La battaglia politica del referendum del 16 aprile in Turchia si è clamorosamente spostata in Europa. Le turbolenze della campagna referendaria turca per cambiare la Costituzione e introdurre il presidenzialismo stanno agitando persino la Cancelleria di Berlino. I proclami di ferro e fuoco contro la Germania e l’Olanda definite senza mezzi termini paesi “nazisti” lanciati dal premier Recep Tayyip Erdogan, hanno irrigidito le capitali europee. In ballo qualche punto percentuale che potrebbe diventare decisivo, pesano sulla bilancia i voti di 3 milioni di turchi che risiedono in Germania.
Dai giorni del fallito golpe dello scorso luglio ad oggi lungo le rive del Bosforo si susseguono inganni e trame intrigate, attentati ed epurazioni, che hanno portato Erdogan ha proclamarsi pro-tempore sultano della Sublime Porta. E pur di non perdere è disposto a giocare tutte le carte, arrivando ad imporre una stretta ulteriore, alla libertà di stampa. Per i giornalisti non allineati alla propaganda di governo la porta dei tribunali è subito dietro l’angolo. La rinascita dell’impero ottomano resta tuttavia una pura illusione, coltivata negli anni di governo dallo stesso nostalgico leader e dal suo partito religioso AKP. Formazione politica riproduzione, più o meno fedele, del movimento dei Fratelli Musulmani egiziani e delle sue emanazioni in Medioriente.
Le affinità con la fratellanza sunnita hanno tuttavia preso un indirizzo diverso da quello iniziale, quando Erdogan apertamente sosteneva, anche economicamente, il regime di Hamas a Gaza, e Mohammed Morsi al Cairo. Allora le invettive di Erdogan non erano rivolte all’Europa o agli USA ma bensì ad Israele e alla Russia. I tempi cambiano in fretta, e chi ieri era un nemico giurato nel valzer trumpiano della diplomazia si è trasformato in un amico, un partner economico, un alleato militare. Un passaggio frutto dei tempi che corrono drammatici in Turchia e non solo. Il prossimo aprile il popolo turco sarà chiamato a decidere tra una repubblica parlamentare o legittimare poteri speciali alla sua guida politica, due strade divergenti.
Se approvata la nuova Costituzione, tra le altre cose, prevede l’abolizione del Primo ministro e il passaggio delle funzioni al Presidente, il quale godrà di ampia autorità anche sulla magistratura. Il disegno di legge inoltre spiana, di fatto, ad Erdogan la strada per restare sulla poltrona di sultano sino al 2029. La Turchia rischia una deriva autoritaria non indifferente su cui Bruxelles dovrebbe riflettere, prendendo le dovute contromisure in tempo. L’Europa, in questi anni, ha tollerato, per quieto vivere più che per altre ragioni, relazioni sbilanciate a favore di Ankara nella speranza di allargare le frontiere dell’Unione. L’idea di inclusione civile è scaduta.
La frattura tra la Turchia e l’Europa è siderale, purtroppo non minore di quella che la separa da una società libera e democratica. Migliaia di dipendenti statali e accademici sono stati allontanati in questi mesi dal loro posto di lavoro, nel Paese è diffuso un clima di paura, ampliato dalla minaccia di nuovi attacchi terroristici. Una Turchia tra l’incudine e il martello, con in atto un processo di fusione tra stato e religione attraverso il partito unico guidato dall’uomo forte, con l’autoritario controllo degli apparati e la drastica riduzione degli spazi del dissenso democratico.
Per Erdogan la consapevolezza di essere espressione “sublime” di una nuova oligarchia economica e militare, forse maggioranza nel paese. Per l’Europa la responsabilità di non restare fragile e scomposta. Intanto, con la stampa sempre più imbavagliata, nella turistica cittadina di Mugla nelle scorse settimane ha avuto inizio il processo ai congiurati accusati di aver complottato per uccidere il presidente Erdogan. Alla sbarra decine di persone che, forse, hanno pensato di eliminare un presidente e invece assistono dal carcere all’incoronazione di un sovrano che non ha nessuna pietà.
Archivi tag: Erdogan
LE VICENDE TURCHE
La Turchia è attraversata da un’ondata di violenza inaudita, una catena di attentati che minano la coesione sociale, e dimostrano una pericolosa fragilità dello stato. La fredda mano del giovane folle attentatore che colpisce alle spalle il plenipotenziario di Putin è l’ennesima dimostrazione della fragilità di Ankara. L’enigmatico scenario ha una spiegazione nell’ascesa di Recep Tayyip Erdogan. L’uomo forte di Istanbul salito al potere nel 2003 ha saputo allargare e radicare il proprio consenso in particolare tra la classe media del paese, proponendosi agli occhi e alle tasche della gente come garante incondizionato e soprattutto incontestabile. E così il liberismo islamizzante di Erdogan ha corretto il percorso democratico e laicizzante che avrebbe dovuto portare la Sublime Porta dentro i confini di una nuova Europa. Deviando dagli obiettivi di una grande unione per il progresso e la civiltà: il ponte strategico tra Occidente e Oriente rischia di non essere inaugurato, almeno a breve. Il governo turco ha mostrato al mondo il vero volto di un sultano vendicativo e con lo sguardo al passato: deciso a consolidare il potere personale e allo stesso tempo impegnato a sopprimere il dissenso interno in modo drastico. Mentre il Bosforo sprofondava nel caos tipicamente mediorientale, il terrorismo insanguinava i luoghi pubblici e i militari occupavano i ponti, Erdogan adottava la repressione autoritaria ed estendeva le sue ingerenze sulla regione. Il fallito golpe del 15 luglio, per quanto ingiustificabile, ha avuto l’effetto di rendere la preda a sua volta uno spietato cacciatore. La vittoria schiacciante del leader turco, dovuta sostanzialmente alla discesa in campo del popolo, ha avuto una portata maggiore di un successo elettorale. Gli argini della democrazia e dei diritti umani sono stati spazzati via non con voto plebiscitario ma per acclamazione della piazza. Il giro di vite, il governo che ordina di imprigionare decine di migliaia di presunti golpisti e persone vicine a colui che sarebbe secondo Erdogan il vero ispiratore delle manovre di destabilizzazione, la guida spirituale Fethullah Gulen. La drammatica epurazione tra le fila dell’esercito e della burocrazia, il sistematico arresto di giornalisti non allineati, la sospensione di accademici e insegnanti, sono state le risposte di Erdogan ai propri nemici. E la fine di vecchie amicizie. Una cosa che ancora oggi sfugge è il fatto che, alla vigilia del colpo di stato, nessuno abbia potuto prevedere che la Turchia sarebbe scivolata nel dramma del Medioriente, assorbita dal vortice di violenza. Il senso comune era che in fondo Ankara è sempre stato un fraterno alleato politico e militare dell’Occidente, un muro all’espansione russa, un affidabile referente nelle tribolate questioni arabe. In pochi sospettavano che Erdogan volesse realmente costruire uno stato islamico sunnita e che tentasse di portare in vita il sogno del ritorno dell’Impero Ottomano, la convinzione più diffusa era che avrebbe preservato l’ordine sociale, con scelte conservatrici ma mantenendo in piedi la struttura dello stato turco costruito da Kemal Ataturk. Così non è stato. Ed oggi la Turchia è un concentrato pronto ad implodere. Con un parlamento senza opposizione e gli effetti della crisi siriana oramai dentro casa. Con la morsa del terrorismo, vuoi per mano dei fondamentalisti dell’Isis o per quella della minoranza curda del PKK e delle sue cellule più o meno affiliate. Le recenti stragi di Istanbul e in Cappadocia rafforzano ulteriormente l’impressione che la Turchia isolandosi è diventata sempre più debole, insicura e instabile, e che le geopolitiche di Erdogan, spinte sino all’alleanza con l’ex nemico Putin, non sono in grado di riportare tranquillità, sviluppo e pace. Il sultano dovrà presto decidere se dispiegare le armate dei giannizzeri ai quattro venti del Vicino Oriente oppure avere una numerosa rappresentanza al parlamento europeo. Le due strade oggi sono incompatibili. E le minacce all’Europa non sono più ammesse.
GAS RUSSO PER LA TURCHIA DI ERDOGAN
Mentre la Russia dello zar Putin sogna di riportare in auge il passato imperiale ed exsovietico, la Turchia del sultano Erdogan inverte alleanze storiche e definisce un nuovo percorso geopolitico, alternativo a Bruxelles e a Washington nel nome di una strategia unitaria con Mosca. Il primo passo concreto è avvenuto a margine del World Energy Congress di Istanbul che si chiude oggi, quando il presidente russo e il suo omologo turco hanno firmato un patto sulle energie, avviando la costruzione di un gasdotto. Il 1° dicembre del 2014, BOTAŞ, l’azienda statale turca e Gazprom siglarono un memorandum d’intesa per la costruzione di un nuovo gasdotto offshore denominato Turkish Stream. Il progetto sostituiva una ipotesi precedente caldeggiata da alcuni paesi europei, il South Stream. L’accantonamento di South Stream aprì di fatto la strada alla partnership del colosso turco e di quello russo per questo progetto, che ha navigato in acque anche burrascose con qualche reciproco sgambetto e pesanti sospensioni, spesso indotte da difficoltà politiche tra Mosca e Ankara. Il piano imprenditoriale di Turkish Stream è raggiungere la capacità di trasportare 63 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Russia alla Turchia, entro il 2019. L’accordo prevede la costruzione di due linee o “gambe” sul fondo del Mar Nero, con un investimento stimato intorno ai 12 miliardi di euro. Per Mosca il progetto Turkish Stream ha molti aspetti positivi al contrario dell’antico progetto del gasdotto South Stream che presentava maggiori costi realizzativi, introduceva questioni ambientali e normative difficili da prevedere. Inoltre il gasdotto pone le condizioni affinchè Gazprom diventi leader del mercato turco, scalzando di fatto il dominio tedesco. Gli effetti “indiretti” legati all’operazione Turkish Stream passano dal settore economico con un mercato prezioso dove far confluire i prodotti bloccati da embargo, al piano militare, con un alleanza anti Isis in Siria, per riflettersi a livello diplomatico con un indebolimento della Nato. Che le relazioni tra Erdogan e Obama fossero profondamente incrinate, dopo il mancato golpe, era stato chiaro al vertice del G20 di Hanghzou, dove il primo presidente afroamericano con la testa reclinata in segno di sconfitta e stanchezza riceveva da Erdogan uno stucchevole buffetto. Altra cosa le strette di mano e gli abbracci tra Erdogan e l’amico Putin. Barack Obama lascerà presto la Casa Bianca in una fase molto delicata dei rapporti internazionali. Gli USA sono ancora la più grande superpotenza del mondo, ma il loro potere, o strapotere, è apertamente messo discussione. L’acutizzarsi della tensione con la Russia per questioni quali Ucraina, Siria, e non solo, mette indietro le lancette dell’orologio, esattamente ad un quarto di secolo fa quando sfogliavamo gli ultimi capitoli della Guerra Fredda. Perdura sin da allora un movimento di riequilibri globale inarrestabile. Obama dal suo incauto predecessore George W. Bush aveva ereditato una montagna di “panni sporchi”: l’Iraq compromesso, lo scenario afghano devastato e il processo di dialogo israelopalestinese congelato. Nel suo mandato scoppieranno le rivolte di piazza, la primavera araba con le sue rivoluzioni e controrivoluzioni. Siria e Libia si trasformano in criticità interminabili e ingestibili. Il dramma dei profughi deflagra. Il terrorismo è quotidianità. L’Europa stenta sfumando in dissolvenza. Indubbiamente la governance di Obama ha sofferto “forti sollecitazioni”. Ma la visione di questo presidente è stata pur sempre una via progressista e, a tratti, illuminante, più di una pipeline.
IL PATTO DI SAN PIETROBURGO
Nel cuore di Istanbul abbiamo assistito poche settimane fa alla notte in cui i cittadini si rivelarono eroi ordinari e sventarono il golpe. In quelle stesse ore Erdogan ebbe il sostegno convinto da parte della Russia di Putin. Oggi, dopo l’incontro di San Pietroburgo, un nuovo asse geopolitico taglia l’Europa dall’Asia. Nella notte buia della congiura, sventolando la bandiera della democrazia, gran parte del popolo scelse di opporsi al colpo di stato militare. Un segno divino per il religioso Recep Tayyip Erdogan. Nel momento più critico della sua carriera l’uomo di Istanbul, al potere da 13 anni consecutivi, si è appellato al popolo che ha salvato, letteralmente, la testa del suo sultano. Ma la storia non si è fermata agli eventi drammatici del 15 luglio. Dopo è iniziata la cronaca dell’accanimento, oltre 70mila persone, sono state arrestate o sospese per aver preso parte direttamente alla cospirazione o per presunti legami con il movimento di Fethullah Gulen, il predicatore rifugiato in America che avrebbe tramato contro Ankara ma che nega ogni coinvolgimento. La confraternita della facoltosa guida religiosa è “infiltrata” in vari settori chiave della società turca, tanto da essere stata la spinta propulsiva del successo di Erdogan per poi esserne ripudiata, e finire preda di una caccia senza quartiere. Che ruolo Gulen abbia realmente avuto nell’organizzazione del golpe è materia per tribunali e servizi segreti. Intanto il sultano, non potendo aspettare che le passioni della piazza vengano affievolite dal tempo, ha già emesso il verdetto per i traditori. In modo plateale e subdolo in queste ore dal pulpito ha chiesto al suo popolo d’introdurre la pena di morte e la folla, meccanicamente e fragorosamente, ha invocato il castigo capitale per chi ha tramato contro il palazzo. I valorosi difensori della democrazia in meno di un mese hanno cambiato d’abito, riponendo il vestito da supereroi e infilandosi la maschera della scimmia giacobina di gramsciana memoria: “non hanno il senso dell’universalità della legge, perciò sono scimmie”. L’Unione europea, gli USA e molte organizzazioni umanitarie tra cui Amnesty International hanno biasimato la possibile deriva di Ankara. E la corte del sultano non ha gradito reagendo in modo equivoco e lanciando un ultimatum a Obama. Bisanzio ha smesso di ascoltare Roma, Parigi, Berlino, Vienna e ha puntato l’orecchio a Mosca. Lo zar e il sultano scambiandosi una calorosa stretta di mano, con freddo raziocinio hanno cancellato violenti dissapori e dichiarazioni al vetriolo per dare vita ad una alleanza di tutta convenienza per entrambi: l’esportazione turca verso la Russia era crollata del 60%, lo spazio aereo turco interdetto ai russi. L’eterna guerra per il Caucaso e il Mar Nero ha raggiunto un compromesso. Passata la paura iniziale Erdogan è stato abile a capitalizzare e sfruttare la volontà popolare per rafforzare il suo dominio politico, e imprimere con una purga di stato un assetto autocratico e nazionalista al paese. Sciolinando invettive retoriche e producendo una propaganda massiccia ed efficace nel demonizzare gli avversari. Aprendo un vuoto nel sistema democratico, rivendicando la legittimità ad andare avanti nella repressione, rimuovendo gli ostacoli anche con l’utilizzo della forza. Il pericolo principale è che, al momento, il sultano è troppo sicuro di sé per accettare il rafforzamento democratico del parlamento. “Per distruggere un avversario sacrificherebbero tutte le garanzie di difesa di tutti i cittadini, le loro stesse garanzie di difesa”. Così scriveva Antonio Gramsci sull’Avanti il 22 ottobre del 1917.
Giannizzeri e profughi, le minacce del Sultano
Sono passate tre settimane dalla notte del colpo di stato, dei carri armati sui ponti di Istanbul, del bombardamento del parlamento di Ankara, dei morti nelle strade. Il golpe fallito, la vittoria della piazza, il ritorno del capo e l’inizio di un nuovo incubo. In Turchia la punizione ai cospiratori assume la forma, o il pretesto, della feroce umiliante rivincita. Nei lunghi corridoi dei palazzi dei tribunali decine di persone si aggirano nella speranza di avere notizie dei familiari detenuti: sapere dove si trovano e conoscere le loro condizioni di salute. Voci di torture e maltrattamenti ai golpisti si susseguono da giorni. Erdogan, che era sul punto di essere deposto, ha perso il senso della realtà, della giustizia e del perdono. Il despota del Bosforo soffia sul fuoco della pena di morte e lancia minacce sibilline, allude sul terrorismo, è fuori dal perimetro europeo, persino Berlino è infastidita e non lo difende più, scaricandolo: “Non è il Papa”. Lui tuttavia non arretra, esagerando nelle elucubrazioni. Ribadisce sempre e solo la sua verità narrativa, l’unica che a suo dire esiste. E che tutti devono servilmente accettare. È l’eclisse totale della democrazia che avvolge anche il destino di milioni di profughi che si sono riversati nel paese dalla vicina Siria, nel corso degli ultimi cinque anni. La Turchia ospita 2,7 milioni di rifugiati. Molti hanno cercato di lasciare le coste dell’Anatolia per l’Europa, in troppi hanno perso la vita nelle acque del Mediterraneo. A Marzo dopo mesi, in cui Recep Tayyip Erdogan e il suo governo hanno ricattato le capitali europee con la scusante del caos dei rifugiati, la tecnoburocrazia di Bruxelles ha prodotto un impegno formale con la Turchia. Al tavolo delle lunghe e spinose trattative, condizionato dalle “pressioni” filo turche della Merkel, abbiamo perso la dignità, arrivando persino a monetizzare la vita dei profughi, salendo su un treno che non avremmo mai dovuto prendere. Un’intesa politico-commerciale che lasciò l’amaro in bocca: «Viola il diritto internazionale e quello dell’Unione europea». «È un ulteriore passo verso l’abisso della disumanità». Ammoniva Elisa Bacciotti direttrice delle campagne di Oxfam Italia. Alla vigilia del colpo di stato Erdogan aveva annunciato una proposta “audace” e “controversa”, offrire la cittadinanza ai rifugiati siriani, il 70% dei quali hanno un’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Potenziale bacino elettorale, la cui fedeltà per chi li ha “fraternamente” accolti è certa, o quasi. Quindi non solo manodopera sottopagata ma anche uno strumento di rafforzamento negli equilibri interni. L’ennesima trama politica del sultano di Istanbul che oggi torna a minacciarne l’esplosione, in modo criminale e premeditato. Sebbene i dati raccolti da Oxfam contestano il fantomatico scenario dell’invasione: I sei paesi più ricchi del mondo – Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito – accolgono un numero “misero” di richiedenti asilo, la cifra è il 9%. Mentre circa 12 milioni, pari al 50% del totale, hanno “invaso” stati che nel loro insieme non rappresentano nemmeno il 2% dell’economia globale: Giordania, Turchia, Libano, Sud Africa, Pakistan e Territori Palestinesi. Per quanto riguarda l’Italia, pur impegnata in prima linea con 134mila persone ospitate (0.6%), è lontanissima dalla Germania che ne ha accolto 736mila. È evidente che i paesi ricchi, numeri alla mano, non fanno abbastanza. Con grande soddisfazione di un sogghignante spavaldo Erdogan. La sfida è complessa e richiede una risposta coordinata, scevra da egoismi. Il prossimo appuntamento è a New York il 19 e 20 Settembre. Un summit che assume una valenza rilevante e dove nuovi assetti geopolitici si disegnano. Per quelle date le organizzazioni non governative propongono soluzioni efficaci: corridoi sicuri per i migranti, rispetto delle quote d’accoglienza, favorire i ricongiungimenti familiari, concedere visti umanitari e promuovere il reinsediamento dei più vulnerabili in un paese terzo.
FRIENDS
Il Sultano, lo Zar e il Cavaliere. Storie di amicizia, golpe, purghe, guerre, viaggi, bandane, colbacchi, fez, che hanno cambiato lo scacchiere politico internazionale. Fine Maggio 2002, Pratica Di Mare, vertice dei leader della Nato, viene adottata formalmente la Dichiarazione di Roma che dà vita al «Consiglio a venti» comprendente la Russia. È l’apoteosi, il punto più alto della politica estera berlusconiana. Agosto 2003. Istanbul. Il Cavaliere è nel Bosforo per fare da testimone alle nozze del figlio del “sultano” Erdogan. L’informalità del premier alla festa diventa notizia per la gaffe del baciamano alla sposa, musulmana. La galanteria del Cavaliere, eccessiva per l’occasione, non turba, tuttavia, l’umore dell’amico Erdogan. Il cambio d’inquilino alla Casa Bianca, un democratico “abbronzato”, la “liaison” tra la Merkel e Sarkozi, fatta di sguardi e sorrisi, segnano il de profundis internazionale del fondatore di Forza Italia. Aprile 2009. Baden Baden. Ennesimo gesto di scortesia diplomatica. Berlusconi scende dall’auto e invece di dirigersi verso l’accorrente Angela Merkel con passo veloce svicola in disparte con il cellulare all’orecchio. Dai gesti si capisce l’importanza della telefonata: è al telefono con Erdogan. Al centro dell’intenso colloquio il nodo del successore alla carica di segretario generale della Nato. Settembre 2015 nel pieno delle sanzioni europee alla Russia mentre le truppe del Cremlino affluiscono in Siria e nel Donbass, Berlusconi, appare in Crimea al fianco di Putin. Lo schiaffo del serafico Silvio alla diplomazia di Bruxelles è eloquente. L’indirizzo “eclettico” della politica estera di Silvio Berlusconi non è stato esente da pesanti e giustificate critiche. Indispettivano i comportamenti “eccentrici” e poco istituzionali dell’uomo di Arcore. Un vanto del Cavaliere erano le relazioni personali strettissime, vedi Gheddafi e Ben Ali, con capi di stato poco democratici e personaggi dalle smisurate manie di grandezza, come Mubarak. In un suo mondo ideale il Berlusconi statista prospettava alleanze asimmetriche a cui nessuno, per ovvie ragioni storiche e culturali, aveva mai pensato: Roma, Ankara e Mosca. Un asse geopolitico ed economico che agli inizi del nuovo millennio pareva in contrapposizione, in controcorrente, all’impianto dell’Unione europea, quasi una sua antitesi. Impossibile da immaginare fino ad oggi. Dopo il tentato golpe lo schema delle amicizie del Cavaliere prende corpo, le acque della diplomazia del Bosforo e gli assetti strategici globali si invertono, mettendo fine ad odi atavici e innata diffidenza. Lo Zar Putin ed il Sultano Erdogan si avvicinano, dove c’era stato il gelo più assoluto ora sboccia l’amicizia, l’erede di Stalin e quello di Ataturk promettono d’incontrarsi a breve. La memoria corre al 24 Novembre 2015, quando l’aviazione turca abbatteva un aereo russo. Putin minacciava ritorsioni: «Non solo sanzioni, Turchia si pentirà di quello che ha fatto». Pesanti le accuse mosse ad Ankara: «Aiutano i terroristi». Erdogan rispondeva alle critiche del Cremlino con lo stesso tono: «Nessuna scusa». Meno di un anno fa, ma pare un secolo. Un colpo di stato fallito, una repressione durissima e la lettura della storia cambia verità: i piloti che avevano abbattuto il jet russo acclamati eroi nazionali sono diventati traditori, posti in arresto e sotto inchiesta anche per l’episodio menzionato. Difficile trovare un segno di maggiore distensione tra i due, che hanno in comune il disprezzo per la libertà di stampa, per l’opposizione e i diritti delle minoranze. E una certa propensione ad “eliminare” i rivali con metodi sbrigativi e poco democratici. Gli amici del Cavaliere ancora una volta preoccupano l’Europa.
ERDOCRAZIA
Le armi hanno smesso di risuonare sulle rive del Bosforo. Il golpe è durato poco, è vero, la congiura ai danni di Recep Tayyp Erdogan è stata minoritaria, disorganizzata e scoordinata, ma come avviene sempre quando chi doveva essere cacciato riesce a salvarsi la punizione assume la forma, o il pretesto, della feroce rivincita. La linea dura della purga, scelta dal presidente turco e dai suoi fedelissimi, imbarazza il mondo. Preoccupa il persistente caos nel paese, la fase della caccia aperta alle streghe, ai nemici. Quale giudizio attende le centinaia di prigionieri seminudi con le manette ai polsi ammassati in ginocchio nei capannoni? C’è giustificata apprensione. La spirale repressiva del governo turco rischia di alterare la costituzione, la democrazia vacilla. L’introduzione della pena di morte, oramai alle porte, per punire i “traditori” insorti ed estirpare il “virus”, è una misura inaccettabile per lo Stato di diritto, non solo dell’Europa. Cesura ad ogni possibilità d’ingresso nella “casa” per la richiedente Turchia. La congiura ai danni del democraticamente eletto Erdogan è un atto grave, da sanare attraverso la riconciliazione e non con una vendicativa, e forse sommaria, pulizia. È la voce dei capi della diplomazia di USA e Europa. Calma e cautela sono invocati da Bruxelles. L’ambiziosa sfida politica lanciata recentemente da Erdogan di portare stabilità e “ordine” in Medioriente, riallacciando l’amicizia con Gerusalemme e arrivando a paventare un’apertura con Assad, è stata messa a dura prova da un manipolo di avventati militari che si sono fatti scudo della storia e della leadership di Ataturk. “Avvelenato dal suo stesso potere”. “Erdogan in questo momento è ancora più pericoloso di prima, è un dittatore”. È l’opinione di Can Dundar editorialista dissidente del quotidiano indipendente Cumhuriyet. Nelle recondite stanze del palazzo del sultano aleggia la paura, il sospetto. Dietro le quinte forze occulte orchestrano segretamente giochi di potere imprevedibili. E il “sovrano”, inaspettatamente, corre dal nemico di sempre: Mosca. Chiudendo maleducatamente la porta in faccia all’Europa. Una rottura per interessi strategici non coincidenti, verità storiche scomode e inconciliabili tra Vecchio Continente e la Sublime Porta, da una parte la storia dell’umanità e le sue tragedie, dall’altra il negazionismo, la presunzione nazionalista di essere comunque dalla parte della ragione. Invocare la pena di morte per i nemici cospiratori è abominevole quanto aver “cooperato” in questi mesi con il Califfato. Riporre le dovute attenzioni ai diritti umani è un dovere ineludibile per una completa democrazia. Pretendere il “rispetto” per minoranza curda, comunità LGBT, dissidenti politici, profughi e giornalisti è questione di civiltà. Non stiamo affrontando una disputa meramente terminologica, purtroppo. Culturalmente i pilastri fondanti del mito della Turchia moderna poggiano su un nazionalismo di matrice fortemente anti-egualitario che fondendosi con l’islamizzazione radicale rischia di portare il paese ad un’altra crisi interna, una pericolosa regressione. Non è un putsch la soluzione, non può esserlo, è un metodo sbagliato inequivocabilmente. La piazza ha difeso la democrazia da questo “scomposto” golpe ma l’identità turca è oggi troppo fragile, intollerante e violenta per essere inglobata in una casa dalle mura pericolanti e dal pavimento sconnesso quale l’Europa odierna. Finché Ankara e il suo governo non capiranno l’importanza di riconoscersi pienamente nel pensiero europeo gli spazi di manovra per il richiedente inquilino sono minimi, e la porta dell’Europa deve rimanere ben chiusa a chiave.
LA CONGIURA DEL BOSFORO
La Turchia è un paese difficile da interpretare per i continui shock. Il golpe che ha tenuto con il fiato sospeso una nazione, è fallito per due ragioni: la determinazione del popolo e il pressapochismo degli insorti. La congiura di palazzo è stata disorganizzata, male pianificata, al limite della bizzarria, quasi ridicola se non fosse per i morti e feriti. Il timore è che la repressione, già in atto, non sarà altrettanto impreparata e benevola con i nemici di Erdogan. In ogni modo questo evento sancisce la fine di un periodo storico per la Turchia moderna. Dalle cui ceneri nascerà una repubblica neo-kemalista religiosa in superficie ma interiormente laica oppure un sultanato post-kemalista impregnato di radicalismo? La risposta ce la darà il suo presidente Recep Tayyp Erdogan nei prossimi giorni. Innegabile che il politico nato sulle rive del Bosforo esce vittorioso agli occhi del suo popolo. Forte in patria ma indebolito se volesse dettare nuove regole d’ingaggio nelle relazioni con Europa e USA. L’identità turca è molto fragile e anche la sua componente democratica è pericolosamente sollecitata. La Turchia è un crocevia di giochi di potere internazionali, un suk dove non c’è partito preso ma puro realismo. Erdogan impersona questo pragmatismo in modo talmente teatrale da renderlo un personaggio discusso e ambiguo. Fautore di una linea diplomatica sfuggevole e variabile: finanzia Hamas apertamente e, in questi giorni, stringe un accordo storico con Netanyahu. Promette di costruire un ospedale, un desalinizzatore e una centrale elettrica a Gaza. E crea una joint venture con Gerusalemme per l’estrazione del gas. Chiede pubblicamente scusa a Putin per l’abbattimento del jet militare e, per la prima volta, apre a Bashar al Assad. Accusa la Casa Bianca di proteggere il mandante del golpe e usa toni offensivi nei confronti di Papa Francesco sulla questione del riconoscimento del genocidio armeno. Bombarda i curdi siriani. Promette vendette. Propone la cittadinanza ai profughi siriani e tratta sui fondi europei. Invoca la pena di morte per gli insorti e chiede di entrare nella casa Europa. È vittima del terrorismo curdo, di quello islamico e comunista. Nega civile “rispetto” per minoranza curda, comunità LGBT, dissidenti politici, profughi e giornalisti. Vince elezioni democratiche e agisce da Sultano della Sublime Porta. Intrattenere “rapporti” economici e militari con l’esercito del Califfato è stato moralmente, e giuridicamente, delinquenziale. Indiscutibilmente un errore che mette in luce i “mali profondi e oscuri” della sfida autoritaria di Erdogan. Alla fine degli anni ’70 il primo ministro britannico Margaret Thatcher commentava: “Se la Turchia abbandona il suo orientamento occidentale, una serie di disastrose conseguenze (militari) si abbatteranno sull’Occidente”. Allora però incombeva l’ultimo atto della Guerra Fredda, il nemico era l’armata rossa del regime di Mosca. Oggi il problema principale sono le frontiere geopolitiche di Ankara, cerniera tra Europa e Asia, tra Medioriente e Balcani. In mezzo secolo la Turchia è divenuta la seconda potenza militare della Nato, la più grande tra i paesi dell’Europa. I suoi soldati, migliaia, in questi anni hanno servito sotto la bandiera blu con la rosa dei venti. Hanno guidato la missione in Afghanistan: “Pace in patria, pace nel mondo” è il loro motto. Eroi nel mondo e traditori in patria, almeno quel minoritario gruppo che ha partecipato al coup: “Ristabilire l’ordine costituzionale” e “sicurezza generale” era scritto nel comunicato dei militari golpisti. Ma nelle strade di Istanbul la prospettiva dei nostalgici nipotini di Ataturk si è dissolta arrendendosi alla gente fedele al sultano. È forse l’inizio di un nuovo Impero Ottomano? Difficile da credere. Per meglio comprendere gli equilibri ci sarà da attendere che decantino, raffreddandosi, le tensioni di questi giorni. Allora si potrà guardare nella tazza di Erdogan osservandone attentamente i neri residui del caffè, in una lettura che al momento non promette nulla di buono.
RESPONSABILITA’ O UMILIAZIONE?
“No all’indifferenza” non si stanca di ripetere Papa Francesco ai fedeli. Questa volta però le parole d’accusa pronunciate dal pontefice durante la Messa nella domenica delle Palme hanno come destinatari le istituzioni europee: “ penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati dei quali tanti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino”. Parole pronunciate a braccio che segnano uno scollamento tra la Santa Sede e l’Ue. Piazza San Pietro non è le stanze di Bruxelles e sul sagrato non si plaude al nuovo piano sui migranti, al contrario la Chiesa di Roma alza la voce, la protesta. Ci aveva già pensato il segretario di stato cardinale Parolin, visitando un campo profughi in Macedonia, a tuonare contro l’accordo Europa-Turchia: “dovremmo sentire umiliante dover chiudere le porte, quasi che il diritto umanitario, conquista faticosa della nostra Europa, non trovi più posto”.
Ragioni e implicazioni invitavano a valutare attentamente le richieste turche. Alla fine tra i 28 leaders europei ha prevalso la linea di Berlino anche sull’accelerazione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue. Pesanti critiche sono state espresse, in queste ore, da parte di molte Ong che invocano a gran voce maggiore solidarietà e rispetto dei diritti umani: ad alimentare il dibattito l’opzione stilisticamente “burocratica” di Bruxelles del baratto “uno per uno” e un piano che realisticamente deve essere messo alla prova. Così come l’affidabilità e la maturità della Turchia di Erdogan. Intanto dalla Grecia arriva la notizia di altri sbarchi e soprattutto che Atene non è assolutamente pronta a rinviare in Turchia i migranti. Partenza con il piede sbagliato che evidenzia, ad ora, l’impossibilità europea ad offrire una soluzione umanitaria all’emergenza.
In cinque anni di guerra civile la Siria ha originato una massa di rifugiati impressionante, oltre quattro milioni sparsi lungo tutto i confini dei paesi del Mediterraneo. Un flusso continuo che si è riversato, in gran parte, negli stati confinanti: Turchia, Libano e Giordania. Circa il 4% dei rifugiati siriani invece ha intrapreso il viaggio verso l’Europa. Molti sono oggi accampati nelle tendopoli dei campi profughi, il resto ha scelto le periferie delle città del Medioriente, da Amman a Beirut. Dove illegalmente e pagati poco trovano lavoro come bassa manovalanza nel settore manifatturiero, privati di assistenza e senza l’aiuto internazionale. Marginalizzati e sfruttati. In contesti socio-abitativi insostenibili. La richiesta più volte espressa dall’ONU di fare il possibile per integrare i rifugiati nella società turca, libanese e giordana non ha ottenuto esito favorevole. Respinta da parte dei tre governi che hanno obiettato forti resistenze, esprimendo un giudizio caustico: i rifugiati sono un elemento di pericolosità per essere assorbiti, in contesti particolarmente fragili alle turbolenze etniche. Secondo le ultime stime sono 60 milioni nel mondo gli sfollati, uno su sei è siriano. Tra loro una larga presenza di giovani, istruiti e con specifiche competenze tecniche, una generazione intera. Non una minaccia alla sicurezza internazionale ma un nuovo potenziale mercato del lavoro in grado di generare opportunità e positive ricadute economiche, come accadde per i migranti europei alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per l’Unione Europea la crisi di Damasco è un bruciante fallimento su tutti i fronti, dalla gestione dei rifugiati alla stabilizzazione della regione. Il volume di persone che il persistere ancora per anni della crisi siriana potenzialmente potrebbe “sparpagliare” fuori dai suoi confini, indirizzandoli verso il Vecchio Continente, è considerevole. Il “panico e la paura” di veder arrivare una marea umana hanno convinto gli stati europei ad approvare il pacchetto di misure fortemente voluto da Erdogan, nell’ottica che la Turchia possa tamponare l’esodo dei migranti. Peccato che potrebbe, invece, continuare a bombardare i curdi.
CALIFFO E SULTANO IN LOTTA
In Turchia non c’è pace, il 2015 si è chiuso con un bilancio molto pesante, si sono susseguiti attentati e forti fibrillazioni politiche. Il 2016 si è aperto con un nuovo attentato nel quartiere culturale di Istanbul. La strage è un messaggio all’Occidente: il terrorismo fondamentalista vuole uccidere i turisti europei, danneggiando l’industria del viaggio. Ha colpito le spiagge della Tunisia e recentemente quelle di Hurghada. Dalla Francia al Maghreb ha versato sangue in teatri, ristoranti, musei e alberghi. Una scia di orrore che giunge fino alle sponde del Bosforo dove nella mattina di martedì un kamikaze di origine siriana si è fatto esplodere in piazza Sultanahmet a pochi metri dalla Moschea Blu e da Santa Sofia, lasciando sul selciato dove si erge l’obelisco di Teodosio una fila di cadaveri, quasi tutti di nazionalità tedesca. La strage al cuore della vecchia Bisanzio porta la firma dei miliziani del Califfato. La Turchia è una delle destinazioni turistiche più visitate del Mediterraneo, il fascino che emana Istanbul incanta ancor oggi i viaggiatori di tutto il mondo. Crocevia di storia e civiltà, dagli antichi Ittiti ai Romani, dall’Impero di Bisanzio a quello ottomano. Un paese moderno forgiato da un solo uomo Ataturk che alla fine della Prima Guerra mondiale, dalle macerie di un’impero multinazionale e multireligioso, ha costruito una nazione laica e protoccidentale. Quasi un secolo dopo l’identità della porta d’ingresso all’Europa è ancora sfuggente e contraddittoria. Un paese in bilico, fragile e conflittuale. Terra di passaggio per coloro che sono in fuga, ospita oltre due milioni di profughi. Ostinatamente rifiuta di ammettere le proprie responsabilità nei confronti dello sterminio degli armeni; continua ad opporsi strenuamente alla nascita di uno stato curdo; è “pesantemente compromessa” nella questione siriana, rappresentando una base logistica sicura per coloro che in Siria combattono nel nome del Califfato. Una relazione pericolosa quella tra Turchia e Stato Islamico che ha esposto il governo di Ankara a forti critiche e pressioni internazionali. Qualcosa però stava cambiando negli assetti geopolitici, pochi giorni fa la polizia turca aveva dichiarato di aver effettuato arresti ed espulsioni di simpatizzanti Isis provenienti dall’Europa, potenziali foreign fighters. E poi l’annuncio, meno di 24 ore prima dell’attentato di Istanbul, di aver scoperto una rete terroristica pronta a colpire su vasta scala le capitali del Vecchio Continente. Ebbene, esaminando gli episodi drammatici degli ultimi dodici mesi è evidente l’evoluzione strategica di un conflitto asimmetrico che l’intelligence non è in grado ancora di prevenire. Significativa la modalità d’azione eseguita negli attentati compiuti: meticolosa programmazione, indice di ricerca, preparazione nei dettagli e nel bersaglio da colpire. Non c’è improvvisazione in questa macchina della morte, ma fredda lucidità. È un salto di qualità del terrorismo islamico. L’obbiettivo finale è diffondere il caos. Non è la prima volta che l’Occidente è attraversato dal terrore, ideologie aberranti hanno reclutato, indottrinato, addestrato e mandato ad uccidere già altre volte. Tuttavia l’Isis ha consolidato in questi mesi la supremazia tra le organizzazioni terroristiche, è arrivata dove altri avevano in passato fallito: toglierci la tranquillità, infondere la paura generale. La guerra santa dell’Isis è globale, ma ha un fondamento politico e militare nell’area siro-irachena. La prossimità con la Turchia allarga il territorio dove girano liberamente i proseliti di Daesh e dove, tra le maglie dei migranti, sono reclutati terroristi per compiere missioni assegnate in altri paesi, inclusa l’Europa. Ecco, quindi, che il terrorismo islamico lega dinamiche regionali a effetti internazionali con risultati devastanti. Dietro a convergenze politiche, accordi da bazar, sfere d’influenza, c’è il disegno per imporre l’egemonia sul futuro Medioriente. Le ambizioni del “sultano” Erdogan di riaffermare il ruolo della Sublime Porta vacillano sotto le ambiguità dei misteri che lo legano al “califfo” Abu Bakr Al Baghdadi. Intanto nel Bosforo risuona la prima esplosione e domani rischiamo di dover commentare una nuova pagina di terrore.