Manca oramai poco meno di un mese al voto in Israele, che anticipa qualche giorno le elezioni di midterm statunitensi. Il 1 novembre 2022 sarà la quinta volta che gli israeliani tornano alle urne in meno di 4 anni. Nei recenti sondaggi i due principali blocchi, quello pro e quello anti-Netanyahu, non ottengono la maggioranza qualificata 61 seggi. La coalizione di destra che sostiene il falco del Likud sarebbe comunque leggermente sopra gli avversari.
In generale i sondaggi accreditano il partito di Netanyahu primo nel Paese, con almeno 8 seggi di vantaggio sulla forza Yesh Atid, guidata dallo sfidante e attuale premier ad interim Yair Lapid. Staccati di molte lunghezze le altre compagini che compongono il panorama politico della futura Knesset. Dove entreranno a rinforzare le file dell’uno o dell’altro schieramento: ortodossi religiosi, nazionalisti, centristi, ex-likud ed ex generali, laburisti, sinistra sionista e movimenti arabi. Oh almeno ci sperano.
Gli israeliani, secondo quanto si evince dal canonico sondaggio della vigilia del capodanno ebraico (che ha segnato l’inizio del 5783), si aspettano un anno migliore di quello passato. Con un cauto ottimismo l’opinione pubblica crede che le cose andranno meglio o al massimo non peggioreranno (59% degli intervistati). Il 21% invece è convinto del contrario. Mentre, il 20% attende di vedere i prossimi sviluppi, a partire proprio dall’esito delle incombenti elezioni politiche.
Il prefigurare della perdurante instabilità è avvertita da Ronen Bar, direttore dello Shin Bet (agenzia dell’intelligence per gli affari interni), come un problema preoccupante per le dirette conseguenze sulla sicurezza del Paese. L’immagine di uno stato che dal 2019 non riesce a trovare una quadra, e allo stesso tempo vede crescere esponenzialmente le divisioni, è sintomatica di un malessere esistente, diffuso e condiviso con altri stati occidentali.
Nel caso israeliano tuttavia le ramificazioni della crisi politica potrebbero comportare ricadute a breve termine sul piano regionale, Hezbollah e Iran sono un assillante imprevedibile pericolo alla porta. Ma non l’unico, da mesi i funzionari della sicurezza israeliana infatti continuano a porre la questione dell’implosione in atto nella Cisgiordania. La Muqata di Ramallah replica accusando a sua volta i continui raid militari dell’IDF come elemento delegittimante del proprio ruolo. Sul piano internazionale l’amministrazione Biden non nasconde i propri timori per il rapido deterioramento del contesto.
Palestinesi ed israeliani non hanno alternative che trovare un punto comune d’incontro che vada oltre lo status quo attuale e le pretese ingiustificabili. Il crollo dell’Autorità palestinese può avvenire da un momento all’altro. In queste settimane il premier, in scadenza, Lapid ha rilanciato sul piano diplomatico la soluzione dei due stati, ma anche in questo caso il consenso popolare all’idea è molto basso. A Gerusalemme vale come del resto a Roma il motto omnia cum pretio. E non tutti, di qua e di là dal muro sono disposti a pagarlo per raggiungere la pace.
MELA MARCIA NEL CESTO DI BIBI
«L’Ortodossia israeliana sta scadendo nella depravazione». A porre la questione, al centro del dibattito della campagna elettorale in corso, non è la solita voce laica degli intellettuali di sinistra, bensì il rabbino Eric H. Yoffie, già presidente dell’Unione per l’ebraismo riformato (URJ) del Nord America. Il quale, in una lunga lettera pubblicata sul quotidiano Haaretz, denuncia l’ascesa del fanatismo della destra kahanista e il pericolo di un loro successo nelle urne. Yoffie si scaglia apertamente contro un approccio politico involutivo e abominevole, che si riconosce in uno dei personaggi più controversi dell’ebraismo contemporaneo: Meir Kahane, rabbino e politico di origine newyorchese. Fomentatore di teorie razziste. Pensatore impregnato da una visione tanto apocalittica quanto vetero fascista, che arrivava a giustificare teologicamente la violenza contro i palestinesi, la supremazia ebraica e l’annessione territoriale della Palestina. Kahane, assassinato brutalmente in una strada di New York, agli inizi degli anni ’90, da un gruppo terroristico jihadista riconducibile alla nascente al-Qaida, era motivato da un profondo spirito anti-comunista e, allo stesso tempo, anti-democratico. Sostenitore della guerra in Vietnam, che considerava una crociata decisiva per frenare l’espansione globale del marxismo: «Il comunismo è per l’anima ebraica ciò che il nazismo era per il corpo». Riteneva, che la vittoria dei marines sul fronte asiatico avrebbe assicurato maggiore sicurezza ad Israele e protetto gli ebrei dai pericoli dell’antisemitismo sovietico. A partire dagli anni ’70 è in Israele, dove darà vita all’esperienza del partito Kach, una minuscola e marginale formazione definitivamente bandita nel 1994. L’eredità tossica lasciata da Kahane, dopo la sua scomparsa, ha tuttavia continuato ad aleggiare come uno spettro nel panorama israeliano, lievitando, nemmeno troppo sotto traccia, tra i settlers, che risiedono all’interno della Linea Verde del ’67. La mostruosa faccia del kahanismo è svelata al mondo il 25 febbraio 1994, quando Baruch Goldstein, devoto seguace alle tesi del maestro, compie nella moschea della Tomba dei Patriarchi ad Hebron il massacro di 29 palestinesi. Tale tragico episodio produsse una reazione critica in particolar modo nelle comunità ebraiche americane, che maturano allora allarmistica apprensione nei confronti della svolta del radicalismo violento, quale forma di redenzione spirituale. Riconoscendo che a causa della troppa tolleranza tale estremismo ideologico aveva trovato uno spazio vuoto dove affrancarsi: «Non fa differenza quanto sia “irrisorio” il numero dei seguaci di Kahane, se le loro dottrine si irradiano. E lo fanno!». Ha scritto il rabbino Hillel Goldberg. La mela marcia è finita dentro al cesto, e se non estirpata l’inquietante prospettiva è che domani questo lato oscuro diventi il riferimento culturale (e politico) sia dell’ala nazional-religiosa sionista che di quella degli ortodossi haredim. Le prossime elezioni politiche del 1 Novembre (le quinte in tre anni e mezzo) stanno riportando in auge questo disegno politico (e culturale). Lavorano alla sua realizzazione due noti politici israeliani, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ciascuno con un proprio partito, Otzama Yehudit (“Potere Ebraico”) e Tkuma (“Rinascita”), ma che fusi insieme (come hanno annunciato in queste ore) nel Religious Zionist Party, sono accreditati nei sondaggi come terza compagine nella prossima Knesset. Il loro elettorato di base è quello della sfera del sionismo (o post-sionismo) religioso, a cui fa riferimento anche il partito nazionalista Yamina, recentemente passato di mano dall’ex premier Naftali Bennett ad Ayelet Shaked, e crollato nei sondaggi (rischiando di essere escluso dal futuro parlamento). Garante dell’avvento dei neo kahanisti non poteva non essere che Benjamin Netanyahu. Quella comunità è il suo alleato naturale, sono veri e propri satelliti che ruotano intorno alla sua orbita e compongono la sua galassia. Sempre disponibile ad accoglierli a braccia aperte perché è sicuro di poterli gestire. Senza poi peritarsi a sbranarli nella forsennata ricerca di raggranellare consensi dell’ultimo minuto. Ciò non toglie che per Bibi siano un’interlocutore privilegiato. Nella sua ideale architettura di potere sono la seconda gamba di un modello politico con al vertice il Likud, e a chiudere il triangolo i partiti tradizionali religiosi: i “custodi sefarditi” di Shas e quelli ashkenazi di Giudaismo Unito nella Torah (UTJ). Nel loro insieme sono il blocco Netanyahu, che sfiora la maggioranza in Israele. In un paese che ha virato decisamente a destra, e che se non fosse per “amicizie profondamente lacerate” (su cui ha influito non poco il carattere di re Bibi) lo vedrebbe al governo, incontrastato. Chi invece non avrebbe gradito di essere minimamente accostato a Kahane era lo storico esponente del Likud Yitzhak Shamir, ogni qual volta il leader di Kach saliva sul podio della Knesset lui lasciava l’aula. Ma Netanyahu non è Shamir. Il più longevo primo ministro di Israele ha collaudato un suo personale tavolo di scambio. Salda la lealtà dei partiti religiosi elargendo poltrone. Mantiene in spalla il fardello di Ben-Gvir e Smotrich, per necessità. Gli adepti kahanisti fino ad oggi non lo hanno preoccupato più di tanto. Le geometrie in campo però sono mutevoli e nel ricatto delle richieste il piatto in gioco potrebbe diventare insostenibile.
L’ESTATE DELL’ANTI-BIBI
Qualche ritardo “tecnico” nella procedura di voto e alla fine la Knesset ha approvato il suo scioglimento. Indette le prossime elezioni per il 1 novembre 2022, le quinte in meno di quattro anni. Naftali Bennett, dopo un anno vissuto intensamente da primo ministro, ha passato – in virtù dell’accordo di rotazione – il testimone al ministro degli esteri Yair Lapid. Cinquantottenne, già volto noto della televisione, sottile politico capace di realizzare e tenere in piedi per dodici mesi la maggioranza più impensabile della storia di Israele: destra nazionalista, conservatori, liberali, laburisti, sinistra sionista (ormai effimera) e islamici. In termini pratici un’alleanza che dai pro-coloni di Yamina arrivava fino all’appoggio del partito arabo filo Hamas di Ra’am. Passando tra russofoni, ex generali e associazioni Lgbt+ di casa nel Meretz.
Progetto o miracolo politico, destinato (sospettiamo che lo immaginasse anche lui) prima o poi a inevitabile implosione. Tuttavia, una realtà alternativa alla monarchia di Bibi Netanyahu. Questo, il merito riconosciuto in modo unanime a Lapid. Adesso, più che mai, scoperto anche come talento profetico del campo di centro-sinistra, mondo di per sé nostalgico di una guida carismatica in grado di traghettare il paese fuori dall’era Netanyahu. A fare breccia nei cuori degli elettori, orfani di Rabin, non è stato tanto il suo manifesto ideologico (assai vago) quanto la determinazione nel rendere possibile il sogno del cambiamento. Lapid ha dimostrato di saper rivaleggiare con l’avversario Netanyahu sul terreno a lui più consono: maneggiare, saldare e bilanciare gli assetti del panorama politico israeliano. E così il “piccolo principe” ha scalfito l’invulnerabilità del re, appropriandosi, momentaneamente, del trono di Israele.
Anni fa su Hareetz il giornalista Asher Schechter scrisse di lui: “Il suo successo dice molto su Israele, più che su Lapid stesso. Candidato con zero esperienza politica e nessun tema da approfondire, il suo unico punto di forza è la popolarità, potrebbe diventare uno dei più grandi attori politici da un giorno all’altro. Lapid è l’ultima personificazione di una sfera politica ossessionata dalla celebrità, dove i partiti cercano di reclutare giornalisti, atleti e altri personaggi pubblici con il loro seguito di riflettori”. Ancora più tagliente fu Martin Sherman in un articolo apparso nel Jerusalem Post: “Yair Lapid è l’uomo più pericoloso della politica israeliana di oggi, uno sciocco di bell’aspetto, carismatico, troppo sicuro di sé, un ignorante affabile privo di dignità intellettuale e qualsiasi principio morale, ma con il dono di una lingua d’argento e l’inconfondibile – e in gran parte non mascherata – inclinazione per la demagogia e la dittatura”. Allora, furono numerose e imbarazzanti le gaffe che lo esposero al bersaglio della critica, e della facile ironia. La sua immagine però non si indebolì anzi … fu l’inizio dell’ascesa.
Ufficialmente entra in politica nel 2012, dando vita all’esperienza del movimento Yesh Atid (C’è Futuro). Nel debutto alle elezioni legislative del 2013 ottiene 19 seggi. Diventando il secondo partito della Knesset. Una breve esperienza nel governo Netanyahu e tanta opposizione. Di cui diventa capo di fatto nel 2020. Nell’ultima tornata elettorale, a marzo del 2021, si attesta al 13,9% dei voti, che gli garantiscono 17 parlamentari. Il resto è storia dei giorni nostri.
Per un decennio Lapid ha, tranne la parentesi di coabitazione nella lista elettorale Blu e Bianco con Gantz, gestito in modo personalistico Yesh Atid. L’unica volta che si è palesata la prospettiva di primarie interne nessuno ha osato sfidarlo apertamente. Ideologicamente si definisce di centro, equamente distante sia dalla sinistra che dalla destra. A meno che per destra non si intenda Netanyahu, nel qual caso incarna perfettamente il ruolo di eroe del centro-sinistra.
Lui, figlio dell’élite liberal-sionista di Tel Aviv, affermatosi nel solco delle orme lasciate dal padre “Tommy”, autorevole giornalista ed esponente di spicco del partito Shinui. Rigoroso intellettuale del pensiero laico, dal quale il figlio si è discostato per approdare ad una linea più morbida, che “integra valori dell’ebraismo e della democrazia”.
Come capo della diplomazia israeliana ha ospitato lo storico vertice con Marocco, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto. Stretta la collaborazione, e l’amicizia, con il segretario di Stato americano Antony Blinken. Nel conflitto ucraino è schierato al fianco di Kiev, con meno moderazione e tatto rispetto a Bennett. Ora non resta che capire se impronterà la prossima campagna elettorale andando a spolpare la sinistra, rinforzandosi a destra o cercherà di erodere gli opposti rimanendo fermo al centro, sapendo di essere l’unico collante che può tenere insieme tutti, contro l’eterno Bibi Netanyahu.
STRAGE CLANDESTINA
I corpi senza vita di 46 persone sono stati scoperti ammassati all’interno del rimorchio di un camion. Il luogo dell’orribile massacro è una strada remota e secondaria non lontano dalla città di San Antonio, in Texas. Le vittime erano tutti migranti latino americani entrati illegalmente in territorio statunitense. Le cause della morte, è stata aperta un’indagine federale e il Messico ha offerto piena collaborazione, sarebbero state le condizioni inumane a cui erano sottoposti: caldo infernale e disidratazione.
Per chiarire le dinamiche del tragico evento, comunque, risulterà determinante la testimonianza dei sopravvissuti, al momento ricoverati in varie strutture sanitarie del posto. Le vittime totali saliranno a 53. Non è la prima volta che incidenti del genere accadono lungo il confine con il Messico. Nel 2017, nelle stesse condizioni morirono 10 persone e decine rimasero ferite. Nel 2003 le vittime furono invece 18. L’amministrazione Biden ha recentemente annunciato guerra alle organizzazioni criminali che contrabbandano esseri umani. Smantellare un sistema con strette connessioni politiche e legate, ovviamente, ai cartelli della droga non sarà un’impresa semplice, e tantomeno rapida.
Solo pochi giorni fa, a migliaia di chilometri di distanza dal Texas, a Melilla lungo le coste del Sahel, nella porta d’ingresso all’Europa, giacevano a terra inermi decine di migranti. Rimasti uccisi in quello che pare un caotico tentativo di sfondare le recinzioni dell’enclave spagnola. Per il premier iberico Sánchez alla base della strage ci sarebbero le “mafie” locali, che avrebbero organizzato e pianificato l’assalto, violando “l’integrità territoriale” della Spagna. Sulla dinamica concordano anche le autorità marocchine. Ma non le organizzazioni umanitari presenti, che denunciano l’uso sistematico della forza della polizia di frontiera e il grado di “disperazione” dei migranti assiepati al confine.
Il rapporto sulla tratta delle persone dell’UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e prevenzione del crimine) del 2020, i cui dati si riferiscono al periodo 2016-2019, precedente quindi allo scoppio della pandemia, era alquanto istruttivo sulla situazione. A livello globale, la maggior parte delle vittime rientravano nello sfruttamento sessuale (50% nel 2018). Inoltre, si evidenziava anche la crescente percentuale di casi legati alla manodopera forzata (38%).
Trend che in regioni come l’Africa e l’Asia ha avuto un costante aumento nell’arco dell’ultimo decennio, superando abbondantemente il 50%. Mentre, circa il 6% del totale dei “clandestini” veniva sfruttato per scopi criminali: furti, coltivazione e spaccio di droga. Una forma meno comune di traffico era quella dello sfruttamento per accattonaggio. Tuttavia, 19 stati al mondo hanno segnalato questa modalità di tratta. Sempre maggiore risultava l’uso dei social media come mezzo dei “mercanti” per adescare le potenziali vittime, scelte ovviamente tra i più vulnerabili della società. La pandemia ci ha “distratto” da un problema serissimo, che in questa estate 2022 è di nuovo, purtroppo, cronaca.
ADDIO YEHOSHUA
Nel maggio 2014 alla vigilia del pellegrinaggio di papa Francesco in Medioriente, grazie al comune amico Cesare Pavoncello, abbiamo avuto modo di avere un lungo colloquio con lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua, “riflessioni” che riportammo in un capitolo del nostro libro dedicato a quell’evento storico (Francesco in Terra Santa, Edizioni ETS – 2014). Stralci che oggi dedichiamo alla memoria di un grande scrittore e intellettuale del nostro tempo. Un gigante che con il suo impegno in favore della pace ha rappresentato un faro della sinistra, israeliana e non.
«A differenza di quello che è stato da molti sostenuto nell’ultimo secolo e mezzo e in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, dobbiamo ricrederci sul fatto che di fronte al razionalismo e alla tecnologizzazione le religioni siano destinate a soccombere. Sembra invece che, in queste condizioni che si fanno sempre più estreme, l’uomo abbia bisogno di un angolo in cui regni l’emozionalità, la fede. Ma se per molti la religione può rappresentare un angolo caloroso e sano dove dare spazio alla propria spiritualità e alla propria fede, altri la portano a estremismi pericolosi, soprattutto quando viene legata a ideologie nazionaliste, settarie e a pratiche mistiche o addirittura magiche, che non possono portare a nulla di buono né su un piano individuale né tanto meno su uno sociale.
Penso che soprattutto in questo suo viaggio Francesco dovrebbe agire per rafforzare lo status dei Cristiani tanto in Israele quanto nell’Autorità Palestinese, di fronte all’ondata di fanatismo sia di gruppi ebraici che islamici. I cristiani israeliani vivono una difficile situazione in cui dai loro fratelli musulmani sono respinti in quanto cristiani e dalla popolazione ebraica non sono accolti bene tanto per il fatto di essere arabi, quanto per la loro religione, ancora vista con sospetto; in realtà la grande maggioranza di questa parte della popolazione israeliana propende per una maggiore integrazione nella società israeliana ebraica. Considero di primaria importanza la loro presenza qui, nella nostra società; fanno parte della storia di questo luogo, sono per diritto parte del suo tessuto storico e religioso e non deve assolutamente avvenire ciò che è già successo in Libano ma anche in molti altri paesi del Medio Oriente – compreso nell’Autonomia Palestinese – dove c’è una progressiva emigrazione del popolo cristiano. Per questo spero che Papa Francesco trovi il modo di sostenere e rafforzare i cristiani in Israele e di incitare il mondo cristiano a ricongiungersi con il luogo di origine della propria religione, sentendosi liberi di visitarlo, venirlo a conoscere e compiervi il proprio pellegrinaggio religioso. La Terra Santa e tutti i suoi luoghi sacri devono essere aperti a tutti i culti.
Alla politica oggi occorrono coraggio, saggezza, capacità di chiedere ma anche di dare e soprattutto di distinguere l’essenziale dall’irrilevante. Per tradurre le mie parole in termini pratici, dico che se Netanyahu considera così importante il riconoscimento di Israele come stato ebraico e Abu Mazen vuole di contro che sia detto chiaramente che i confini del futuro stato palestinese ricalcheranno quelli di prima della vigilia della Guerra dei Sei Giorni del ‘67, ebbene che i due scambino questi due riconoscimenti, la cui sostanza è fondamentalmente accettata dalle due parti. C’è qualcuno – Abu Mazen compreso – che può negare l’ebraicità d’Israele? E c’è qualcuno – Netanyahu compreso – che pensa a uno stato palestinese in confini molto diversi da quelli del Giugno ‘67, salvo gli scambi di territori di cui si è già ampiamente discusso? Altro esempio: il diritto al ritorno dei Palestinesi nei confini di Israele non è realistico se si vuole veramente arri- vare a una pace – e questo lo ha riconosciuto lo stesso Abu Mazen – ma in cambio di questa rinuncia deve essere dato anche a loro uno status legale a Gerusalemme perché sia la capitale anche dello Stato Palestinese. E così via per tutti i nodi veramente importanti del conflitto e sui quali le due leadership devono assolutamente trovare il modo di ricevere e dare, ricevendo ciò che è fondamentale e riconoscendo all’altro lo stesso diritto. I leader dei due popoli devono prendere il coraggio a due mani e fare i passi necessari senza curarsi – da una parte e dall’altra – delle frange estreme, dell’integrità della loro coalizione politica. Almeno per quello che riguarda Israele, posso dire che anche oggi, nonostante tutti i problemi, lo scoraggiamento di molti e la reciproca sfiducia fra i due popoli, c’è una netta maggioranza nell’ambito dell’opinione pubblica israeliana a favore di un accordo di pace che presenti sufficienti garanzie. Se poi l’alternativa per Israele è uno stato binazionale in cui, stando ai dati demografici, la popolazione ebraica è destinata a divenire minoranza, per i palestinesi è il perpetuarsi di livelli di vita bassissimi, e per tutti e due è continuare a vivere in una situazione conflittuale che costa ai due popoli lacrime e sangue – beh, allora, non so proprio che cosa Netanyahu e Abu Mazen stiano aspettando. Chissà che Papa Francesco non riesca a instillare in questi leader il sentimento e la ragione necessari per superare gli ostacoli verso la pace.
Infine, se dovessi regalare a Papa Francesco un mio libro sceglierei senz’altro Il signor Mani perché è un racconto che nella sua prospettiva storica fa assaporare tanto il presente quanto il passato di questo paese, facendo capire la sostanza del conflitto, vale a dire che non c’è un popolo che ha diritti sulla terra mentre l’altro è un intruso: questa terra appartiene tanto agli arabi quanto agli israeliani e, come in passato la convivenza è stata possibile, il futuro che il libro vuole indicare è quello in cui si ritrovi la strada del rispetto reciproco nell’ambito di un compromesso territoriale».
Abraham Yehoshua
L’ITALIA E LA NUOVA VIA DEL GAS
Mario Draghi in Israele e Cisgiordania. A Gerusalemme per incontrare i vertici dello stato israeliano e a Ramallah quelli dell’Autorità nazionale palestinese. Nell’ultimo colloquio a Roma con il presidente Abu Mazen, lo scorso novembre, Draghi aveva sottolineato che “una soluzione a due Stati, giusta, sostenibile e negoziata tra le parti resta la chiave per una durevole stabilizzazione regionale”. Negoziati di pace che ad oggi sono impantanati da veti incrociati che impediscono qualsiasi progresso.
Concretezza e diplomazia sono invece le ragione alla base del viaggio del presidente del Consiglio italiano in Israele, alla ricerca delle strategiche forniture di gas alternative a Mosca. Al centro della cooperazione tra i due stati del Mediterraneo anche sicurezza alimentare, innovazione, import ed export. Ragioni bilaterali a parte, lo scoppio del conflitto in Ucraina sta rapidamente ridisegnando la geopolitica internazionale e le sue geometrie. Non a caso questa visita ufficiale giunge prossima al G7, a ridosso del vertice della Nato di Madrid, e dell’arrivo in Medioriente di Biden.
L’indicazione di Washington è di serrare i ranghi nella battaglia a Putin. Semplice diktat agli alleati, ma con qualche distinguo. L’Italia con l’inasprimento delle sanzioni alla Russia ha bisogno prioritario di implementare il fabbisogno energetico, Israele del riconoscimento della sua “neutralità diplomatica” nel conflitto. Due approcci, dovuti a diverse finalità, che hanno più di un punto in comune.
Italia ed Israele condividono attualmente l’esperienza di due governi di “unità nazionale” e di una forte instabilità politica alla porta. Se Draghi può contare su un forte centralismo di governo che resiste alle fibrillazioni della sua maggioranza politica pur con l’avvicinarsi del voto, il variegato e surreale assemblement a guida Bennett, che riunisce destra, centro, sinistra e gode dell’appoggio esterno del partito arabo islamista, è sempre più una fittizia invenzione.
Creato unicamente in funzione anti-Netanyahu, in questi ultimi dodici mesi, attraversati da pandemia e guerra, un po’ tutti si erano illusi che la stella del longevo ex premier fosse entrata nella fase calante, relegato all’opposizione e non rappresentasse più un problema politico. Erroneamente si è creduto che “il falco” della destra avesse svuotato la faretra delle frecce da scagliare. Mentre, la coalizione di governo con il passare del tempo non ha potuto contenere e comprimere le distanze ideologiche esistenti al suo interno, liquefacendosi.
Tra defezioni, divisioni, protagonismi, la vita del primo esecutivo post-Netanyahu è decisamente molto accidentata. A questo punto un cavillo puramente “tecnico” (basta solo un’altra diserzione tra le file della maggioranza) attende l’imminente fatale stacco della spina. Nel qual caso la Knesset si troverebbe difronte al dilemma di indire nuove elezioni o formare una maggioranza qualificata. Evoluzioni politiche in divenire che non alterano la stretta collaborazione ed amicizia con l’Italia.
QUANTO E’ IMPORTANTE CHIARIRE LE CIRCOSTANZE DELLA MORTE DI SHIREEN.
La storia degli ultimi 30 anni del conflitto israelopalestinese è peggiorata, sia sul piano dei diritti che della sicurezza, mentre è andata migliorando la copertura delle notizie provenienti da quel francobollo di terra. Oggi, sicuramente il luogo più monitorato al mondo. Dove però i giornalisti rischiano quotidianamente la vita, e pagano il loro diritto di cronaca a caro prezzo, come purtroppo avvenuto a Shireen Abu Akleh: uccisa mentre raccontava quella che da settimane è la nuova battaglia di Jenin, tra palestinesi e forze armate israeliane. Scatenata dagli attentati terroristici che affiliati all’ala armata di Fatah, provenienti da quella zona, hanno portato nel cuore di Israele. Escalation di violenza che la reporter palestinese copriva con i suoi servizi, prima di essere colpita mortalmente da un proiettile, nei pressi del campo profughi di Jenin. L’omicidio della corrispondente del network Al Jazeera è un caso penale, quanto politico e diplomatico.
Le responsabilità politiche possono sfumare, ma la dinamica dell’accaduto difficilmente potrà restare segreta. Insabbiata forse, manipolata sicuramente. Nessuno può negare che Abu Akleh sia prima di tutto una vittima del conflitto e dell’occupazione.
Come era prevedibile durante i funerali svoltosi nella mattina di venerdì a Gerusalemme ci sono stati scontri con le forze di polizia israeliane. Nel rapporto provvisorio sull’incidente prodotto dall’esercito israeliano viene confermata l’impossibilità a determinare quale parte abbia premuto fatalmente il grilletto: se i palestinesi o gli israeliani. Secondo la testimonianza di un giornalista palestinese presente all’accaduto, e rimasto ferito, a sparare sarebbero stati i militari israeliani. Il successore di Arafat e l’erede di Netanyahu si sono scambiati pesanti accuse. Opinioni discordanti, verità una sola. Il ministro degli esteri israeliano Lapid ha offerto collaborazione nell’indagine, la Muqata palestinese l’ha rifiutata, invocando la Corte penale internazionale. Se può essere comprensibile il diniego di Abu Mazen a Lapid non lo è l’aver chiamato in causa un tribunale per crimini internazionali. Comunque, ben venga una soluzione esterna se può servire ad andare fino in fondo e fare completa luce. L’uccisione di Shireen Abu Akleh è anche questione diplomatica, e non solo perché la giornalista aveva passaporto statunitense. Il Qatar che possiede l’emittente Al Jazeera ha con veemenza criticato Israele. Washington ha espresso una forte condanna e chiesto l’immediato avvio di un’inchiesta. Che potrebbe portare a future sanzioni. E intanto rischia di gravare di tensione la prossima visita di Biden nella regione e degenerare ulteriormente in assurde violenze.
Un’ultima considerazione. Non ha fatto notizia l’aggressione brutale, filmata, al reporter palestinese Basil al-Adraa del magazine +972 da parte di soldati israeliani. Avvenuta in un villaggio a sud di Hebron pochi giorni prima dell’assassinio di Abu Akleh. In Medioriente dal fare informazione al diventarla il passo è tristemente breve.
SOPRAVVISSUTI ALL’OLOCAUSTO, MEMORIA E L’INGIUSTIZIA
Al mondo sono sempre meno gli scampati al genocidio ebraico ancora in vita. Secondo alcune stime attualmente sarebbero circa 400mila. Numero che si sta rapidamente assottigliando ed entro la fine del decennio 2030 potrebbe raggiungere lo 0.
Israele è lo stato dove vive la gran parte dei perseguitati dal nazifascismo, sei anni fa i sopravvissuti all’Olocausto erano 190mila, 45mila si trovavano economicamente sotto la soglia di povertà. Nel 2021 15mila sono il totale dei deceduti in Israele (Holocaust Survivors’ Rights Authority, 2022). Con una media di 42 morti al giorno.
Oggi, la maggioranza dei 161.400 superstiti è nella fascia di età compresa tra 85-86 anni, 1/5 ha compiuto più di 90 anni e mille hanno passato i 100. Il 63% è nato in Europa, il gruppo più numeroso proviene dall’ex blocco dell’Unione Sovietica, circa uno ogni tre. Il 12% è nato in Romania, 5% in Polonia, 2,7% Bulgaria, l’1,4% Ungheria e Germania. Il 18,5% è originario del Marocco e dell’Algeria, 11% Iraq e il 7% proviene da Libia e Tunisia.
Le donne rappresentano più della metà (61%) dei superstiti. La distribuzione geografica spazia in tutto il paese, Haifa conta tra i suoi cittadini 11mila sopravvissuti, Gerusalemme 10mila e Tel Aviv 8.700. Mentre, sono 7.743 coloro in attesa di ricevere l’alloggio pubblico. Tra questi c’è chi attende da oltre 20 anni.
Riuscire ad entrare nelle case popolari non è l’unico problema. Gran parte delle famiglie dei sopravvissuti non possono permettersi l’assistenza sanitaria, 90 ore mensili è il sussidio domestico riconosciuto dal governo. Sono ufficialmente 42 mila a ricevere sostegno dal Ministero dei Servizi Sociali. L’Autorità competente ha un budget annuale di 5,5 miliardi di shekel (1,57 miliardi di €). Ma rientrare tra i beneficiari del programma assistenziale non è così semplice e scontato.
Nella cultura umana l’Olocausto è un evento incomparabile. Nella nostra epoca di guerra c’è un diffuso ricorso a parallelismi storici tanto inappropriati quanto distorsivi, e le falsità propagandate si sprecano. Mistificazioni ad uso politico, come ad esempio le parole antisemite deliranti pronunciate dal ministro degli esteri russo Lavrov. Avraham Roet è un superstite, in occasione di Yom Ha-Shoah, Giorno del Ricordo, ha pubblicato una toccante lettera, dove non risparmia critiche alle istituzioni.
Roet nel suo atto d’accusa si sofferma su tre richieste: la restituzione dei beni depredati alle vittime della Shoah e non restituiti, il diritto dei sopravvissuti a trascorrere la vita dignitosamente e quello di veder tramandata la loro memoria. Una fondazione caritatevole israeliana ha pensato di portare il primo museo dell’Olocausto nel Metaverso. Un modo di connettere generazioni proiettando le loro storie nello spazio del mondo virtuale.
La realtà invece è fatta anche di profonda ingiustizia. E paura. Almeno è quanto si evince dal sondaggio pubblicato alla vigilia delle commemorazioni, che quest’anno cadevano il 26 e 27 aprile, dal quotidiano Israel Hayom: il 47% degli intervistati teme un prossimo Olocausto.
GERUSALEMME, SANTA E VIOLENTA
Il miraggio di re Salomone, figlio di David, era che edificando il Tempio avrebbe portato pace e prosperità a Gerusalemme, e al suo popolo. Conferendo eterna santità alla città, dove sia gli “israeliti che gli stranieri provenienti da paesi lontani” avrebbero condiviso quella casa da lui voluta, dedicata alle offerte e al nome di Dio (Primo libro dei Re capitolo 8). L’imponente tempio che accoglieva la sacra arca dell’alleanza secondo l’esegesi biblica venne distrutto nel 576 a.C, per poi essere ricostruito e quindi nuovamente raso al suolo. Al suo posto la storia ha collocato il terzo sito per importanza dell’islam. Tuttavia, una componente del profetismo ebraico alimenta il sogno che un giorno in quel luogo tornerà a sorgere l’antico santuario. Quella piccola rettangolare porzione della città Vecchia è stata spesso epicentro delle tensioni del conflitto israelopalestinese. Dalla fine della guerra dei Sei Giorni nel 1967 è consentito ad ebrei e cristiani di visitare la Spianata, ma gli è vietato pregare. L’attuale status prevede che Israele gestisca il controllo della sicurezza, e la fondazione islamica Waqf amministri le attività religiose al suo interno. Chi non riconosce l’accordo (oltre ovviamente alle sigle del fondamentalismo islamico da Hamas a Hezbollah) sono in particolare alcune organizzazioni dell’estrema destra israeliana, che in questi anni hanno portato a segno più di una provocazione sul posto. L’ultima, che non hanno potuto attuare perchè fermati ed arrestati in tempo dalla polizia, prevedeva di svolgervi il sacrificio dell’agnello pasquale. L’iniziativa era stata lanciata alla vigilia di Pesach sui social dal gruppo Chozrim LaHar (Ritorno al Tempio del Monte), che nel promuovere l’evento si era fatto carico di eventuali spese giudiziarie per i partecipanti, un risarcimento aggiuntivo in caso di arresto nel tentativo di introdurre l’animale sacrificale e un bonus di tremila dollari se si fosse riusciti a completare il rito. Il rabbino Shmuel Rabinovitch ha ammonito contro un tale gesto, ribadendo il divieto di compiere sacrifici sul Monte del Tempio, in quanto contrario ai dettami del Gran Rabbinato di Israele ed irrispettoso della giurisdizione della Waqf. Appello che altre volte è andato inascoltato. Soprattutto da parte degli aderenti al Chozrim LaHar, che regolarmente organizza incursioni nella Spianata. Dove per non sollevare sospetti entrano travestiti da musulmani osservanti e sfidano le regole recitando i salmi. Bravate molto pericolose, con un alto grado di infiammabilità. Come lo dimostrano gli scontri divampati tra polizia israeliana e giovani palestinesi nella mattina di Venerdì. La notizia della possibile presenza di “indesiderati” nella Spianata aveva portato migliaia di ragazzi palestinesi a trascorrervi la notte, per “proteggerne l’inviolabilità”. Con il sorgere del sole alla stanchezza ha prevalso la brutalità. E il cielo si è riempito di sassi, petardi e lacrimogeni. Battaglia andata avanti per 6 lunghissime ore, lasciando evidenti segni di devastazione. Immagini già viste. Una storia che si ripete ciclicamente. Al costo di centinaia di feriti ed arresti. Dopo che da giorni il clima in Israele è nuovamente piombato nella spirale del terrore. Paura e sangue nel tormentato Medioriente, durante quelli che teoricamente dovrebbero essere giorni di festa per le tre religioni monoteistiche, dovute alla coincidenza “astrale” di Ramadan-Pesach-Pasqua.
L’episodio, come era da aspettarsi, ha innescato il valzer della politica. Sul fronte palestinese Hamas e Jihad gettano benzina sul fuoco, incitando alla rivolta. Condanna per l’ingresso dei militari nel sito è stata espressa anche dal presidente Abu Mazen. A cui si sono aggiunte quelle dei partiti arabi israeliani. Il leader Mansour Abbas, che appoggia esternamente il primo esecutivo della storia recente senza Netanyahu, ha avvisato di possibili ripercussioni sugli assetti della coalizione, minaccia non velata ad una imminente crisi. Mentre, il governo Bennett perde pezzi e naviga instabile.
COLPO A BENNETT DI BIBI
La sera del 17 novembre del 2003 Roma è teatro di una delle più impensabili operazioni diplomatiche del Medioriente contemporaneo. Nelle stanze dell’Hilton Cavalieri viene partorito il piano di disimpegno unilaterale israeliano (Hitnatkut). Fuori tutti da Gaza, settlers e soldati, con i secondi molto più felici dell’idea rispetto ai primi. Artefice, l’allora premier e leader del Likud Ariel Sharon. Il progetto viene esposto a Elliott Abrams, funzionario della Casa Bianca nell’amministrazione Bush jr. In quella circostanza, quasi sicuramente, Sharon aveva già maturato la strategia di manovra nella Knesset, con l’obiettivo di posizionarsi al centro. Tattica che si tramuterà successivamente nella decisione, anche in questo caso dirompente, di uscire dal Likud (dove era esposto agli attacchi della fronda interna guidata dal solito Netanyahu) e creare un suo movimento, Kadima. Partito che risucchierà voti, e volti, dalla destra del Likud e in parte dai laburisti. La linea di Ariel “Arik” Sharon è vincente, la sua creatura ottiene 29 seggi nelle elezioni del 28 marzo 2006. Mentre, Arik però si trova in ospedale a Gerusalemme in coma vegetativo, a prendere il timone di Kadima e dell’esecutivo era intanto giunto Ehud Olmert. Che formerà una coalizione comprendente i laburisti di Avoda, gli ortodossi sefarditi di Shas e il partito dei pensionati Rafi Eitan. In seguito si aggiungerà l’appoggio di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu. Da quello schema di gioco è escluso Bibi Netanyahu, che sceglie di trincerarsi nei banchi dell’opposizione. In attesa di preparare il grande ritorno sulla scena. Avvenuto con arte, ma non con stile, il 31 marzo 2009, data della nascita del Netanyahu bis e inizio del suo lungo regno, che si concluderà ufficialmente il 13 giugno 2021 con il giuramento del governo Bennett-Lapid. Vaso fragile, per due ragioni: numericamente troppo esiguo (nato con un solo seggio di maggioranza alla Knesset) ed ideologicamente eterogeneo (sinistra, arabi, russi, destra nazionale e religiosa e liberali). A saldare anime così distanti politicamente ed incompatibili per natura è solo l’anti-Bibismo. Il collante tiene per quasi 10 mesi. Durante i quali, tra pandemia e guerra in Ucraina, la giovane coppia riesce persino ad incasellare l’approvazione del bilancio. Evitato questo scoglio tutto pare in discesa. E così il duo Bennett-Lapid può dedicarsi con una certa tranquillità a spaziare nella sfera diplomatica, sviluppando piene relazioni con i partner arabi che hanno aderito all’Accordo di Abramo sino a proporsi come mediatore nel conflitto ucraino. Il clima del Medioriente improvvisamente si infiamma, il terrorismo torna nelle strade, la paura aumenta, le tensioni con i palestinesi salgono. C’è allarme. Fatalmente Naftali Bennett si distrae troppo dalla stretta marcatura a Netanyahu. Credendolo forse concentrato nelle vicissitudini giudiziarie che lo riguardano e senza prendere sul serio gli avvisi di pericolo che gli vengono recapitati, commettendo l’errore di lasciare al falco della destra israeliana movimento per erodere pezzi alla risicata maggioranza. L’azione di Netanyahu è martellante da tempo, l’ex premier ci prova prima con Benny Gantz (già rimasto bruciato dalle promesse di Bibi, e quindi molto cauto), alla fine qualche ammiccamento c’è, tuttavia, il “complotto” non si finalizza. Comunque, sono in molti a pensare che il leader di Kahol Lavan può essere il punto debole su cui Netanyahu tenterà di sfondare. La coltellata a Bennett arriva il 6 aprile 2022 alla vigilia della pausa del parlamento, inflitta da chi gli è vicino, la parlamentare di Yamina Idit Silman, che con la sua defezioni produce un terremoto politico. Non è ancora chiaro se la Silman abbia rotto per motivi “religiosi” (non sarebbe stata la prima volta in Israele), dovuti ai dissidi con il ministro della Salute, da cui avrebbe voluto la rassicurazione che durante la Pesach fosse impedito negli ospedali di mangiare cibo chametz. Un’altra ragione alla base della frattura con Bennett potrebbe essere il calcolo politico, il marito della Silman avrebbe chiesto ed ottenuto per la moglie delle sicurezze dal Likud. Oppure, molto semplicemente la decisione è stata motivata dal fatto che non avrebbe retto alla tensione della campagna di critiche di cui era oggetto. Comunque sia andata, è Netanyahu ad averne tratto vantaggio. Raggiungendo nella Knesset la parità tra maggioranza ed opposizione, 60 a 60. “La risposta immediata è che il governo può, almeno per ora, sopravvivere senza una maggioranza, purché non ci siano ulteriori disertori”. Scrive Anshel Pfeffer su Haaretz. Teoricamente anche se zoppicante il governo può andare avanti sino a Marzo 2023, quando ci sarà da votare la legge finanziaria. Se invece la Knesset dovesse optare per lo scioglimento si andrebbe al voto anticipato. E Yair Lapid – secondo le clausole del patto di governo – diventerebbe primo ministro ad interim per il periodo di transizione. Tra i vari incastri possibili c’è persino l’opzione del ritorno di Netanyahu o la formazione di una nuova compagine governativa. Yamina è sempre andata stretta alle ambizioni di Bennett, alla quale non ha mai dedicato troppa attenzione. Con il rischio, appunto, di vedersela sgretolare tra le mani. La lezione di Sharon per battere Netanyahu è che devi anticipare le sue mosse, anche a costo di cambiare la macchina in corsa. Il futuro di Bennett è oggi appeso ad un filo. Per resistere all’assedio lanciato a Balfour street (residenza ancora in ristrutturazione dopo il trasloco della famiglia Netanyahu) deve fare affidamento sulla tenuta degli alleati. Ma per rompere l’accerchiamento non ha scelta che portare la guerra dentro il Likud, in profondità come avrebbe fatto Sharon.