IL VASSALLO DI PUTIN

L’esito del voto in Ungheria rischia di condizionare le future risposte dell’Unione alla Russia. La riconferma di Viktor Orbán, alla quarta vittoria consecutiva nelle urne, è uno schiaffo a Bruxelles, calpestata dalle politiche, e dalla propaganda, del leader magiaro. Ma è anche, purtroppo, il pericoloso segnale del successo di Putin nel fare breccia nel cuore dell’Europa, nel momento più complesso delle relazioni. Nonostante, alla vigilia i sondaggi avessero previsto una corsa serrata così non è stato, e per il partito del primo ministro Fidesz è stata invece una comoda passeggiata. Cocente l’umiliazione per lo sfidante Peter Marki-Zay, moderato, espressione della larga e variegata coalizione di opposizione, che non è riuscito nemmeno ad imporsi nel suo distretto, dove era stato sindaco. Il clima elettorale è stato dominato dagli echi della vicina guerra in Ucraina. Orbán ha promesso di rimanere fuori dal conflitto, ad ogni costo. A concesso meno del minimo sindacale in materia di sanzioni a Mosca. Non ha rinnegato i legami con il Cremlino e non ha teso la mano della solidarietà all’Ucraina, tantomeno a Zelensky. Indicativo a riguardo il commento rilasciato a caldo: “Abbiamo conquistato il potere contro tutti… perfino contro il presidente ucraino Zelensky”.

L’uomo forte di Budapest (tra le pochissime città ad avergli voltato le spalle in questa tornata), è stato chiamato a quello che tutti hanno giustamente interpretato come un referendum sulla sua persona. E lui ha dato prova di aver plasmato una nazione e di non essere pronto a lasciare il potere agli avversari. Orbán è un personaggio scomodo, non solo perché autoritario e amico personale di Putin. Con cui ha siglato nell’arco degli anni un forte sodalizio, saldato da 12 incontri durante la passata campagna elettorale, se mai ci dovesse essere stato qualche dubbio sulla sua equidistanza nel conflitto ucraino. Infatti, è principalmente sul piano internazionale che la figura di Orbán crea oramai pesante imbarazzo. L’ostentato pacifismo di maniera in realtà nasconde altri interessi. In primis la dipendenza energetica dell’Ungheria da Mosca, che fornisce circa il 90% del gas e il 65% del petrolio. Nel caso di un eventuale taglio di forniture si stimano ricadute potenzialmente devastanti per l’intera economia ungherese. La sfacciata posizione di “neutralità” ha tuttavia un costo, l’isolamento. La prima crepa della rete diplomatica di Orbán è la diffusa freddezza mostrata da storici partner. L’invasione dell’Ucraina ha fatto cambiare approccio alla Polonia e ad altri “soci” del gruppo di Visegrád, patto di cui proprio Orbán è stato architetto e promotore. E che ora rischia di implodere malamente.

In conclusione. Il risultato elettorale è stata indubbiamente una grande dimostrazione di forza interna dell’ideologo della nuova destra europea, nazional-populista e religiosa, confermata dal controllo dei 2/3 del parlamento. Mentre, esternamente ha perso importanti pezzi. Quanto le distanze tra l’Occidente e l’Ungheria siano un reale problema già lo sapevamo.

IL MATRIX DI ZELENSKY

Nella guerra Ucraina si combatte parallelamente la battaglia all’ultimo sangue della comunicazione, tra gli eserciti della propaganda e dell’informazione.“Zelensky ha letteralmente stracciato l’avversario nei media. Ma nei fatti è impotente nel caso in cui l’ego smisurato dello zar spingesse sull’acceleratore”. A parlare è Andrea Fornai, psicologo cognitivo e docente di Master, ha collaborato con CMRE NATO e Unipi. Che si è prestato a rispondere alle nostre domande.
Quanto è pericoloso che la guerra veicoli un messaggio ingannevole?
Le fake news sono sempre degli oggetti pericolosi. E la verità è sempre labile in questi casi. L’invasione non ha scusanti. Sbaglia però chi non considera l’Ucraina un “avamposto” NATO, fuori dalla NATO. Il tema della neutralità è materia, non a caso, dei negoziati in corso. Poi c’è un aspetto “invisibile” che spesso viene sottaciuto, in questo conflitto sono schierati battaglioni di ingegneri informatici che, grazie alla rete, possono “spegnere” una regione di un paese per giorni, una centrale elettrica ed anche una centrifuga di una centrale in Iran. Anche loro, a loro modo, combattono.
Con l’invasione molti temevano che l’accesso al web dell’Ucraina sarebbe stato interrotto, invece il miliardario statunitense Elon Musk ha aperto il suo servizio internet satellitare al paese, cosa rappresenta questo episodio?
La modalità di “ingaggio” di Elon Musk da parte del vice ministro ucraino Mykhailo Fedorov è avvenuta tramite un tweet. E la risposta di Musk è stata recapitata sempre attraverso il social: “Starlink è adesso attivo per l’Ucraina!”. Allora, mi chiedo: il governo di Zelensky per rivolgersi al super miliardario statunitense ha bisogno di un tweet? Io direi che ci troviamo nel mezzo ad una operazione di marketing aziendale dalla ricaduta di visibilità mondiale. Aggiungo che da anni ormai i “boss” del mercato digitale americano siedono al tavolo con le forze armate per pianificare le strategie e le necessità tecnologiche del futuro. Starlink è un’idea geniale del nuovo Ford americano, e a questo punto è anche una formidabile arma testata, in mano al Pentagono.
In mezzo a tutta questa propaganda come realmente facciamo a capire chi vince sul campo?
Partiamo dalla realtà dei dati. La Russia ha schierato un numero inferiore a tre combattenti per ogni soldato ucraino, presunto. Teniamo conto che l’ultima volta gli USA attaccarono l’Iraq erano in nove contro uno. Parafrasando Nicolai Linin: i russi in Ucraina stanno addestrando i loro battaglioni di riservisti, dopo questa guerra la Russia avrà un esercito di reduci operativo e professionalmente preparato. Se ciò che dice Lilin è credibile è perché suona logico. Per capire quanto accade non ci si può davvero fidare completamente del megafono di una delle due parti, o tre se consideriamo l’Occidente. Personalmente, interpreto il piano della Russia come la volontà di assediare intenzionalmente l’Ucraina, in attesa di giocare successivamente le contromosse. Non è una guerra lampo. Altrimenti, Putin avrebbe sbagliato i conti, grossolanamente.
In queste ore ad impressionare è la resistenza di un popolo sotto attacco e la voce del suo leader, ma le due cose vanno veramente in parallelo? Zelensky è più cercato dal web o dagli assassini di Putin? Come spiegheresti il suo successo mediatico sull’avversario?
Senza Zelensky la resistenza non avrebbe i risultati che ha. Ma quale Zelensky? Il vero quarantaquattrenne attore della serie Servitore del Popolo o lo statista nazionalista e populista capace di coalizzare gli ucraini? Per me Zelensky è l’attore prestato alla presidenza ed oggi rappresenta la nuova frontiera dell’uso del web. Sicuramente lo zar Putin (nella migliore tradizione stalinista) ha i migliori sicari del mondo a sua disposizione. Ma dove li deve spedire? Il “matrix” della comunicazione ucraina non ha luogo e non ha tempo. Ecco, il successo ucraino sta tutto qui, nella incredibile capacità di Zelensky di interpretare il servitore (e aggiungerei martire) del popolo. La capacità di chi lo nasconde di farlo essere a Kiev e in nessun posto allo stesso tempo è superba.

LA PACE SECONDO BENNETT

Il viaggio a Mosca del premier israeliano Naftali Bennett per incontrare Vladimir Putin rappresenta il primo vero tentativo internazionale di una mediazione terza nel conflitto ucraino, dopo i tentativi di Londra, Berlino e Parigi. Che peccavano agli occhi di Mosca di sfacciata partigianeria pro Kiev. Bennett è un politico di destra, e non è certo una colomba. 
Cresciuto alla corte di Netanyahu e poi suo successore al vertice di un governo di larghe intese, ha come obiettivo interno quello di chiudere per sempre l’epoca del signore del Likud. Ufficiale dell’esercito e giovane rampante businessman. Ebreo osservante che per una volta, preso atto della gravità mondiale delle crisi, ha rinunciato a rispettare la regola di non lavorare durante lo Shabbat, ed è volato in Russia con un messaggio di pace. Investito di quel ruolo di capo negoziatore che sino ad oggi, fatta eccezione per Macron, nessuno ha provato realmente ad intestarsi.
Israele è, per certi versi, in una posizione ottimale per garantire credibilità alla trattativa tra lo zar russo e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. E non solo. Può considerarsi tra i pochi paesi ad aver mantenuto canali di comunicazione aperti sia con Mosca che con Kiev. Ma è anche casa di un milione di ebrei di origine russofona. Ampia e diversificata comunità (moldavi, bulgari, ucraini e russi) che esprime un partito nazionalista presente nella Knesset ed ago della bilancia dell’esecutivo di Bennet. Il quale ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti sia con la Russia, per la presenza nel vicino suolo siriano dei suoi soldati, che con Washington, con cui stringe un patto indissolubile. 
La pseudo “neutralità” di Bennett ha comunque prestato il fianco a critiche interne, tacciato di essere troppo prudente. Posizione, tuttavia, risultata determinante nel sottile spiraglio del dialogo. “Un obbligo morale”, dove a vario titolo entrano le problematiche di sicurezza degli ebrei ucraini e russi. I primi sotto le bombe e i secondi stretti in un regime totalitario.
Merita attenzione, per capire la strategia diplomatica messa in campo da Bennett, la composizione della delegazione presentatasi al cospetto dello zar. Il premier ha scelto di farsi accompagnare da Zeev Elkin a cui spettava il ruolo di traduttore “ufficiale”, ma l’attuale ministro dell’Edilizia a ben vedere era caricato di un secondo mandato, essendo nato a Kharkiv in Ucraina, dove un ramo della sua famiglia vive ancora. Mentre, Shimrit Meir consigliera politica del premier, rappresentava indirettamente le “istanze” della Casa Bianca. Infine, Eyal Hulata, l’ex agente del Mossad e consulente alla sicurezza nazionale. Scelto ovviamente per valutare con fredda lucidità gli effetti negativi della guerra su Israele e capire le reali intenzioni di Putin. La tattica dell’erede di Netanyahu è molto rischiosa, la possibilità di inimicarsi entrambe le parti è altamente probabile. I vantaggi di un suo successo però sarebbero altrettanto straordinari, sia in patria che fuori.

IL MEDIORIENTE E LA CRISI UCRAINA

L’escalation drammatica della guerra in Ucraina ha accelerato il posizionamento della diplomazia internazionale, ridefinendo alleanze e schemi, dentro e fuori i confini dell’Europa. Prendiamo ad esempio il caso del Medioriente, una regione da sempre sollecitata dalla geopolitica. E dove i governi sono chiamati a fare una scelta di campo che non prevede neutralità, tantomeno ambivalenze in stile cerchiobottismo. La domanda che in queste ore ha investito le cancellerie della parte meridionale del Mediterraneo è ovviamente con chi schierarsi, stare con o contro Putin? La Siria, per bocca del dittatore Assad appoggia totalmente il suo protettore nella campagna offensiva in Ucraina, notizia che ovviamente ci aspettavamo. L’interdipendenza di Damasco da Mosca è talmente strutturata da non poter essere messa minimamente in discussione.
A tentennare inizialmente è stato, invece, Israele, quasi colto in contropiede dagli eventi. Nonostante, a Kiev sia presente una delle comunità ebraiche più popolose ed antiche. A Gerusalemme, a pesare durante l’attacco è stato senza ombra di dubbio il legame personale di Putin con molti politici israeliani, alcuni di origine russofona, a partire proprio dal ministro delle Finanze Avigdor Lieberman (caparbio, sino alla scorsa settimana, nel profetizzare che non sarebbe accaduto nulla …). Altro dilemma da dirimere era la consapevolezza che una dura condanna avrebbe potuto creare frizioni sul fronte siriano, dove è ancora presente l’armata di Mosca. E con cui vige un patto di coordinamento sulle attività di sicurezza. Alla fine il governo di Naftali Bennett, pesati i costi, ha optato per la piena condanna. Pubblicamente pronunciata dal ministro degli Esteri Yair Lapid: “L’attacco russo all’Ucraina è una grave violazione dell’ordine internazionale”. Messaggio chiaro ed inequivocabile dell’allineamento a Washington. Seguito a poca distanza da quello della Turchia. Erdogan ha preso nettamente le distanze dall’amico-nemico al Cremlino. La chiusura del Bosforo alle navi da guerra di Putin, è un segnale di aperta ostilità. Anche in questo caso sul tavolo strategie militari e commerciali da misurare con accuratezza ed attenzione. A far pesare la bilancia dal lato di Putin, oltre alla larga sintonia, erano il programma di difesa missilistico, quello per le centrali nucleari, il gasdotto, infrastrutture e molto altro ancora. A favore dell’Ucraina troviamo gli accordi con Kiev per la vendita di materiale militare, dai droni Bayraktar all’installazione di fabbriche turche in suolo ucraino. A cui vanno aggiunti i benefici garantiti da Bruxelles e la partecipazione alla NATO. Nel caso di Erdogan non è dato sapere quanto abbia inciso l’incidente della nave turca, che al largo di Odessa è stata colpita da un ordigno. Comunque, il sultano questa volta, questa partita, ha deciso di giocarla con la maglia dell’Occidente.
Infine, Teheran. L’Iran può rivendicare di essere stato il primo stato al mondo a dissociarsi dalle critiche a Putin, e ad aver accusato del conflitto in Ucraina esplicitamente la NATO. I nemici dell’Occidente sono i soliti noti.

L’OROLOGIO DI PAPA’ E ALTRI RICORDI

Devo con tutta sincerità fare due ringraziamenti agli editori di Giuntina. Il primo è stato farmi scoprire Assaf Gavron (insieme a Keret ed Eshkol Nevo diventati tra i miei autori preferiti). Il secondo, leggere “L’orologio di papà e altri ricordi” di Daniel Vogelmann. Scrittore, traduttore e fondatore della nota casa editrice fiorentina.
Il libro di Vogelmann è una raccolta di racconti brevi. Memorie. Ricordi. Intarsi. Riflessioni. Che finiscono per coinvolgere “compassionevolmente” anche il lettore più distratto. Molto del merito è la scrittura dallo stile pulito, lirico. In un volume che condensa umorismo e morte. Scorrendo le pagine troverete i tratti della comicità raffinata di Woody Allen e l’elegia assordante di Elie Wiesel, in una miscela poetica di toscanità ed ebraismo, agnosticismo e l’ineludibile momento del bilancio. Ovvero, quando si cerca sia interiormente che esternamente di “ordinare” (in ebraico è seder) le cose e dare alla storia la giusta sequenza. Predisponendo il lascito testamentario di una “poesia” al posto di un orologio, rubato. Recitando una preghiera, in forma di richiesta ironica, rivolta al lettore “a sostituire a tempo debito” il punto interrogativo a Daniel Vogelmann (1948 – ?): “visto che io non lo potrò fare”. Dimostrando affetto, la premura nei confronti delle nipoti, i consigli post pandemia e infine la doverosa dedica ad un amico sincero.
“L’orologio di papà e altri ricordi” è un testo che scende in profondità, animandosi di quella dolce-tristezza che si prova nello sfogliare un album di fotografie del passato. Ritratti di famiglia, amici e parenti scomparsi. Richiami toccanti di vita che l’autore non vuole vadano perduti, e per questo fissati in una tela astratta colorata di amarezze, qualche pentimento e forse un po’ di nostalgia: “Quanti bersagli abbiamo mancato nella nostra vita! Ciò detto, non è che voglia, come sempre, discolparmi, ma secondo me la vera colpa va data all’arco che ci è stato fornito”.
Scoprirete il rapporto tormentato con la religione e allo stesso tempo rispettoso, piacevolmente delicato con i ministri o dottori del culto: “Ho chiesto al mio amico rabbino se io, che sono piuttosto agnostico, potevo dire se Dio vuole”. Per poi ribaltare le conclusioni con la domanda: “ma Dio lo vuole?”. Tiferete, non potrete farne a meno, schierandovi dalla parte della ragione (qualsiasi sia essa stata) di Schulim Vogelmann (padre di Daniel), che nel mezzo ad una discussione condominiale risponde ad un spocchioso e provocatorio “Io sono il generale Pinchetti!”, con un definitivo urlo “E io sono stato ad Auschwitz!”. Dove, nemmeno Dio è mai entrato.

Enrico Catassi

CAOS LIBIA, UN POZZO SENZA FINE

Dietro alla battaglia che si sta scatenando nelle strade di Tripoli c’è una questione tutta interna alle lotte di potere dei signori della guerra di Misurata. Nel paese africano, dalle forti turbolenze politiche e militari, è diventato impossibile trovare una via pacifica di conciliazione tra le fazioni, impensabile, al momento, tentare l’unificazione di uno stato frantumato dal tribalismo e dai giochi della geopolitica internazionale.
A scatenare il recente corto circuito, che bolliva in pentola da mesi, è stata la nomina del parlamento di Tobruk di Fathi Bashagha a primo ministro. Messaggio chiaro per l’attuale premier Abdul Hamid Dbeibah (foto), che si è rifiutato di farsi da parte, non riconoscendo la decisione e affermando che non è disposto a cedere il posto fino alle elezioni. Dopo che quelle previste per lo scorso 24 Dicembre dal piano di pace delle Nazioni Unite sono state sospese per motivi di sicurezza. Rimandate alla prossima estate, molto più probabilmente al 2023 o a data da destinarsi.
Il termine del mandato dell’incarico a Dbeibah avrebbe dovuto concludersi proprio in concomitanza con il voto. Su di lui, personaggio discusso, ripongono, ancora, le speranze sia l’ONU che Francia ed Italia. Mentre, la fiducia di Erdogan per l’alleato potrebbe essere venuta meno. Scaricato forse per Bashagha, ex ufficiale di aviazione, che ha dimostrato di essere un camaleonte di trasformismo politico. Considerato espressione della fratellanza musulmana e quindi facente riferimento all’area d’influenza di Ankara, gode di ottime entrature a Washington e a Parigi.
Nel 2019 ha partecipato attivamente a frenare la campagna bellica del generale Haftar. Nel corso del 2021 Bashagha ha allargato la sfera diplomatica, stringendo relazioni sia con l’Egitto, che la Russia e gli Emirati Arabi. Arrivando a costruire un patto di ferro con lo stesso nemico Haftar, il quale ha sostenuto la sua elezione a capo del governo. E sembrerebbe, almeno per ora, puntare su Bashagha come candidato alle future presidenziali.
La partita dell’ex ministro degli interni ha dei buchi neri e presenta rischi oggettivi. Il primo è che l’appoggio di Erdogan non è così scontato, dipende ovviamente da come l’uomo di Misurata si saprà muovere in un così intrigato scacchiere. Allo stesso tempo, il sultano non può permettersi che il suo protetto diventi troppo sensibile alle richieste del Cairo. Nel momento in cui la Turchia appare intenzionata ad un’apertura verso gli sceicchi del Golfo, ad oggi apertamente ostili al neo imperialismo bizantino.
Per una trattativa dove la Libia diventa oggetto di scambio. Se al momento l’abilità di Bashagha nel tenere il piede in due staffe può risultare quindi determinante per essere accreditato, non è detto che l’equilibrismo politico non diventi a sua volta fonte di problemi, e un’arma a doppio taglio. L’ascesa di Bashagha, comunque, complica non poco i disegni di Roma nel Sahel. In un tavolo dove il mazziere prende le carte da Erdogan e Putin.

LA DIPLOMAZIA E LA LEGGE DEL SULTANO

In Turchia nel 2023 si svolgeranno le elezioni generali. Il grande banco di prova di Recep Tayyip Erdoğan. Nel Bosforo rispetto alle passate elezioni il clima politico che aleggia è decisamente cambiato. 
Il referendum del 2017 e la vittoria nelle urne l’anno seguente sono oramai solo lontani ricordi dei successi incamerati da Erdoğan, in una lunga carriera politica. Il rischio che venga sconfitto nel voto è una eventualità che prende campo, tanto da convincere lo stesso premier turco ad esortare con toni allarmistici i membri del suo partito Giustizia e Sviluppo (AKP), invitati recentemente a: “lavorare duramente per essere rieletti”. 
Il ticket con gli alleati di governo del Partito del Movimento Nazionalista (MHP) è, al momento, l’unica certezza. Negli ultimi anni la trasformazione della Turchia è andata avanti imboccando una deriva autocratica ma non riscuotendo un ritorno in termine di consensi. Da un lato Erdoğan ha forzato la mano attraverso il cambio di sistema della repubblica, da parlamentare a presidenziale, e dall’altro ha introdotto politiche di riduzione dei diritti. In un contesto dove la pandemia ha solo accentuato le crepe di un modello economico sotto evidente stress. 
Ankara, oggi, affronta la peggiore crisi economica dal 2002. L’inflazione è balzata al 36,1%. La lira turca si è deprezzata. Il presidente islamista resta inamovibile nel voler tagliare i tassi d’interesse, per abbassare i prezzi di consumo, che invece salgono. Scelta economica decisamente azzardata in un quadro internazionale come quello attuale. Rimane innegabile che l’ex sindaco di Istanbul ha un problema di fondo sia con i curdi che con la libertà di stampa. 
Nel tentativo di silenziare l’opposizione non risparmia nessuna voce. Arrivando persino a situazioni che scadono nel tragicomico, come l’arresto della giornalista Sedef Kabaş. Colpevole di aver twittato ai numerosi follower il seguente proverbio: “Quando il bue giunge a palazzo, non diventa un re. Ma il palazzo un fienile”. Frase che Erdoğan ha ritenuto talmente lesiva da non poter rimanere “impunita”. Per la Kabaş, già in passato incriminata per aver espresso dissenso e critica, potrebbe presto arrivare una condanna.
L’offensiva lanciata da Erdoğan per imbavagliare l’informazione è identica a quella messa in atto sistematicamente da Putin, due leader che nel loro cammino hanno scoperto di avere molti interessi in comune. Lo storico riavvicinamento tra Mosca e Ankara, che pone tuttavia un problema oggettivo alla NATO, è allo stesso modo fragile. Il sodalizio ha retto su scenari internazionali come la Siria e la Libia, dove sono schierati su fronti opposti. I rapporti tuttavia si potrebbero complicare a causa della crisi tra Russia ed Ucraina nel Donbass. Nel caso il conflitto dovesse acutizzarsi il presidente turco sarebbe costretto a prendere la decisione su quale carro stare: quello di Mosca o quello Kiev. Nel mezzo questa volta difficilmente c’è spazio per barcamenarsi. Erdoğan ci proverà con la mediazione diplomatica, ma non è detto che funzioni.

DALLA BATTAGLIA DI CAPITOL HILL ALLA CAMPAGNA ANTI-TRUMP

“Prego che non avremo mai più una giornata come quella di un anno fa”, ha detto il presidente Biden ricordando il violento assalto dei sostenitori di Trump al Campidoglio, il 6 Gennaio 2021. Le immagini di Washington vandalizzata nel cuore delle istituzioni democratiche sconvolse il mondo. Un attentato premeditato per impedire di certificare la sconfitta elettorale di Trump. A cui Biden, per la prima volta, ha riversato una serie di pesanti critiche: “Questa non è una terra di re, dittatori o autocrati”. Incolpando senza mezzi termini l’ex presidente di propagandare falsità, di aver insultato la Costituzione e aver “messo i propri interessi sopra quelli del paese”.
Trump è stato il primo presidente americano ad aver ricevuto due impeachment, ma nessuna condanna. Quando, qualche settimana dopo i tristi avvenimenti, il tycoon scelse l’esilio dorato nella residenza di Mar-a-Lago l’attenzione pubblica e mediatica si abbassarono notevolmente. Da allora, passato lo shock iniziale e l’ampia condanna morale, tra le fila dei repubblicani è andato diffondendosi un atteggiamento di tiepida responsabilità del loro leader nell’aizzare la rivolta. Con il passare dei mesi, e parallelamente al declino nei consensi dell’attuale amministrazione, tale messaggio ha cominciato a prendere consistenza. Almeno stando ad un recente sondaggio pubblicato dal giornale britannico the Guardian. Che dimostra come nell’elettorato di destra sia diffuso considerare il drammatico evento di Capitol Hill al pari di una “protesta” (80%) e ritenere coloro che furono di fatto dei golpisti come semplici “manifestanti” (62%). Una parte degli intervistati, stravolgendo completamente la realtà, incolpa apertamente il partito democratico (30%) e la polizia (23%). Mentre, un 20% ritiene responsabili i movimenti di sinistra, del tutto estranei ai fatti. Inoltre, lascia attoniti che il 71% dei repubblicani presi a campione continui a considerare del tutto illegittima la vittoria di Joe Biden. Non sorprende quindi che la stragrande maggioranza dei conservatori (75%) ritenga che non ci sia nulla da “imparare” e che gli Stati Uniti dovrebbero mettere una pietra sopra a questa storia. Approccio che viene riversato anche sull’intenzione di voto. Un terzo dei repubblicani che ha partecipato ai sondaggi afferma di essere propenso a votare per un candidato che si rifiuta di denunciare l’insurrezione. Che, ricordiamolo, ha portato all’arresto di oltre 700 sospettati, 50 dei quali già giudicati colpevoli con pene minime. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone affiliate a gruppi di estrema destra, una potenziale minaccia interna da non sottovalutare. Ad essere politicamente destabilizzante, tuttavia, è anche la crescente deriva antidemocratica del partito di Abraham Lincoln, l’ondata di restrizioni elettorali proposte e approvate nel 2021 in 19 stati è il chiaro segnale di una democrazia in sofferenza. In una nazione, come ha detto Biden, “che è nel mezzo di una battaglia per salvare la propria anima e decidere cosa essere domani”.

ADDIO ALLA COSCIENZA DELL’AFRICA

Si è spento all’età di 90 anni l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu. La sua fama internazionale è legata al ruolo che ha rivestito nel movimento per porre fine al brutale sistema di apartheid del Sudafrica. Insieme a Nelson Mandela, con il quale ebbe una forte amicizia, Tutu è stato una delle figure di spicco nella battaglia per abbattere il sistema razzista e fascista dei bianchi, in vigore dal 1948. Ha sempre ripudiato ogni forma di violenza professando uguaglianza e tolleranza. Inconfondibile il sorriso e la piccola statura (“5 piedi e 4 pollici”).

Nato nella tranquilla cittadina agricola di Klerksdorp, nel nord del paese a circa 200 km da Johannesburg. Figlio di un preside e di una domestica, ha completato gli studi di teologia al King’s College di Londra. Sacerdote dal 1960 e vescovo dal 1976. Nel 1986 è il primo arcivescovo nero di Città del Capo. Nel 1994 con Mandela divenuto presidente Tutu è chiamato a supervisionare la Commissione “per la verità e la riconciliazione”, che esamina i crimini commessi durante l’apartheid, da entrambi le parti. Compito difficile che tocca corde sensibili. Se il nomignolo di Mandela era Madiba quello affettuosamente usato per Tutu dalla gente sudafricana è The Arch (L’Arco). Nonostante la malattia diagnosticata ai primi anni ’90 non smette di adoperarsi per i diritti umani, contro la povertà. Insignito del premio Nobel per la pace nel 1984. Nel 1996 si batte perchè la nuova costituzione non includesse normative discriminanti sull’orientamento sessuale. Dieci anni dopo il Sudafrica è il sesto stato al mondo a riconoscere legalmente il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nel 2013 dichiara apertamente che avrebbe “preferito andare all’Inferno piuttosto che in un Paradiso omofobo”. Le sue parole alzano, ovviamente, letteralmente un vespaio. Due anni dopo con un atto di sfida alle regole del sacerdozio ordinario darà la benedizione al matrimonio della figlia Mpho Tutu con un’altra donna. Non ha risparmiato critiche sprezzanti al partito di governo dell’African National Congress, denunciando la deriva di corruzione raggiunto dal sistema politico. L’apice dello scontro con i vertici dell’ANC arriva quando inizialmente non viene invitato ai funerali di Mandela. Nel 2015 lancia una campagna per l’ambiente, esortando i leader mondiali ad utilizzare le energie rinnovabili. Descriverà i cambiamenti climatici come “una delle più grandi sfide morali del nostro tempo”. Sostenitore della morte assistita e della nascita di un stato palestinese. Mandela di lui una volta disse: “A volte stridente, spesso tenero, mai spaventato e raramente senza umorismo, la voce di Desmond Tutu sarà sempre la voce dei senza voce”. Tra i tanti messaggi di cordoglio pubblicati in queste ore oltre a papa Francesco spiccano Barack Obama, che lo definisce: “Una bussola morale”. L’arcivescovo di Canterbury Justin Welby in sua memoria ha scritto: “profeta e sacerdote, uomo di parole e di azione”. E il Dalai Lama che riconosce in lui: “un vero filantropo”. Per tanti africani ha rappresentato la coscienza di quel continente.

LA SCOMMESSA DEL VOTO LIBICO

In Libia c’è attesa per il 24 Dicembre 2021, quando dovrebbe tenersi il primo turno delle elezioni presidenziali, il condizionale è d’obbligo. Nel paese attraversato da una guerra civile decennale le incognite sono tante, e lo svolgimento è ritenuto da gran parte degli analisti ancora a serio rischio. Anche se sulla carta tutti si sono detti favorevoli, almeno è quanto emerso alla recente conferenza di Parigi dove è stato trovato un accordo di massima tra le diverse fazioni in lotta. Resta alta, tuttavia, la possibilità che il tavolo salti in ogni momento. Il limite alla presentazione delle candidature è fissato al prossimo 22 Novembre. Intanto, sono ufficiali i nomi di Saif al Islam al Gheddafi, secondogenito dell’ex dittatore, e Khalifa Haftar, il potente generale e signore della Cirenaica. Personaggi scomodi, e molto ingombranti. Il primo considerato il naturale successore ed erede del padre, su di lui però pende un doppio mandato di cattura per crimini contro l’umanità, quello della Corte penale internazionale e quello della Procura militare libica. Divisiva è anche la candidatura di Haftar, spalleggiato dai vicini egiziani, e inadatto a garantire la riconciliazione nazionale. Haftar e Gheddafi in comune, oltre alle pendenze giuridiche, hanno ottime entrature a Mosca. Nella mischia per la poltrona da rais è sceso anche Fathi Bashagha, ministro dell’Interno e uomo di Misurata. Il cui vero avversario pare essere il premier Mohammed Dbeibeh, che gode della popolarità delle politiche di sostegno alle famiglie attuate in questi mesi, e dato per favorito nella corsa presidenziale. Sia Dbeibeh che Bashagha sono sponsorizzati da Ankara. In Libia, Putin ed Erdogan, giocano ciascuno una propria partita anche nelle urne, in campi contrapposti, in difesa dei propri alleati e, ovviamente, interessi. Lo zar e il sultano si sono tenuti lontani dal summit dell’ONU ospitato da Macron. Assenze giustificate tanto dalla necessità di delegittimare l’imposizione dall’alto di un piano Parigi-Roma-Berlino – e benedetto da Washington, che al vertice in rappresentanza di Biden ha fatto presenziare la vicepresidente Kamala Harris -, quanto di trovarsi obbligati, difronte alla Comunità internazionale, a prendere un impegno sul ritiro di mercenari, combattenti e forze straniere dal territorio libico. Opzione che al momento entrambi non hanno nessuna intenzione di avallare. Con Putin che nega, spudoratamente, di avere suoi soldati dislocati nel Sahel al fianco dell’esercito di Haftar, e con Erdogan che ribadisce di essere intervenuto su preciso invito del precedente governo di Tripoli. Altra cosa è Mario Draghi. Il cui disegno per la futura stabilità del paese è funzionale alla questione dei diritti umani. La ricetta italiana per riaggregare uno stato frantumato prevede: ripresa economica, distribuzione delle ricchezze, legalità e porre fine all’insostenibile condizione dei migranti. Geometrie geopolitiche alla prova del voto, della sete di potere e delle rivalità tribali, che difficilmente si placheranno con lo spoglio delle schede.

Fauda e Balagan. Un blog di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi