l’espansione israeliana ai danni dei palestinesi è proseguita inesorabile, erodendo terra e libertà. Radicando in entrambi una cultura impregnata di richiami alla resistenza o alla difesa. Tra quelle rocce tutto si carica di un significato simbolico che assume un valore trascendentale e, allo stesso tempo, politico. Simboli che non possono essere condivisi, una linea rossa invalicabile che per essere preservata risponde alla “legge” dello status quo: la legittimazione a fermare le lancette dell’orologio. Allora, una vecchia scala in legno viene lasciata per secoli sulla facciata del Santo Sepolcro, irremovibile per non alterare diritti e pratiche nel sancta sanctorum della cristianità. Tradizioni gelosamente custodite che esprimono potere e anche arroganza, come quella di continuare a vietare alle donne ebree di partecipare liberamente alle liturgie nel Kotel, il Muro del Pianto. Persino un metal detector, se si decide di istallarlo all’ingresso di un luogo di culto, in questo caso la Spianata delle Moschee, è considerato una provocazione e innesca un turbine di violenza inaudita.

Quando venerdì mattina, in una Gerusalemme blindata dalle forze dell’ordine, solo la voce del muezzin di al-Haram riecheggiava dal minareto, nel silenzio delle altre moschee, il finale era già scritto: cortine di fumo, sassi, manganellate e pallottole. Israele nel giorno della preghiera santa per i musulmani aveva chiuso agli uomini con meno di 50 anni l’accesso alla Spianata delle due Moschee sacre, una violazione criticabile certo, ma nulla che non fosse accaduto in precedenza tra quelle mura occupate. Invece, questa volta, la risposta di protesta palestinese ha avuto un’intensità e una partecipazione altissima. Mentre, gli organi di sicurezza israeliani giustificavano la presenza di maggiori controlli con il recente attentato terroristico del 14 luglio: due poliziotti drusi uccisi da tre assalitori arabi israeliani, che poi hanno cercato, e trovato, la morte sul selciato della Spianata. Israeliani che uccidono altri israeliani è un elemento di novità nel conflitto, non di poco conto. L’obiettivo degli attentatori era, probabilmente, innescare una deflagrazione che partisse da un luogo di risonanza per l’islam, il loro “martirio” è perfidamente riuscito. Scatenando l’emotività del mondo arabo e la reazione impulsiva del governo israeliano.

Come sempre dobbiamo chiederci qual’è il senso della scelta del muro contro muro portata avanti da Netanyahu in queste ore. E quanto i leaders palestinesi hanno strumentalizzato questo episodio. Le colpe, in una regione che è una polveriera, meritano di essere ripartite attentamente. Partendo dalla considerazione che terrorismo e occupazione sono gli anelli di una catena moralmente ingiustificabile.

Viaggio in Arabia con spettro Trumpexit

L’Air Force One decolla per il primo viaggio di Trump all’estero, che qualcuno vorrebbe già essere l’ultimo. La Casa Bianca è nella bufera per l’interferenza nell’indagine sulla collusione della Russia nella passata campagna elettorale. E’ l’ombra di uno scandalo che potrebbe trasformarsi in una futura Trumpexit: morbida con le dimissioni o forzata con la rimozione, tramite impeachment. Le turbolenze del Russiagate non si placheranno e accompagneranno, in parte condizionando, questo “pellegrinaggio” nel triangolo delle tre religioni monoteistiche. Prima tappa Arabia Saudita, poi la Terra Santa e la full immersion nel conflitto israelopalestinese. Un viaggio nella culla della fede con obiettivi che ovviamente poco hanno a che fare con la religione: sul tavolo affari e contratti per circa 200 miliardi di dollari. Nella valigia del “mercante” Trump un catalogo bellico con una vasta gamma di scintillanti armamenti, dalle novità del sistema di difesa missilistico alle più ingombranti fregate. La visita del presidente americano avviene in un momento particolarmente complesso per la penisola araba, con l’indebolimento dell’immagine della casata wahhabita dei Saud, custodi dei siti santi della Mecca e di Medina. E con un Trump “a testa bassa” all’assalto dei vertici dell’apparato di sicurezza americano, in un susseguirsi surreale di “gaffe”, “gole profonde”, smentite e rilancio di accuse, frutto tanto dell’incompetenza quanto dell’impulsività dell’incontrollabile personaggio. In Arabia, i signori delle tribù del deserto e dei pozzi di petrolio, tramandano con continuità l’oscurantismo, l’esclusione e separazione della donna, il controllo assoluto su costumi sociali e istruzione. Pregiudicano la libertà imponendo una dura privazione dei diritti umani: un tweet contro il Ministro di Giustizia è costato 8 anni di carcere a tre avvocati; il blogger Raif Badawi è stato condannato a 1000 frustate e 10 anni di prigione; il minorenne, Ali Mohammed Al-Nimr, reo di aver preso parte alle proteste di piazza della Primavera Araba, attende di essere decapitato. Il regime di Riyad inculca ancora una versione ideologica e intollerante dell’islam che di fatto alimenta il fanatismo e la sua emanazione terroristica. Il Pentagono considera vitale l’alleanza con l’unione arabo sunnita dei paesi del Golfo. Per mantenere il loro ruolo egemonico i Saud devono far fronte a due incombenze: le riforme economiche e la rivalità con l’Iran. La prima è dettata dall’esigenza di emanciparsi dal petrolio come fonte di crescita, mettere fine al petrostato modernizzando l’economia sia in termini di trasparenza che di investimenti privati. La contrapposizione tra khomeinisti e sauditi, sciiti e sunniti è destinata a durare, espandendosi in altri teatri geografici con il rischio finale di degenerare in uno scontro aperto. Le prime avvisaglie della deflagrazione sono le azioni militari nello Yemen dove le due potenze sono coinvolte su fronti contrapposti. L’Arabia Saudita è stata costretta ad accettare la crescente presenza iraniana, perdendo influenza in Iraq, Libano e Siria. L’asse strategico di Riyad con la Turchia di Erdogan è messo in discussione dall’avvicinamento del sultano allo zar di Russia, storicamente filo Ayatollah. Arretrando in Medioriente i sauditi hanno rivolto lo sguardo, e gli interessi, al nord Africa, materializzando intense sinergie con Egitto e Tunisia, prendendo posizione nel caos libico. Resta difficile il rapporto con Israele. Ad unire Netanyahu e i Saud il comune nemico iraniano e l’alleato Trump, a dividere ancora la questione palestinese. Il Trump d’Arabia, tra mille incognite, ha l’obiettivo di avviare il disgelo tra Israele e i vicini stati Arabi. Mr President vuole riportare alla “normalità” le relazioni con l’alleato saudita dopo l’intervallo obamiano, anche se tra Washington e Riyad le distanze restano profonde. Come spiegherà il chiomato presidente i suoi reiterati atteggiamenti islamofobici ad una casta che dipende interamente dall’appoggio del clero degli imam?