In Terra Santa il mese di Agosto è stato caratterizzato da un clima di feroce intolleranza, l’ennesima escalation di violenza e terrorismo, nel nome del fondamentalismo più cupo. Lo scorso anno gli occhi del mondo erano puntati sulla orribile guerra di Gaza che volgeva al termine. Ad un anno esatto di distanza nella Striscia la vita scorre tra un blocco paralizzante, il dominio di Hamas, la paura di una nuova guerra, gli effetti mortali degli ordigni inesplosi e il lancio di razzi in Israele. Gaza 2015 è segnata dalle cicatrici della guerra, ferite che non si rimarginano, ma lasciano un segno fin troppo visibile. Nel 2020 Gaza sarà un posto non più vivibile e allora il problema sarà evacuare oltre 3 milioni di persone, questo secondo uno studio pubblicato recentemente. “Ad oggi è in atto una vera e propria emergenza idrica, senza precedenti, siamo al livello di carenza assoluta.” A parlare è Vincenzo Racalbuto direttore dell’ufficio per la cooperazione allo sviluppo a Gerusalemme (UTL), medico e una lunga esperienza in questo campo. Racalbuto è a capo di un team tecnico con uno staff che varia tra le 15 e le 20 persone: consulenti, espatriati e personale locale. “Mettiamo in pratica gli impegni che l’Italia ha preso.” Decine di milioni di euro in aiuti internazionali dell’Italia alla Palestina. La cooperazione allo sviluppo riveste una funzione centrale nell’elaborazione di riforme, processi e programmi per alleviare la povertà, sviluppare l’economia, migliorare i servizi sanitari e promuovere il dialogo tra i popoli: “Il coordinamento con gli altri donatori internazionali avviene su due livelli: uno è il cluster settoriale e l’altro è un coordinamento europeo tra i vertici della cooperazione. È uso incontrarsi ogni due settimane, l’obiettivo è raggiungere per l’inizio del 2017 una programmazione congiunta. È una bella sfida da realizzare.” Intanto a Gaza la macchina della ricostruzione manifesta una certa lentezza dovuta anche ad un processo di riconciliazione tra le due principali fazioni politiche palestinesi mai realmente avvenuto: Ramallah e Gaza sono lontane, non solo geograficamente. Dire che lo Stato della Palestina è diviso in due entità autonome e indipendenti è una mezza verità, la cartina della Cisgiordania è una mappa amorfa, una superficie senza continuità territoriale, con un muro di separazione che avvolge i grandi centri urbani palestinesi e li separa dalle aree denominate C, che in base agli accordi di Oslo sono sotto la completa autorità israeliana. Le comunità palestinesi in area C sono tra le più vulnerabili della West Bank. Demolizioni e sgomberi forzati privano le persone delle loro case e dei mezzi di sussistenza, creando un contesto di povertà radicata e una sempre maggiore dipendenza dagli aiuti. A partire dal 2008 la cooperazione italiana in collaborazione con il Ministero della Salute palestinese porta gli aiuti in tali zone con il progetto dal titolo “Miglioramento della qualità della vita delle fasce più vulnerabili della popolazione nell’area meridionale del Distretto di Hebron”. Stefania Caratti è a capo del progetto. È una cooperante italiana e lavora per la Ong Disvi. “L’obiettivo del nostro intervento è di offrire alla popolazione residente nell’area C servizi sanitari di base di cui erano totalmente privi.” I villaggi coperti dal progetto sono 19, i beneficiari diretti sono circa 30 mila. Il progetto utilizza tre cliniche mobili complete di personale sanitario palestinese e di attrezzature. In piccoli ambulatori o in tende, vengono erogate le cure sanitarie e farmacologiche: somministrando le vaccinazioni d’obbligo, eseguendo il controllo delle gravidanze anche con esami strumentali, fornendo le cure pediatriche, promuovendo l’educazione sanitaria. La Caratti racconta: “Osservare i disagi di questa popolazione è sempre molto doloroso, ma quello che mi ha veramente sconvolto è stato un episodio capitato recentemente. Mentre mi dirigevo ad un villaggio ho incontrato un convoglio di ruspe e mezzi militari. Erano di ritorno dalla distruzione di un poverissimo villaggio nel deserto. Avevano demolito tutto, rasando al suolo scuola, moschea, case e ambulatorio. Non potrò dimenticare i volti della gente. Erano seduti per terra ai bordi delle macerie, accanto i fagotti delle poche cose che avevano potuto salvare. Nei loro occhi si leggeva l’impotenza, l’umiliazione.” In questo quadro il sistema della cooperazione rappresenta un esperienza unica nel suo genere, non solo per le risorse economiche convogliate nei vari settori ma, soprattutto, per il suo volto umano atto a ridurre le sofferenze. Incontrando, conoscendo, parlando con i palestinesi si ha “la percezione di una popolazione che comunque sa sfruttare al meglio le poche risorse disponibili, che saprebbe creare migliaia di imprese, posti lavoro e sono sicuro che possono farcela.” La speranza di Racalbuto nasce dall’obiettivo della cooperazione ovvero creare una prospettiva di normalità per i palestinesi.
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I PREDATORI DELLA CULTURA
Inarrestabile lo scempio alla storia che compie impunemente e quotidianamente l’esercito del Califfato in Medioriente. Barbaramente in queste ore hanno raso al suolo il monastero di Mar Elian, in Siria. Poche ore dopo l’uccisione del più noto archeologo locale. È uno scenario di pura follia che si allarga a tutta la regione. Abbiamo contattato a Gerusalemme, dove lavora, Carla Benelli, storica dell’arte che da anni è impegnata in campagne di scavi e restauro in Terra Santa: “A 82 anni Khaled al-Asaad era l’archeologo siriano che più di tutti conosceva il sito di Palmira. Era in pensione ormai, dopo essere stato il direttore del sito archeologico per quaranta anni fino al 2003, ma continuava a studiare e promuovere il sito, frequentando conferenze internazionali e scrivendo articoli e pubblicazioni scientifiche. La sua uccisione brutale sembra confermare che l’Isis intende terrorizzare il personale che ancora lavora nei siti archeologici per conto del governo.” Lo stato del terrore allarga i propri confini, lambisce la Palestina. Miete nuove vittime nel nome di una ideologia aberrante. Sfregiando la storia nel tentativo di cancellarla per sempre. Le bandiere nere che sventolano sono il segnale della pulizia etnica culturale in corso, dove vengono issate al cielo è la fine. “È molto difficile valutare in queste condizioni i reali danni causati dalla guerra al patrimonio culturale siriano. C’è molta propaganda intorno alla questione, e non è possibile stimare con precisione e oggettivamente il livello dei danni in questo momento. Sembra però purtroppo confermato che siano ingenti.” Come chiarisce Carla Benelli siamo di fronte a crimini immani e la risposta per preservare, salvare, il patrimonio non è proporzionata alla violenza in atto. Eppure per anni proprio quei luoghi hanno visto padre Michele Piccirillo, archeologo francescano e biblista scomparso pochi anni fa, promuovere la tutela dei beni artistici in tutta la Terra Santa: “Come sempre molto del suo impegno era rivolto alla formazione del personale locale, proprio quel personale che in questo momento è sotto attacco. Non ci soffermiamo mai abbastanza a valutare la perdita enorme alle risorse umane oltre che materiali che questa guerra sta causando alla Siria. I ragazzi e le ragazze formate dai progetti sostenuti da padre Michele condividono con i connazionali una situazione di vita drammatica. Alcuni di loro sono dovuti fuggire all’estero, altri sono ancora in servizio e rischiano la vita ogni giorno, per cercare di proteggere un patrimonio dal valore immenso per tutta l’umanità.” Carla in qualità di assistente di padre Michele, ha preso parte a vari scavi, da Sebastia a Gerico, dal Monte Nebo a Damasco. Del team di padre Michele ha fatto parte anche Osama Hamdan, architetto palestinese e professore universitario, al quale abbiamo chiesto di commentare il rischio che incombe tragicamente sulla Palestina: “Il patrimonio architettonico palestinese è enorme, però negli ultimi anni subisce un attacco feroce e veloce. Sia i centri abitati che i villaggi sono in pericolo. Il nostro patrimonio appartiene a varie epoche, una stratificazione di civiltà dalle più antiche della regione fino al periodo ottomano. La maggior parte è in abbandono e a rischio di perdita. Purtroppo finora l’Autorità Palestinese non è riuscita a disegnare una strategia per salvare questo patrimonio. Non siamo nemmeno consapevoli della sua importanza, del suo valore storico e del ruolo fondamentale che potrebbe svolgere per salvaguardare la nostra comunità anche oggi. Se la situazione dovesse continuare in questo modo, potremmo perdere una grande parte del nostro patrimonio.” Per salvaguardare i beni storici in Siria è stato fatto troppo poco, praticamente nulla. Domani il bersaglio della furia dei predatori potrebbe diventare la Palestina, evitare che ciò accada è impedire un nuovo disastro, una catastrofe mondiale: “È necessario investire la massima attenzione sul settore, rafforzare le risorse umane, il rapporto con le comunità locali, vigilare sull’applicazione delle leggi internazionali, tenendo conto che la maggior parte dei reperti archeologici del Medioriente viene comprato da istituzioni e privati in Occidente. L’attacco dell’Isis al personale siriano va letto anche in questa ottica, l’indebolimento delle istituzioni locali permette al traffico internazionale di agire indisturbato. Fino a quando il traffico illecito di reperti archeologici, anche da parte dell’Isis, non viene bloccato a livello internazionale, sarà inutile scandalizzarsi e emettere comunicati di condanna.” La richiesta del sostegno internazionale è il grido di allarme per un Occidente sino ad oggi sordo e lontano.
INTERVISTA AL COLONO
La terra è arida sulle colline della Samaria. Qualche olivo pennella di verde la bianca pietraia che scende verso il vicino check point. Dalla collina su cui sorge l’insediamento di Kfar Tapuach si scorgono i palazzi e i minareti di Nablus. Camminiamo al fianco di Avraham, ci precede il suo gregge di capre. Siamo nel cuore della West Bank, tra le città di Ramallah e Jenin. È Palestina. Avraham si muove agilmente nel terreno scosceso, un bastone nella mano destra e una borsa di tela nella sinistra. È un uomo magrissimo, dalla pelle bruciata dal sole e dagli occhi chiarissimi incavati nel volto smunto. Una lunga barba grigia, ben curata. Indossa stivali marroni, un pantalone blu ed una maglietta verde. Sulla testa una grande kippah bianca scende a coprire le orecchie e i lunghi capelli bianchi. Avraham è ebreo e colono. La sua storia inizia lontano dalla Terra Santa. È nato e cresciuto a New York, nel quartiere di Brooklyn. Nella grande mela del dopoguerra e della leggenda di Frank Sinatra. Allora era un ragazzino introverso e magro che sognava di diventare un pilota di auto da corsa. Figlio della piccola borghesia americana e dalle radici ebraiche non avrebbe mai immaginato che pochi anni dopo il sogno si sarebbe realizzato. Ancora prima di compiere i vent’anni ecco Avraham sfrecciare lungo la strada che da New York porta a Miami, 2500 km in 17 ore non stop, a bordo di una potentissima 12 cilindri. Un caso del destino ha voluto che il giovane ragazzo entrasse nelle grazie di un miliardario newyorchese con la passione per le auto sportive. Avraham viene introdotto in un circolo ristretto, esclusivo e catapultato in giro per il mondo a guidare auto lussuose. Viaggia in Mexico. Giunge nel Vecchio Continente. A Londra gli affidano una rolls-royce da consegnare a Roma. È spesso a Parigi e in Costa Azzurra. Il ragazzo magro di Brooklyn indossa abiti firmati, frequenta i migliori ristoranti, rinomati alberghi e clubs in voga. Avraham assapora la dolce vita. Improvvisamente si accorge che qualcosa nel suo stile di vita è sbagliato. Sente il bisogno di scappare, di trovare delle certezze. Compra un biglietto di andata e ritorno e si imbarca in una nave da crociera. Due settimane di navigazione in transatlantico da New York al porto di Haifa. Sbarca in Israele per chiudere un capitolo della sua vita ed aprirne uno nuovo. Avraham abbraccia le sue radici culturali e religiose. Impara l’ebraico e studia la Torah: “Grazie all’aiuto di una famiglia di ebrei Yemeniti ho trovato la mia strada”. Il nuovo Avraham rifiuta la modernità, si concentra sulla spiritualità ed entra in contatto con la natura: “I Patriarchi erano pastori. Ho capito l’importanza di ripercorrere l’esperienza dei nostri antenati. Fare il pastore è vivere in completa armonia con Dio. Il creatore è il mio unico padrone ed io sono felice di essere suo servo devoto.” Il misticismo e la fuga dalla civiltà: “Il mondo Occidentale nega la libertà della gente. Le persone subiscono un continuo lavaggio del cervello. I centri urbani, le città sono la rovina della società, sono una vera e propria giungla. Dove gli uomini partecipano ad una continua competizione, una corsa di topi”. La rivoluzione spirituale di Avraham è totale. Smette di usare l’automobile e decide di spostarsi a piedi, aborra la televisione e tutte le comodità della società moderna: “I bambini oggi sono assuefatti dalla televisione, dai computers. Respirano aria inquinata. Mangiano cibi non salutari. Ho cresciuto i miei figli dandogli da bere del latte di capra fresco, sin dalla tenera età. In famiglia consumiamo solo olio d’oliva. E oggi guardo ai miei figli e vedo degli uomini e delle donne sani, nel corpo e nella mente.”
Avvolgiamo il nastro indietro nel tempo. Il giovane turista ebreo americano camminando lascia Gerusalemme per la Galilea. Sei giorni di viaggio. La sua idea fissa è diventare un pastore, ha saputo che alcuni ebrei sono dediti alla pastorizia in quella regione dove convivono con le comunità arabe: “Agli inizi i beduini mi hanno aiutato. Ho imparato molto da loro. Passavo le ore ad osservarli, a vedere come ci si doveva comportare con il bestiame. In quei giorni lontani avevo ottimi rapporti con i beduini”. Arrivano gli anni ’70, Avraham si sposa con una donna ebrea di origine Sefardita, vivono momenti di gioia nel nord d’Israele: “In Galilea avevamo tutto quello che ci occorreva, potevamo vivere liberi ed indipendenti”. Poi agli inizi del nuovo millennio la svolta. Avraham prende il suo gregge e si sposta in Samaria, segue le orme del figlio e si trasferisce in un insediamento nei pressi di Nablus, diventando egli stesso un colono: “La qualità del foraggio per gli animali è migliore che in Galilea. In Samaria l’erba è meno alta e verde ma è molto più nutriente”. È solo una banale scusa. In realtà Avraham sente il bisogno di tenere unita la famiglia, poco importa se questo significa diventare un colono.
La vita del pastore non è facile, in questo mestiere ci vuole tanta passione. Fare il pastore non è un hobby e nemmeno una scelta naif: “La mia è una vita semplice. Per raggiungere la piena libertà ciascuno deve entrare in rapporto con la terra, come fanno i pastori. Non posso spiegare quali sono i sentimenti, le mie emozioni per la natura, per gli animali. È qualcosa che deve essere vissuto ed interiorizzato. E per farlo devi dormire all’aperto sotto le stelle. Devi conoscere ogni sasso di questa terra. Devi sapere dove sono le sorgenti d’acqua. Dove trovare i pascoli migliori.” Le zone bibliche dell’antica Samaria e della Giudea coincidono oggi con i Territori Palestinesi della West Bank. La questione degli insediamenti ebraici in tali aeree è oggi oggetto di una controversia tra Israele e la Palestina, tra Israele e l’Unione Europea, tra Israele e il Mondo. Di fatto è un elemento critico nel processo di pace. E forse il più intricato da risolvere.
Il pensiero politico di Avraham è un misto di tutto, con qualche provocazione di troppo: “Uno stato palestinese già esiste e si chiama Giordania. Quella è la terra dei palestinesi. Io non credo nel processo di pace. I politici sono persone arroganti e non comprendono i bisogni delle persone. Non vivono in mezzo a noi. Non capiscono che non dobbiamo sederci al tavolo con i Palestinesi. La Linea Verde non esiste, almeno per me”. Nel 2000 Avraham ha perso una figlia, assassinata in un assalto stradale compiuto da militanti palestinesi. L’auto su cui viaggiava insieme al marito e alla figlia è stata crivellata di colpi, la bambina a bordo scampò all’attentato e oggi vive con i nonni. Pochi anni fa, durante la transumanza verso l’insediamento di Migron, alcuni palestinesi hanno rubato il suo gregge. Oltre 400 capi spariti in poche ore. Vani i tentativi di ritrovare il bestiame. Persino i servizi segreti israeliani si sono attivati ma senza risultati. Secondo Avraham non c’è possibilità di dialogo con l’altro, c’è solo un muro sempre più alto: “In passato andavo al pascolo con un fucile mitragliatore Uzi. Era troppo pesante. Ingombrante. Oggi porto con me sempre un coltello. Devi essere sempre armato, è per la tua incolumità. Siamo circondati da nemici che vorrebbero spazzarci via. E mentre io rischio la mia vita tutti i giorni il nostro Primo Ministro libera terroristi palestinesi, assassini”. Avraham contro tutti, contro gli arabi, contro l’Occidente, contro il suo governo, contro la sinistra sionista israeliana e persino contro i religiosi ortodossi: “È grazie all’amore per la lingua ebraica che ho riscoperto le mie radici, l’infinita sapienza dei nostri antenati e la loro immutabile verità. Ed è stato doloroso scoprire che la comunità Ashkenazita ha assorbito, deformandosi, le influenze culturali e linguistiche Europee. E se travisi l’ebraico, fraintendi automaticamente anche la Bibbia.” Avraham non accetta che agli ortodossi sia consentito di non lavorare, di non adempiere al servizio militare, di ricevere un cospicuo vitalizio: “non puoi ricevere soldi perché studi la Torah. Devi lavorare come tutti. Il loro atteggiamento è peccaminoso”.
È Avraham a entrare nel merito di un eventuale nuovo conflitto, in Medio Oriente parlare di guerra è all’ordine del giorno, delle cose, delle idee più disparate e pazzesche: “Se ci sarà una guerra con i Paesi arabi, con la Siria o l’Iran queste colline sono il posto più sicuro per gli israeliani. Netanyahu dovrebbe preparare un piano di evacuazione dalle città e portare su queste terre la nostra gente”.
È il tramonto. Avraham slega e srotola dalla cintura dei pantaloni una lunga fionda artigianale. Soppesa i sassi e osserva la forma più idonea. Con un movimento rapido lancia le pietre ad una trentina di metri. Non è bravo come il re Davide, ma non c’è Golia da affrontare. Avraham chiama con un ordine perentorio il suo fido cane, un pastore belga di quattro anni. In pochi secondi il cane riunisce il piccolo gregge intorno ad Avraham che sbatacchia i rami di un olivo. Le foglie cadono a terra e le capre si avventano per mangiarle, avvolgendo il loro padrone. Intanto in cielo compaiono le prime stelle. Avraham estrae dalla borsa quel che resta di un vecchio libro, non c’è rilegatura a tenere unite le pagine consumate, i fogli stampati in ebraico sono del libro della Genesi. Il pastore legge a voce alta, canta e invoca un’ancestrale preghiera a Dio. È tempo di lasciare Avraham da solo a riflettere con i suoi pensieri, meditare con la sua anima.
AGOSTO FEROCE
La Terra Santa sotto shock. In poche ore due crimini assurdi hanno sconvolto il mondo. Shira e Ali, la prima 17 anni e israeliana, il secondo 18 mesi e palestinese, entrambi vittime dell’intolleranza e del fondamentalismo. La giovane ragazza pugnalata da un ortodosso al gay pride di Gerusalemme. Mentre il bambino è stato arso vivo nella propria casa in un attacco di nazionalisti israeliani. Di qua e di là dal muro si piange, stesse lacrime, stesso orrore. Il Medioriente sprofonda ancora una volta in un abisso di disumanità. In Israele il governo di destra formato da Netanyahu è ad un bivio: tolleranza zero nel combattere il terrorismo interno o accettare le richieste del movimento dei coloni, piegarsi all’intransigenza della religione o mantenere la laicità dello stato. Nell’Agosto 2005 Sharon attuava il piano di disimpegno unilaterale degli israeliani da Gaza. Evacuando dalla Striscia qualche migliaia di coloni e smantellando gli insediamenti. Furono giorni di tensione. In alcuni casi l’esercito e la polizia intervennero con la forza per sgomberare i manifestanti che si erano barricati rifiutando di lasciare Gaza. Dieci anni dopo la questione dei coloni israeliani è tornata prepotentemente alla cronaca. Recenti statistiche annoverano che il numero degli israeliani che risiedono oltre la Linea Verde è intorno alle 450 mila unità. I coloni godono di fatto degli stessi diritti dei cittadini israeliani: totale libertà di movimento, di parola, partecipazione alle elezioni nazionali, sicurezza sociale, sistema sanitario etc etc. A partire dagli anni ’80 i vari governi israeliani hanno utilizzato la molla della crisi degli alloggi per favorire l’espansione delle colonie. Migliaia di giovani coppie, con basso reddito, hanno trovato casa ad un prezzo abbordabile negli insediamenti. Tuttavia solo il 40% motiva la legittimazione a vivere in quelle terre sul concetto di Eretz Israel, secondo cui quel lembo di terra sarebbe stato un dono offerto da Dio ai discendenti di Abramo e Mosè, e che quel vincolo sacro è tutt’oggi in essere. Le zone bibliche dell’antica Samaria e della Giudea coincidono oggi con i Territori Palestinesi Occupati della West Bank, dove, in base agli Accordi di Oslo, è in vigore una divisione per aree: A, B e C. Le colonie sono nelle aree denominate C, sotto il completo controllo israeliano. La questione degli insediamenti ebraici in tali aeree è oggetto di una controversia internazionale, di fatto è un elemento critico nel processo di pace. E forse il più intricato da risolvere. “La Linea Verde non esiste, almeno per me. Uno stato palestinese c’è e si chiama Giordania. Quella è la terra dei palestinesi. Io non credo nel processo di pace. I politici sono persone arroganti e non comprendono i bisogni delle persone. Non vivono in mezzo a noi. Non capiscono che non dobbiamo sederci al tavolo con i Palestinesi.” Questa la testimonianza raccolta in un insediamento sulle colline alle porte di Nablus, nel cuore della Palestina. A parlare è Avraham, un colono. Israele è oggi un microcosmo fatto di tanti pianeti che muovono verso la collisione. A riguardo abbiamo ascoltato la “profezia” del rabbino Yuval Cherlow, religioso “moderato”, impegnato contro il settarismo e l’omofobia. “La società israeliana deve oggi creare o aggiungere un nuovo elemento di solidarietà; deve decidere la propria identità rispetto a tutti gli elementi che la compongono. Questo pericolo può seriamente minare la sua futura esistenza e la leadership politica, ideologica e intellettuale, educativa, deve assolutamente investire in questa ricerca così vitale per il suo futuro.”
IL PONTE DEGLI ENTI LOCALI PER LA PALESTINA
È iniziato con un convegno all’Università di Tel Aviv il viaggio di Matteo Renzi in Terra Santa, due giorni di Medioriente per il presidente del consiglio. Doppia visita, Israele e Palestina. Sul fronte israeliano per confermare e garantire la profonda amicizia, a partire dalle idee, le start-up che vedono i nostri paesi impegnati in progetti commerciali ed economici innovativi. Al presidente palestinese invece il premier italiano recapita i risultati della solidarietà italiana, la serietà di anni di cooperazione, l’impegno profuso dalle istituzioni e dalla nostra società in favore del popolo palestinese. Uno di questi legami concreti, forse il meno noto ma tra i più rilevanti, è un programma di cooperazione decentrata degli enti locali italiani promosso dalla Direzione Generale Mediterraneo e Medio Oriente del Ministero degli Esteri. Un grande esempio di cooperazione dal basso alla soglia dei dieci anni di attività. Un fondo di 25 milioni di € messo a disposizione del governo di Ramallah nel dicembre 2005. Mentre Hamas vinceva le elezioni politiche in tutta la Palestina l’Italia “congelava” temporaneamente gli aiuti. La formazione di vari esecutivi di coalizione nazionale, tra le principali forze di Hamas e Fatah, ma soprattutto le garanzie del presidente palestinese Abu Mazen hanno ben presto permesso al programma rinominato PMSP (Programma di Supporto alle Municipalità Palestinesi) di entrare in operatività. Nel periodo 2006-2015 sono stati formalizzati partenariati fra 59 Enti locali Italiani (Regioni, Provincie e Comuni) e 28 Enti locali palestinesi; approvati e finanziati 76 progetti per un importo complessivo di 30.946.093 euro, di cui 22.056.332 euro (71%) quale cofinanziamento del PMSP e 8.889.761 euro (29%) a carico degli Enti locali italiani e palestinesi. Il programma è implementato da una task unit che opera in loco con l’ausilio di personale italiano e palestinese, in stretta collaborazione con il portavoce degli enti locali, Paolo Ricci. I settori prioritari d’intervento di sostegno agli Enti locali palestinesi sono i seguenti: promozione di attività di Capacity Building; gestione delle risorse idriche e smaltimento delle acque reflue; gestione della raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani e speciali; tutela e valorizzazione dei Beni culturali, con particolare attenzione al sostegno del turismo sostenibile; promozione di attività sociali; sviluppo economico locale; sostegno alla produzione d’energia da fonti rinnovabili. Elemento centrale e innovativo, valore aggiunto, di questo programma è la sinergia tra enti locali, nell’ottica di una cooperazione decentrata che produca ampie ricadute per i beneficiari, per i servizi al cittadino e nelle relazioni people to people tra la sponda Nord e quella Sud del Mediterraneo. L’obiettivo è andare oltre il semplice rapporto di protocollo dei molti gemellaggi tra gli enti locali italiani e quelli palestinesi. Una strategia d’intervento condivisa dal Governo italiano per mano del Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme, che di fatto è stato il vero promotore di questa iniziativa. La lista degli enti locali che hanno aderito al programma è lunga, tra loro la Regione Lombardia, l’Umbria, l’Emilia e Romagna, la Puglia e la Toscana. I comuni di Milano, Firenze, Genova, Reggio Emilia, Vicenza, Arezzo e Torino. Le province di Cagliari, Napoli e Pisa. Mentre le realtà palestinesi coinvolte sono: Betlemme, Gerico, Tulkarem, Sebastya, Battir, Beit Sahour, Hebron e ovviamente Gerusalemme Est. Tra i vari progetti già realizzati o attualmente in corso d’opera: il restauro della Chiesa di tutte le Nazioni al Getsemani; un impianto di pannelli fotovoltaici che fornirà energia elettrica al complesso scolastico di El Zaitoun di Gaza; l’apertura di strutture ricettive di base (Guest House) nei principali centri storici palestinesi; servizi di riabilitazione per persone con disabilità, una scuola di lingua italiana, un progetto pilota per la raccolta, il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti speciali di origine ospedaliera; le attività culturali del Museo di Arti e Tradizioni palestinesi Dar Al-Tifl e l’elaborazione dello Studio di fattibilità per la realizzazione di un Parco Scientifico e Tecnologico a Hebron. Molti migranti che tentano di arrivare in Europa sono di origine palestinese, l’incremento negli ultimi anni è stato esponenziale. Anche per loro la fuga da un dramma quotidiano di guerra, violenza e povertà. La coscienza invita ad un maggiore impegno di tutti per la salvaguardia della vita umana. Le necessità sono interventi per la creazione di posti di lavoro e una maggiore sicurezza sociale nelle zone da cui provengono i migranti. “Per ottenere un tale risultato è necessario investire nella cooperazione, e nei prossimi tre anni assisteremo a grandi cambiamenti in questo senso.” La promessa del Governo italiano.
Francesco in Terra Santa, un anno dopo
È trascorso un anno da quando, il 25 maggio 2014, Francesco, Papa della Chiesa Cattolica e Vescovo di Roma, giungeva a Gerusalemme. Il primo passo sul Monte degli Ulivi, scendendo dall’elicottero militare con la bandiera di Davide che l’aveva imbarcato a Tel Aviv. La visita della città Santa era la parte conclusiva del suo pellegrinaggio: intenso e storico. Il giorno precedente aveva fatto tappa in Giordania: la messa nello stadio di Amman, la preghiera sulle rive del fiume Giordano e l’incontro con le comunità arabe cristiane a Betania. Nella mattina del 25 è in Palestina a Betlemme, celebra messa nella Piazza della Mangiatoia e poi, lontano dalle telecamere, scende nella grotta della Natività. Quello stesso giorno, nel tardo pomeriggio, l’incontro storico con il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. In serata è al Santo Sepolcro. Il mattino seguente invece cammina nella Spianata delle Moschee. Depone una busta nella fessura delle pietre al Muro del Pianto. Abbraccia in segno d’amicizia il rabbino Skorka e il Mufti Abboud. Incontra in sinagoga il Gran Rabbinato di Israele. E infine celebra la messa nel Cenacolo, prima d’intraprendere il viaggio di ritorno a Roma. “L’ecumenismo è stato il cuore della visita del Papa”, ha commentato Marie-Armelle Beaulieu, redattrice del magazine Terre Sainte nel suo ultimo editoriale, nel quale prosegue: “Ogni fatto e gesto del Papa in Terra Santa è stato interpretato come politico. Anche quando il Papa ha insistito sul carattere strettamente religioso del suo pellegrinaggio”. Marie-Armelle è una cara amica che molto ci ha aiutato nella realizzazione del nostro instant book “Francesco in Terra Santa”. Marie-Armelle, che abbiamo sentito in questi giorni per rivivere quei giorni intensi di un anno fa, ha fatto parte della Commissione per la comunicazione del pellegrinaggio pontificio. Seguendolo passo dopo passo, gesto dopo gesto: “Il Papa ha invitato a costruire la pace come un progetto spirituale”. I gesti di Francesco non sono casuali, sia che rientrino nell’ambito religioso che in quello più strettamente “politico”. Ciascun atto compiuto in Terra Santa è stato un chiaro messaggio a fedeli e non fedeli. In Giordania ha lodato la monarchia Hashemita che offre accoglienza a milioni di rifugiati. In Palestina ha parlato a lungo di dialogo con il presidente palestinese. A Betlemme si è fermato in preghiera al Muro di separazione tra palestinesi ed israeliani. Ha incontrato i giovani dei campi profughi palestinesi. Sul Monte Herzl ha reso omaggio al memoriale delle vittime del terrorismo. Nella sala della Rimembranza ha rinvigorito la fiamma della memoria delle vittime della Shoa. Ha zappato e piantato un ulivo nella residenza del presidente israeliano Shimon Peres. E un altro albero “romano” ha posto anche nell’orto del Getsemani. Pochi giorni dopo nei giardini Vaticani ha compiuto lo stesso gesto insieme a Peres e Abu Mazen, ancora ulivi della pace, della speranza di pace: “Se il Papa ha piantato degli olivi questo non è perché il Santo Padre ama il giardinaggio. Ma perché l’olivo è un simbolo di pace, longevità e di “lentezza”. Prima di gustare il frutto di questo albero, bisogna avere pazienza. Francesco ha piantato in Terra Santa qualcosa nel cuore di ciascun cristiano. E la maturità di questo frutto arriverà a suo tempo. Intanto bisognerà dare molte cure a questo albero affinché ci dia i suoi prodotti migliori. Respingendo le minacce che già ci sono. Infatti, dopo le ripetute invocazioni alla pace abbiamo assistito ad un ritorno di violenza cieca e intollerabile. Ora è più urgente che mai comprendere quella conversione a cui il Pontefice ci invita”. Abraham Yehoshua, il famoso scrittore israeliano, proprio lo scorso anno, alla vigilia dell’arrivo di Francesco in Terra Santa, da noi intervistato disse: “Il suo comportamento popolare, informale, sembra proprio quello che ci vuole per riavvicinare il mondo cattolico alla propria Chiesa.” Il viaggio di Francesco in Terra Santa dal 24 al 26 maggio 2014 è stato un pellegrinaggio “ordinario”, in perfetta modalità Bergoglio.
VATICANO E OLP ACCORDO GLOBALE
La mattina del 25 maggio 2014 Papa Francesco concludeva l’incontro ufficiale con il presidente palestinese Abu Mazen, Betlemme era in festa per il pellegrinaggio del Santo Padre in Terra Santa. La vettura con a bordo Francesco muoveva in direzione della piazza della Mangiatoia dove erano ad attenderlo migliaia di fedeli. Durante il tragitto inaspettatamente Francesco fece fermare la sua auto, scese dalla vettura e a piedi raggiunse il muro di separazione tra israeliani e palestinesi. Toccò il blocco di cemento della barriera dove compariva una scritta rossa inneggiante alla Palestina libera, appoggiò la testa e pregò in silenzio per alcuni minuti. Il mondo incredulo assistette ad un gesto significativo. Un anno dopo a Roma Francesco suggella un altro passaggio storico, l’accordo globale del Vaticano con l’OLP. Un trattato riguardante libertà religiosa, giurisdizione, luoghi di culto, attività sociale e caritativa, questione fiscale. Sono norme e principi che regolamenteranno i rapporti tra il Vaticano e lo Stato della Palestina nei prossimi anni. Fonti governative israeliane e alcune personalità italiane esprimono delusione per il riconoscimento da parte del Vaticano dell’esistenza dello Stato palestinese, che il trattato de iure implica, ma questo è un atto, come espresso dalla Santa Sede, formalmente dovuto dopo la risoluzione adottata nel 2012 dall’Assemblea Generale dell’ONU per il riconoscimento della Palestina quale Stato Osservatore. Tutto questo avviene, e non è un caso, mentre in Palestina si ricorda la Nakba (grande catastrofe in arabo), quando nel 1948 l’esercito israeliano espulse gran parte dei palestinesi dai propri villaggi e dalle loro case. La Nakba è un episodio come scrisse una volta l’attivista pacifista Amaya Galil che “non è solo la memoria e la storia della Palestina, ma è un evento che fa parte della mia memoria ed identità collettiva ed individuale in quanto israeliana”. Lo scorso anno Francesco durante l’incontro con i giovani del campo profughi di Dheisheh a Betlemme, discendenti degli esuli del ’48, aveva pronunciato queste parole: “Non lasciate mai che il passato vi condizioni la vita. Guardate avanti!” Nakba e riconoscimento della Palestina sono due questioni aperte, irrisolte: la prima non ha portato alla seconda, la seconda, se e quando avverrà, dovrà accettare la prima come un capitolo chiuso. Oltre alla rinuncia palestinese di eventuali pretese pesa su tutto il veto di Israele, apertamente critico sul riconoscimento unilaterale della Palestina da parte di molti Paesi. In tal senso in Europa si sono già espressi Gran Bretagna, Francia e Spagna per citarne solo alcuni. La Germania è contraria, mentre l’Italia tentenna. Il nostro Parlamento ha approvato pochi mesi fa una doppia risoluzione sul riconoscimento della Palestina, sancendo con due voti discordanti e ambivalenti il “riconoscimento con preclusione”. Un modo tutto italiano per confermare che la soluzione “due stati due popoli” e’ sempre attuale. Casualità o meno nei giorni della Nakba il presidente “dimezzato” del popolo palestinese in visita a Roma dall’amico Francesco ha sentito sicuramente ripetere che “ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni.”
LA CAMPAGNA ELETTORALE PER LA KNESSET APPRODA AL CONGRESSO DI OBAMA
Nei giorni scorsi il Congresso americano ha dichiarato amore incondizionato al leader israeliano Benjiamin Netanyahu. Una dimostrazione d’affetto smisurata, ben oltre i solidi legami storici tra i due paesi: un gesto d’amore incurante di rompere i protocolli diplomatici della Casa Bianca, persino sgarbato e offensivo nei confronti del Presidente Barack Obama. Invitato a Washington dai repubblicani e boicottato dai democratici, non tutti, il Primo Ministro ha tenuto, la scorsa settimana, un lungo discorso ai membri del congresso statunitense riuniti in seduta congiunta. Nell’aula dell’organo legislativo più importante al mondo Netanyahu è stato accolto calorosamente, osannato, coperto da applausi e da standing ovation. Il succo del suo lungo discorso era la minaccia iraniana e l’accordo sul nucleare. L’obiettivo era frenare la trattativa in corso in queste ore. Alzare un polverone su Teheran. Mettere l’amministrazione Obama in un angolo. C’è riuscito. Grazie a quello che molti hanno definito il discorso perfetto, un monologo teatrale recitato convintamente e appassionato, proprio come piace alla platea anglosassone. Ha parlato di terrorismo, di bomba atomica, di geopolitica nella regione e di nazionalismo, sia ebraico che statunitense. Ha giocato le carte anche quelle più ovvie e quelle politicamente più scorrette. Ha paventato di raccontare i segreti di Obama. Non ha tralasciato di lanciare l’accusa di antisemitismo all’Ayatollah, per un suo tweet. Ha sapientemente scaldato gli animi della platea facendo rullare i tamburi di guerra: “ … anche se Israele dovesse restare solo noi non ci piegheremo. Ma so che Israele non è da solo. So che voi siete con Israele.” E ha concluso il suo intervento con tanto di citazione biblica. Il sermone di Netanyahu, che ha convinto gli americani non ha tuttavia avuto l’effetto sperato in patria: convincere l’elettorato israeliano. Le reazioni della stampa israeliana sono state negative e le critiche pesanti: chutzpa. Insolente. Arrogante. Alla fine i sondaggi, ad una settimana dal voto non hanno portato nulla di più, il viaggio americano non ha avuto l’effetto sperato. La coalizione di centrosinistra mantiene di qualche punto il primato. Il piccolo divario è stabile e solido. Dopo aver pestato i calli a Obama e a metà dei capi di stato europei al falco della politica israeliana non resta altro da inventarsi in questa campagna elettorale. Dove è stato costretto ad inseguire gli avversari. Dove si è procurato nemici su nemici. Dove ha perso credibilità. Nel tentativo di recuperare voti e consenso Netanyahu ha buttato acqua sul fuoco del dibattito tra sionismo e post sionismo, ha posto al centro della questione il ruolo d’Israele per gli ebrei nel mondo: “Israele è la casa di tutti gli ebrei.” E poi ha pronunciato un accorato invito agli ebrei ad una migrazione in massa verso le coste meridionali del Mediterraneo. Il no all’appello di Netanyahu è stato ripetuto con forza a più livelli. Le dichiarazioni del leader israeliano lasciano tuttavia ampio spazio alle interpretazioni. E’ innegabile che al momento in Europa il livello di guardia è stato superato, il fondamentalismo islamico ha lanciato la sua guerra santa al cuore del continente. Attacchi terroristici, profanazione di luoghi di culto, attentati alla stampa. Gli ebrei, ma non solo, sono purtroppo vittime del neo fanatismo islamico. In questo contesto l’invito lanciato da Gerusalemme a migrare in Terra Santa suona come un mantra per esorcizzare la paura e non una vera e propria strategia, lo stesso ragionamento vale per il nucleare iraniano. Il problema è che al momento non solo le comunità ebraiche ma tutti noi abbiamo la stessa paura e dobbiamo affrontare il medesimo pericolo. Per questo il messaggio di Netanyahu è in realtà fuorviante: lascia adito all’idea che l’unica alternativa possibile alla crisi attuale sia “fuggire” in un altro luogo, lontano da Parigi o Londra. Inoltre, le parole di Netanyahu introducono nella discussione il concetto che l’Europa non appartiene agli ebrei. Una tesi che è un falso storico, una bugia dalle gambe corte e pericolosa. Non ci può essere futuro per l’Europa senza la presenza ebraica, è nei fondamenti della nostra società e cultura. Molti di noi forse ignorano di aver avuto antenati israeliti, in ebraico sono chiamati anusim. Nello scorso secolo gli ebrei europei che non seguivano l’ortodossia dei dettami religiosi erano identificati come assimilati. Oggi, nell’era della globalizzazione parlare di assimilazione è un controsenso, alla stregua della definizione di razza. Insomma, l’appello di Netanyahu non risponde alle esigenze e necessità del momento, è pura propaganda elettorale. E soprattutto non indica la prospettiva di un percorso di pace con i palestinesi, non chiarisce il modus operandi per una soluzione politica che stabilizzi la regione e che resta il principale problema irrisolto di questo secolo.