INTERVISTA AL COLONO

La terra è arida sulle colline della Samaria. Qualche olivo pennella di verde la bianca pietraia che scende verso il vicino check point. Dalla collina su cui sorge l’insediamento di Kfar Tapuach si scorgono i palazzi e i minareti di Nablus. Camminiamo al fianco di Avraham, ci precede il suo gregge di capre. Siamo nel cuore della West Bank, tra le città di Ramallah e Jenin. È Palestina. Avraham si muove agilmente nel terreno scosceso, un bastone nella mano destra e una borsa di tela nella sinistra. È un uomo magrissimo, dalla pelle bruciata dal sole e dagli occhi chiarissimi incavati nel volto smunto. Una lunga barba grigia, ben curata. Indossa stivali marroni, un pantalone blu ed una maglietta verde. Sulla testa una grande kippah bianca scende a coprire le orecchie e i lunghi capelli bianchi. Avraham è ebreo e colono. La sua storia inizia lontano dalla Terra Santa. È nato e cresciuto a New York, nel quartiere di Brooklyn. Nella grande mela del dopoguerra e della leggenda di Frank Sinatra. Allora era un ragazzino introverso e magro che sognava di diventare un pilota di auto da corsa. Figlio della piccola borghesia americana e dalle radici ebraiche non avrebbe mai immaginato che pochi anni dopo il sogno si sarebbe realizzato. Ancora prima di compiere i vent’anni ecco Avraham sfrecciare lungo la strada che da New York porta a Miami, 2500 km in 17 ore non stop, a bordo di una potentissima 12 cilindri. Un caso del destino ha voluto che il giovane ragazzo entrasse nelle grazie di un miliardario newyorchese con la passione per le auto sportive. Avraham viene introdotto in un circolo ristretto, esclusivo e catapultato in giro per il mondo a guidare auto lussuose. Viaggia in Mexico. Giunge nel Vecchio Continente. A Londra gli affidano una rolls-royce da consegnare a Roma. È spesso a Parigi e in Costa Azzurra. Il ragazzo magro di Brooklyn indossa abiti firmati, frequenta i migliori ristoranti, rinomati alberghi e clubs in voga. Avraham assapora la dolce vita. Improvvisamente si accorge che qualcosa nel suo stile di vita è sbagliato. Sente il bisogno di scappare, di trovare delle certezze. Compra un biglietto di andata e ritorno e si imbarca in una nave da crociera. Due settimane di navigazione in transatlantico da New York al porto di Haifa. Sbarca in Israele per chiudere un capitolo della sua vita ed aprirne uno nuovo. Avraham abbraccia le sue radici culturali e religiose. Impara l’ebraico e studia la Torah: “Grazie all’aiuto di una famiglia di ebrei Yemeniti ho trovato la mia strada”. Il nuovo Avraham rifiuta la modernità, si concentra sulla spiritualità ed entra in contatto con la natura: “I Patriarchi erano pastori. Ho capito l’importanza di ripercorrere l’esperienza dei nostri antenati. Fare il pastore è vivere in completa armonia con Dio. Il creatore è il mio unico padrone ed io sono felice di essere suo servo devoto.” Il misticismo e la fuga dalla civiltà: “Il mondo Occidentale nega la libertà della gente. Le persone subiscono un continuo lavaggio del cervello. I centri urbani, le città sono la rovina della società, sono una vera e propria giungla. Dove gli uomini partecipano ad una continua competizione, una corsa di topi”. La rivoluzione spirituale di Avraham è totale. Smette di usare l’automobile e decide di spostarsi a piedi, aborra la televisione e tutte le comodità della società moderna: “I bambini oggi sono assuefatti dalla televisione, dai computers. Respirano aria inquinata. Mangiano cibi non salutari. Ho cresciuto i miei figli dandogli da bere del latte di capra fresco, sin dalla tenera età. In famiglia consumiamo solo olio d’oliva. E oggi guardo ai miei figli e vedo degli uomini e delle donne sani, nel corpo e nella mente.”

Avvolgiamo il nastro indietro nel tempo. Il giovane turista ebreo americano camminando lascia Gerusalemme per la Galilea. Sei giorni di viaggio. La sua idea fissa è diventare un pastore, ha saputo che alcuni ebrei sono dediti alla pastorizia in quella regione dove convivono con le comunità arabe: “Agli inizi i beduini mi hanno aiutato. Ho imparato molto da loro. Passavo le ore ad osservarli, a vedere come ci si doveva comportare con il bestiame. In quei giorni lontani avevo ottimi rapporti con i beduini”. Arrivano gli anni ’70, Avraham si sposa con una donna ebrea di origine Sefardita, vivono momenti di gioia nel nord d’Israele: “In Galilea avevamo tutto quello che ci occorreva, potevamo vivere liberi ed indipendenti”. Poi agli inizi del nuovo millennio la svolta. Avraham prende il suo gregge e si sposta in Samaria, segue le orme del figlio e si trasferisce in un insediamento nei pressi di Nablus, diventando egli stesso un colono: “La qualità del foraggio per gli animali è migliore che in Galilea. In Samaria l’erba è meno alta e verde ma è molto più nutriente”. È solo una banale scusa. In realtà Avraham sente il bisogno di tenere unita la famiglia, poco importa se questo significa diventare un colono.

La vita del pastore non è facile, in questo mestiere ci vuole tanta passione. Fare il pastore non è un hobby e nemmeno una scelta naif: “La mia è una vita semplice. Per raggiungere la piena libertà ciascuno deve entrare in rapporto con la terra, come fanno i pastori. Non posso spiegare quali sono i sentimenti, le mie emozioni per la natura, per gli animali. È qualcosa che deve essere vissuto ed interiorizzato. E per farlo devi dormire all’aperto sotto le stelle. Devi conoscere ogni sasso di questa terra. Devi sapere dove sono le sorgenti d’acqua. Dove trovare i pascoli migliori.” Le zone bibliche dell’antica Samaria e della Giudea coincidono oggi con i Territori Palestinesi della West Bank. La questione degli insediamenti ebraici in tali aeree è oggi oggetto di una controversia tra Israele e la Palestina, tra Israele e l’Unione Europea, tra Israele e il Mondo. Di fatto è un elemento critico nel processo di pace. E forse il più intricato da risolvere.

Il pensiero politico di Avraham è un misto di tutto, con qualche provocazione di troppo: “Uno stato palestinese già esiste e si chiama Giordania. Quella è la terra dei palestinesi. Io non credo nel processo di pace. I politici sono persone arroganti e non comprendono i bisogni delle persone. Non vivono in mezzo a noi. Non capiscono che non dobbiamo sederci al tavolo con i Palestinesi. La Linea Verde non esiste, almeno per me”. Nel 2000 Avraham ha perso una figlia, assassinata in un assalto stradale compiuto da militanti palestinesi. L’auto su cui viaggiava insieme al marito e alla figlia è stata crivellata di colpi, la bambina a bordo scampò all’attentato e oggi vive con i nonni. Pochi anni fa, durante la transumanza verso l’insediamento di Migron, alcuni palestinesi hanno rubato il suo gregge. Oltre 400 capi spariti in poche ore. Vani i tentativi di ritrovare il bestiame. Persino i servizi segreti israeliani si sono attivati ma senza risultati. Secondo Avraham non c’è possibilità di dialogo con l’altro, c’è solo un muro sempre più alto: “In passato andavo al pascolo con un fucile mitragliatore Uzi. Era troppo pesante. Ingombrante. Oggi porto con me sempre un coltello. Devi essere sempre armato, è per la tua incolumità. Siamo circondati da nemici che vorrebbero spazzarci via. E mentre io rischio la mia vita tutti i giorni il nostro Primo Ministro libera terroristi palestinesi, assassini”. Avraham contro tutti, contro gli arabi, contro l’Occidente, contro il suo governo, contro la sinistra sionista israeliana e persino contro i religiosi ortodossi: “È grazie all’amore per la lingua ebraica che ho riscoperto le mie radici, l’infinita sapienza dei nostri antenati e la loro immutabile verità. Ed è stato doloroso scoprire che la comunità Ashkenazita ha assorbito, deformandosi, le influenze culturali e linguistiche Europee. E se travisi l’ebraico, fraintendi automaticamente anche la Bibbia.” Avraham non accetta che agli ortodossi sia consentito di non lavorare, di non adempiere al servizio militare, di ricevere un cospicuo vitalizio: “non puoi ricevere soldi perché studi la Torah. Devi lavorare come tutti. Il loro atteggiamento è peccaminoso”.

È Avraham a entrare nel merito di un eventuale nuovo conflitto, in Medio Oriente parlare di guerra è all’ordine del giorno, delle cose, delle idee più disparate e pazzesche: “Se ci sarà una guerra con i Paesi arabi, con la Siria o l’Iran queste colline sono il posto più sicuro per gli israeliani. Netanyahu dovrebbe preparare un piano di evacuazione dalle città e portare su queste terre la nostra gente”.

È il tramonto. Avraham slega e srotola dalla cintura dei pantaloni una lunga fionda artigianale. Soppesa i sassi e osserva la forma più idonea. Con un movimento rapido lancia le pietre ad una trentina di metri. Non è bravo come il re Davide, ma non c’è Golia da affrontare. Avraham chiama con un ordine perentorio il suo fido cane, un pastore belga di quattro anni. In pochi secondi il cane riunisce il piccolo gregge intorno ad Avraham che sbatacchia i rami di un olivo. Le foglie cadono a terra e le capre si avventano per mangiarle, avvolgendo il loro padrone. Intanto in cielo compaiono le prime stelle. Avraham estrae dalla borsa quel che resta di un vecchio libro, non c’è rilegatura a tenere unite le pagine consumate, i fogli stampati in ebraico sono del libro della Genesi. Il pastore legge a voce alta, canta e invoca un’ancestrale preghiera a Dio. È tempo di lasciare Avraham da solo a riflettere con i suoi pensieri, meditare con la sua anima.

AGOSTO FEROCE

La Terra Santa sotto shock. In poche ore due crimini assurdi hanno sconvolto il mondo. Shira e Ali, la prima 17 anni e israeliana, il secondo 18 mesi e palestinese, entrambi vittime dell’intolleranza e del fondamentalismo. La giovane ragazza pugnalata da un ortodosso al gay pride di Gerusalemme. Mentre il bambino è stato arso vivo nella propria casa in un attacco di nazionalisti israeliani. Di qua e di là dal muro si piange, stesse lacrime, stesso orrore. Il Medioriente sprofonda ancora una volta in un abisso di disumanità. In Israele il governo di destra formato da Netanyahu è ad un bivio: tolleranza zero nel combattere il terrorismo interno o accettare le richieste del movimento dei coloni, piegarsi all’intransigenza della religione o mantenere la laicità dello stato. Nell’Agosto 2005 Sharon attuava il piano di disimpegno unilaterale degli israeliani da Gaza. Evacuando dalla Striscia qualche migliaia di coloni e smantellando gli insediamenti. Furono giorni di tensione. In alcuni casi l’esercito e la polizia intervennero con la forza per sgomberare i manifestanti che si erano barricati rifiutando di lasciare Gaza. Dieci anni dopo la questione dei coloni israeliani è tornata prepotentemente alla cronaca. Recenti statistiche annoverano che il numero degli israeliani che risiedono oltre la Linea Verde è intorno alle 450 mila unità. I coloni godono di fatto degli stessi diritti dei cittadini israeliani: totale libertà di movimento, di parola, partecipazione alle elezioni nazionali, sicurezza sociale, sistema sanitario etc etc. A partire dagli anni ’80 i vari governi israeliani hanno utilizzato la molla della crisi degli alloggi per favorire l’espansione delle colonie. Migliaia di giovani coppie, con basso reddito, hanno trovato casa ad un prezzo abbordabile negli insediamenti. Tuttavia solo il 40% motiva la legittimazione a vivere in quelle terre sul concetto di Eretz Israel, secondo cui quel lembo di terra sarebbe stato un dono offerto da Dio ai discendenti di Abramo e Mosè, e che quel vincolo sacro è tutt’oggi in essere. Le zone bibliche dell’antica Samaria e della Giudea coincidono oggi con i Territori Palestinesi Occupati della West Bank, dove, in base agli Accordi di Oslo, è in vigore una divisione per aree: A, B e C. Le colonie sono nelle aree denominate C, sotto il completo controllo israeliano. La questione degli insediamenti ebraici in tali aeree è oggetto di una controversia internazionale, di fatto è un elemento critico nel processo di pace. E forse il più intricato da risolvere. La Linea Verde non esiste, almeno per me. Uno stato palestinese c’è e si chiama Giordania. Quella è la terra dei palestinesi. Io non credo nel processo di pace. I politici sono persone arroganti e non comprendono i bisogni delle persone. Non vivono in mezzo a noi. Non capiscono che non dobbiamo sederci al tavolo con i Palestinesi.” Questa la testimonianza raccolta in un insediamento sulle colline alle porte di Nablus, nel cuore della Palestina. A parlare è Avraham, un colono. Israele è oggi un microcosmo fatto di tanti pianeti che muovono verso la collisione. A riguardo abbiamo ascoltato la “profezia” del rabbino Yuval Cherlow, religioso “moderato”, impegnato contro il settarismo e l’omofobia. “La società israeliana deve oggi creare o aggiungere un nuovo elemento di solidarietà; deve decidere la propria identità rispetto a tutti gli elementi che la compongono. Questo pericolo può seriamente minare la sua futura esistenza e la leadership politica, ideologica e intellettuale, educativa, deve assolutamente investire in questa ricerca così vitale per il suo futuro.

IL PONTE DEGLI ENTI LOCALI PER LA PALESTINA

È iniziato con un convegno all’Università di Tel Aviv il viaggio di Matteo Renzi in Terra Santa, due giorni di Medioriente per il presidente del consiglio. Doppia visita, Israele e Palestina. Sul fronte israeliano per confermare e garantire la profonda amicizia, a partire dalle idee, le start-up che vedono i nostri paesi impegnati in progetti commerciali ed economici innovativi. Al presidente palestinese invece il premier italiano recapita i risultati della solidarietà italiana, la serietà di anni di cooperazione, l’impegno profuso dalle istituzioni e dalla nostra società in favore del popolo palestinese. Uno di questi legami concreti, forse il meno noto ma tra i più rilevanti, è un programma di cooperazione decentrata degli enti locali italiani promosso dalla Direzione Generale Mediterraneo e Medio Oriente del Ministero degli Esteri. Un grande esempio di cooperazione dal basso alla soglia dei dieci anni di attività. Un fondo di 25 milioni di € messo a disposizione del governo di Ramallah nel dicembre 2005. Mentre Hamas vinceva le elezioni politiche in tutta la Palestina l’Italia “congelava” temporaneamente gli aiuti. La formazione di vari esecutivi di coalizione nazionale, tra le principali forze di Hamas e Fatah, ma soprattutto le garanzie del presidente palestinese Abu Mazen hanno ben presto permesso al programma rinominato PMSP (Programma di Supporto alle Municipalità Palestinesi) di entrare in operatività. Nel periodo 2006-2015 sono stati formalizzati partenariati fra 59 Enti locali Italiani (Regioni, Provincie e Comuni) e 28 Enti locali palestinesi; approvati e finanziati 76 progetti per un importo complessivo di 30.946.093 euro, di cui 22.056.332 euro (71%) quale cofinanziamento del PMSP e 8.889.761 euro (29%) a carico degli Enti locali italiani e palestinesi. Il programma è implementato da una task unit che opera in loco con l’ausilio di personale italiano e palestinese, in stretta collaborazione con il portavoce degli enti locali, Paolo Ricci. I settori prioritari d’intervento di sostegno agli Enti locali palestinesi sono i seguenti: promozione di attività di Capacity Building; gestione delle risorse idriche e smaltimento delle acque reflue; gestione della raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani e speciali; tutela e valorizzazione dei Beni culturali, con particolare attenzione al sostegno del turismo sostenibile; promozione di attività sociali; sviluppo economico locale; sostegno alla produzione d’energia da fonti rinnovabili. Elemento centrale e innovativo, valore aggiunto, di questo programma è la sinergia tra enti locali, nell’ottica di una cooperazione decentrata che produca ampie ricadute per i beneficiari, per i servizi al cittadino e nelle relazioni people to people tra la sponda Nord e quella Sud del Mediterraneo. L’obiettivo è andare oltre il semplice rapporto di protocollo dei molti gemellaggi tra gli enti locali italiani e quelli palestinesi. Una strategia d’intervento condivisa dal Governo italiano per mano del Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme, che di fatto è stato il vero promotore di questa iniziativa. La lista degli enti locali che hanno aderito al programma è lunga, tra loro la Regione Lombardia, l’Umbria, l’Emilia e Romagna, la Puglia e la Toscana. I comuni di Milano, Firenze, Genova, Reggio Emilia, Vicenza, Arezzo e Torino. Le province di Cagliari, Napoli e Pisa. Mentre le realtà palestinesi coinvolte sono: Betlemme, Gerico, Tulkarem, Sebastya, Battir, Beit Sahour, Hebron e ovviamente Gerusalemme Est. Tra i vari progetti già realizzati o attualmente in corso d’opera: il restauro della Chiesa di tutte le Nazioni al Getsemani; un impianto di pannelli fotovoltaici che fornirà energia elettrica al complesso scolastico di El Zaitoun di Gaza; l’apertura di strutture ricettive di base (Guest House) nei principali centri storici palestinesi; servizi di riabilitazione per persone con disabilità, una scuola di lingua italiana, un progetto pilota per la raccolta, il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti speciali di origine ospedaliera; le attività culturali del Museo di Arti e Tradizioni palestinesi Dar Al-Tifl e l’elaborazione dello Studio di fattibilità per la realizzazione di un Parco Scientifico e Tecnologico a Hebron. Molti migranti che tentano di arrivare in Europa sono di origine palestinese, l’incremento negli ultimi anni è stato esponenziale. Anche per loro la fuga da un dramma quotidiano di guerra, violenza e povertà. La coscienza invita ad un maggiore impegno di tutti per la salvaguardia della vita umana. Le necessità sono interventi per la creazione di posti di lavoro e una maggiore sicurezza sociale nelle zone da cui provengono i migranti. “Per ottenere un tale risultato è necessario investire nella cooperazione, e nei prossimi tre anni assisteremo a grandi cambiamenti in questo senso.” La promessa del Governo italiano.

Nucleare iraniano, diplomazia di vasta proporzione

L’accordo sul nucleare iraniano è arrivato alla sua conclusione o maturazione. Un risultato diplomatico di vaste proporzioni, raggiunto dopo un’estenuante tavolo delle trattative: una patata bollente dagli esiti incerti per oltre 60 mesi. La quadratura diplomatica grazie alla mediazione del Commissario europeo Federica Mogherini, in splendida luce. Nella tarda mattina viennese di una calda estate si accende il semaforo verde alla fine delle sanzioni nei confronti di Teheran. Nemmeno il tempo per le delegazioni ufficiali di stringersi la mano per la foto di rito che da Gerusalemme si alzano le voci di protesta. E Washington risponde. Mentre Teheran canta vittoria con la folla in piazza. È il classico teatrino della politica internazionale, in scena tanti attori ma tre veri protagonisti: il presidente iraniano, Netanyahu neo confermato capo di governo israeliano ed infine Obama il presidente in scadenza degli USA. L’ultimo ha fortemente spinto per una soluzione positiva alla trattativa iraniana, che riaprisse il dialogo interrotto nel ’79 con il paese degli Ayatollah, nella speranza, nemmeno troppo segreta, di poter un giorno definire un nuovo Medioriente senza Califfi: “E’ un accordo che non si basa sulla fiducia ma sulla verifica. Se l’Iran violerà l’accordo tutte le sanzioni saranno ripristinate e ci saranno serie conseguenze. Nessun accordo avrebbe significato nessun limite al programma nucleare iraniano. Gli Stati Uniti manterranno le sanzioni contro l’Iran collegate alla violazione dei diritti umani”.

Occhi puntati. Scadenze da rispettare per l’Iran e per il presidente Hassan Rouhani che nella dichiarazione alla stampa non ha tralasciato di uscire dal seminato, cadendo nel grottesco: “Non abbiamo chiesto la carità. Abbiamo chiesto negoziati equi, giusti e senza sconfitti. Oggi la gente di Gaza, del Libano, di Gerusalemme e della West Bank sono felici perché gli sforzi del regime sionista sono stati sconfitti. Paesi vicini! Non lasciatevi ingannare dal regime sionista”. In Medioriente, almeno la parte ostile alle politiche di Teheran quella che teme il potere sciita e le milizie dei pasdaran, non accetta di buon grado il risultato di compromesso siglato in Austria. Arabia Saudita e Israele, nemici giurati dell’Iran, sono rigidamente contrari. Temono per propri i confini, per la sicurezza di una regione votata all’instabilità e alla violenza.

Il primo ministro israeliano, dal canto suo, esprime condanna accesa, con toni funesti: “Adesso l’Iran avrà un patto sicuro per sviluppare le armi atomiche. Molte delle restrizioni che avrebbero fatto in modo di prevenire ciò sono state revocate. L’Iran avrà in mano un jackpot, una miniera d’oro in contanti centinaia di miliardi di dollari, che le consentirà di continuare a perseguire le aggressioni e il terrore nella regione e nel mondo. Si tratta di un grave errore di proporzioni storiche.”

Netanyahu parla, allo stomaco e alla testa, della comunità internazionale ma soprattutto ai repubblicani americani, al Congresso dove sono in maggioranza e lui, il falco, potrebbe trovare fedeli alleati in una nuova battaglia politica al democratico afroamericano presidente della Casa Bianca. Un match rischioso per la tenuta delle relazioni sodali tra i due stati. Obama appare rilassato, al fianco il suo vice, insieme per il monito al Congresso e per delimitare il campo di gioco: “Sarebbe irresponsabile allontanarsi da questo accordo. Porrò il veto a qualsiasi legge che si opporrà alla sua attuazione”. Netanyahu è fuori dalla porta …. con la palla in mano.

Giusto tra le Nazioni, Che Guevara della Chiesa: addio a don Paoli

“Vi chiedo di non cedere ad un modello economico idolatrico che abbia bisogno di sacrificare vite umane sull’altare del denaro e del profitto.” Sono le parole pronunciate da Papa Francesco ad Asuncion in Paraguay pochi giorni fa. In un viaggio in cui il Pontefice ha rimarcato l’importanza di: “Rispettare il povero. Non usarlo come oggetto per lavare le nostre colpe.” È la conferma che il mandato di Francesco guarda apertamente all’esperienza dei movimenti teologi della liberazione, apre alle loro teorie nel nome della “lotta” alla diseguaglianza globale. Un indirizzo che trovava in padre Arturo Paoli e nella sua storia uno dei principali esponenti. Fratel Arturo e’ morto lunedì scorso all’età di 102 anni nella canonica che l’ospitava ormai da qualche anno, a San Martino in Vignale, nella sua Lucca. Dire oggi quanto di Fratel Arturo Paoli e delle sue tesi ci sia nel messaggio apostolico di Papa Francesco è materia per i vaticanisti ma soprattutto rientra nella sfera di un legame sincero, un’amicizia profonda. Paoli e Bergoglio si conoscevano bene da lungo tempo. Il primo ha rappresentato per i popoli latinoamericani un profeta, predicando dal Cile alle favelas del Brasile in favore delle popolazioni più diseredate e delle loro lotte, pronunciandosi per una chiesa popolare e socialmente attiva. Ricercato e condannato a morte nell’Argentina della dittatura, in fuga tra i poveri, ha messo più volte a repentaglio la propria vita. Personaggio scomodo, che non accettava bavagli: “Finché non capiremo che la solidarietà con i poveri non è buon cuore, ma un modo di uscire dalla colpa, di rendere giustizia, tutti i nostri discorsi politici non serviranno a niente.” L’esempio di don Paoli è nei gesti di un’icona della resistenza all’ingiustizia, dell’antifascismo, contro le dittature militari e i regimi repressivi. Il Che Guevara della Chiesa. Lui che ha scolpito il suo nome tra i “Giusti delle Nazioni” nel memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme. Nel luogo simbolo della tragedia della Shoah, dove oltre alle sei milioni di vittime sono ricordati anche coloro, non ebrei, che rischiarono le loro vite per aiutare gli ebrei dall’Olocausto. “Ricordo la giovane coppia venuta dal nord d’Europa portando il ricordo della famiglia distrutta nei forni crematori, dopo un lungo viaggio in vagoni piombati, ammassati come oggetti senza valore. La donna portava nel suo ventre la vittoria sulla furia devastatrice e cercammo di mettere al sicuro questo piccolo seme che conteneva la forza della vita, la speranza sicura della sua vittoria sulla morte.” Fratel Arturo Paoli ha contribuito a salvare centinaia di ebrei dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti. Con Giorgio Nissim, responsabile dell’organizzazione ebraica che assisteva i perseguitati, il Delasem, don Paoli e i suoi confratelli dettero rifugio a profughi e ricercati creando una capillare rete di protezione agli ebrei in Toscana. Per mantenere la segretezza Nissim inviava gli ebrei in fuga da don Paoli, le persone mostravano mezza banconota da 5 lire che combaciava con il numero seriale che Paoli possedeva. Era una catena di solidarietà, coraggio e altruismo. In uno dei momenti più bui della storia: “Quelli che avevano tentato di affascinarci nel sogno di essere portatori di civiltà nel mondo, apparvero improvvisamente invasori venuti da terre lontane, esseri che venivano da epoche a noi sconosciute, esseri predatori, distruttori assetati di sangue e di vendetta.” Nell’arco della sua centenaria vita don Arturo ha continuato a rappresentare un punto di riferimento morale, spirituale e critico. Vivendo a pieno la religione come atto di generosità assoluta, guardando sempre in basso: “Oggi noi predichiamo le stesse cose da Wall Street, dal nostro comodo benessere; predichiamo principi, idee, senza mai mettere i piedi per terra. Sono secoli che pensando di amare opprimiamo.” Questo è stato Fratel Arturo Paoli.

GAZA UN ANNO DALL’INIZIO DEL CONFLITTO E LA COOPERAZIONE ITALIANA

A Gaza è ancora emergenza, gli aiuti tardano ad arrivare e la macchina della ricostruzione internazionale è letteralmente in stallo dalla fine delle ostilità, agosto del 2014. Tempo perso e ritardi imputabili a fattori politici interni ed internazionali. Eppure la cooperazione italiana, forse uno dei pochi esempi, si è mossa con celerità e concretezza. Alla conferenza del Cairo, in ottobre, l’Italia ha stanziato 18,7 milioni. “La Cooperazione italiana opera a Gaza da lungo tempo, principalmente attraverso l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), che gestisce, come noto, alcuni servizi sociali – scuole e cliniche – essenziali per la popolazione, e varie ONG italiane, che hanno realizzato o stanno realizzando interventi di carattere sociale e di sostegno a piccole attività produttive. Nonostante le difficoltà del contesto politico e operativo, la Cooperazione italiana continua ad essere attiva e apprezzata dalla popolazione.” Tiene a sottolineare Giampaolo Cantini, Ambasciatore e Direttore Generale della Cooperazione italiana allo sviluppo, che intervistato per l’Unità aggiunge: “Nel corso del 2015, sono previsti nuovi interventi di emergenza per la Palestina per un totale di 5,78 milioni di Euro.” In totale ad oggi sono stati impegnati nei Territori Palestinesi Occupati 380 milioni di euro a partire dal 1985. Mentre, in risposta alla crisi dello scorso anno sono 3 milioni i fondi investiti sul canale dell’emergenza. Nel dettaglio ad un anno dalla guerra e dieci dal ritiro dei coloni israeliani da Gaza, voluto unilateralmente da Sharon, le principali aeree d’intervento gestite dalle nostre ONG sono: progetti per migliorare l’accesso all’acqua potabile per la popolazione di Gaza; interventi nel settore della salute e attività di resilienza ai traumi di guerra della popolazione sfollata. Mezzo milione è la cifra che la Farnesina ha gestito autonomamente acquistando medicinali e generi di prima sussistenza. Due voli umanitari hanno portato dall’Italia 500 Emergency Shelter-Boxes destinati agli sfollati: box contenenti tende, coperte, teli isolanti, fornelli da campeggio, pentole. Gli aiuti sono stati allargati al canale multilaterale diretto a favorire le agenzie internazionali: UNWRA, UNMAS, OCHA, UNDP, WHO e Croce Rossa Internazionale. Infine la somma più sostanziosa è stata investita nel credito d’aiuto, come chiarisce il Direttore Cantini: “15 milioni di € da erogare tramite un credito ad alta concessionalità, con tale importo, verrà finanziato un programma di ricostruzione di abitazioni civili a Gaza, che intende sostenere l’attuazione del National Early Recovery Reconstruction Plan palestinese.” Sul fronte politico c’è da registrare che la tregua tra Gaza e Gerusalemme regge. Nelle ultime settimane a Gaza i gruppi salafiti, affiliati all’ISIS, hanno fatto la loro macabra comparsa, tentando di destabilizzare il fragile compromesso di “quiete”. Giochi di potere in un Medioriente sempre più vicino al baratro del terrore. Il recente rapporto della commissione d’inchiesta dell’ONU parla esplicitamente di crimini di guerra compiuti da parte di Israele e di Hamas durante il conflitto e invita l’intervento della Corte Penale Internazionale. La verità è lontana, l’impunità aleggia mentre la devastazione è visibile.

CHANUKKAT BAIT

Le forme della sinagoga di Pisa parlano il linguaggio ottocentesco dell’assimilazione, un altro tra i molti idiomi di questo giudaismo inquieto.” Scrive Giulio Busi in Lontano da Gerusalemme. La sinagoga di Pisa è tornata a splendere, dopo un lungo restauro durato otto anni. Tra le mura di questo tempio israelitico si sono raccolti in preghiera personalità uniche dell’ebraismo, come l’indimenticabile rabbino Elio Toaff e lo shadarim Rav Yossef David detto il Chidà. Le finestre dell’edificio in via Palestro, in una domenica di sole, sono aperte e lasciano entrare la luce e il calore dell’estate. Il teatro Verdi è ben visibile, solo qualche tetto a dividere i due luoghi, il sacro e il profano. Gli antichi lampadari che scendono dal soffitto sono accesi, la sinagoga è luminosa come nella festa delle luci, nei giorni della Chanukkat, l’inaugurazione. E quella di domenica è stata una vera e propria rinaugurazione di un tempio tornato ad essere luogo di culto e, come vuole la tradizione, d’insegnamento. La sinagoga è affollata come non succedeva da tempo alla piccola comunità ebraica pisana. Entrando le donne prendono posto a sinistra e gli uomini a destra, nel ballatoio nascosto dagli archetti il matroneo con un folto numeri di fotografi e giornalisti. Al centro la tribuna dell’officiante, Tevà in ebraico, è un palchetto di legno avvolto da una balaustra di marmo dove le autorità, i rappresentanti delle istituzioni e della comunità si alternano negli interventi della cerimonia ufficiale. Significativa la presenza, ricordata con parole di gratitudine dal rabbino della comunità Luciano Caro, dell’imam di Pisa Mohamed Khalil. Viene ricordato che la città della Torre fu amministrata agli inizi del ‘900 da Alessandro D’Ancona, illustre membro della Comunità, direttore della Scuola Normale Superiore e del quotidiano La Nazione. Poi è la volta delle rimembranze dolorose: il rabbino Augusto Hasda e la moglie Bettina Segre che vennero avviati ai campi di sterminio; lo storico Michele Luzzati recentemente scomparso. Il più citato è Giuseppe Pardo Roques, il presidente della comunità ebraica pisana durante la II guerra mondiale, trucidato insieme ad altre undici persone dai soldati tedeschi nel 1944 in via Sant’Andrea 22, a pochi passi dalla sinagoga. La strage nazista resta una delle pagine più drammatiche per la città che lega, tra le altre cose, la località di San Rossore all’emanazione delle leggi razziali nel 1938 e che fa dire al Sindaco Marco Filippeschi come “la memoria ci deve sempre accompagnare nella nostra vita perché non accada mai che qualcuno possa essere discriminato”. Eppure il legame tra l’ebraismo e Pisa è lontano nel tempo, risale al Medioevo. Ben prima dell’espulsione dalla Spagna degli ebrei e della diaspora sefardita avvenuta nel 1492. Molti di quei profughi, in fuga per sopravvivere, si insediarono lungo le coste toscane dando vita ad una delle principali comunità ebraiche in Italia. Pisa e Livorno un secolo dopo, nel 1591, avrebbero chiusoi ghetti e consentito, con l’emanazione delle “Leggi Livornine”, agli ebrei libertà di culto e di abitare in ogni quartiere della città, negli stessi edifici dei cristiani purché si servissero di scale diverse.Le due città toscane con lungimiranza, che non ebbe altri casi simili per molti anni, rinunciavano a negare un’imposizione, razzista e discriminante, agli ebrei: lasciando loro facoltà di poter essere liberi cittadini. La fine del ghetto implica per la sinagoga una maggiore centralità nella vita della comunità. La Beit Knesset ovvero la casa dell’assembleaassume nuova bellezza architettonica, è oggetto di maggiore cura nelle decorazioni. Il culmine artistico per la sinagoga di Pisa è con il restauro ad opera del geniale architetto piemontese Marco Treves a metà dell’ottocento, lo stesso che realizzo la sinagoga di Firenze e che come ricorda David Cassuto, figlio di Nathan rabbino capo di Firenze nel 1943 che morirà nel 1945 nel campo di concentramento di Gross Rosen: ” ha realizzato anche chiese e forse avrebbe costruito anche moschee se fosse vissuto oggi”. Meno di due secoli dopo la sinagoga di via Palestro torna ad essere l’istituzione pulsante del nucleo ebraico, la casae il rifugio. È visibile la soddisfazione, in particolare del presidente della comunità Guido Cava e del segretario Giacomo Schinasi, per il successo del restauro: nella sinagoga è un giorno di festa. Piero Nissim commuove quando ricorda la figura del padre Giorgio, eroico antifascista che riuscì a mettere in salvo più di 800 ebrei. Per poi appassionare e coinvolgere i presenti con il canto d’inizio dello shabbat, quello della festa di Chanukkha e le allegre canzoni della tradizione Yiddish. Doverosi i ringraziamenti a quanti hanno contribuito per riportare tra noi nella sua completa bellezza questo luogo. E che hanno fatto in modo che le porte dell’ Haaron Hakodesh dove sono custoditi i rotoli tornassero ad aprirsi di nuovo alla città, a tutti quelli che vorranno visitate questo luogo così emozionante.

PRICE TAG?

Nord di Israele. Galilea. Regione di Kinneret. Pochi chilometri dall’antica cittadina di Cafarnao. Violato il santuario cristiano dove secondo la tradizione Gesù compì il miracolo, moltiplicando i pani e i pesci. La piccola chiesa di Tagbha, santuario benedettino, che sorge a pochi metri dalle acque del Mar di Tiberiade in fiamme nella notte tra mercoledì e giovedì. Incendio doloso, molto probabilmente. A far propendere per la pista a sfondo religioso una scritta in ebraico che inneggia alla cacciata dei falsi idoli comparsa sul muro del complesso. Un gruppo di seminaristi religiosi provenienti da insediamenti coloniali in West Bank è stato inizialmente fermato. I giovani ebrei ultraortodossi sono stati arrestati e poi rilasciati per mancanza di prove. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato di “atto atroce”, dichiarando che: “Lo scioccante incendio della chiesa è un attacco a tutti noi.” Netanyahu ha voluto sottolineare come la libertà religiosa è tra i valori fondanti di Israele e per questo “è ancorata alla legge”. Il capo del governo di Gerusalemme ha chiesto ai servizi segreti dello Shin Bet di accelerare le investigazioni: “Nella nostra società non c’è spazio per l’odio e l’intolleranza.” Il numero di vandalismi e violenze anti cristiane ha avuto un aumento esponenziale lo scorso anno in tutta la Terra Santa. Secondo l’agenzia di stampa Infopal ci sono stati “86 attacchi israeliani contro luoghi sacri islamici e cristiani nel 2014” a Gerusalemme e nella Cisgiordania. Il ripetersi di crimini vandalici da parte di estremisti ebrei fa pensare ad azioni premeditate, i cosiddetti “price tag”: attacchi terroristici perpetrati da gruppi di giovani degli insediamenti, il “prezzo” da far pagare ai palestinesi o all’esercito israeliano per ogni torto ricevuto dai coloni. Mentre veniva resa pubblica l’enciclica papale “Laudato si”, un manifesto ambientalista con forti critiche al potere e che aprirà un ampio dibattito, a Gerusalemme il presidente Reuven Rivlin condannava l’incendio di Tagbha. Durante la lunga conversazione con padre Gregorio Collins, abate dell’ordine benedettino in Israele, Rivlin ha sostenuto che “questa terribile profanazione di un antico e sacro luogo di preghiera è un attacco alla fabbrica della vita del nostro paese, dove persone di differente fede cercano di vivere insieme in armonia, tolleranza e rispetto.” L’escalation della violenza e dell’odio religioso in Terra Santa preoccupano a Gerusalemme come a Roma. Lo stop ai pellegrinaggi cattolici in Terra Santa è una prospettiva palesata. I “price tag” sono una realtà inquietante.

LA TOSCANA IN FAVORE DELL’UNHCR

Un concerto a Firenze Sabato 20 giugno 2015 per sostenere l’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi e i rifugiati. Un grande evento per sostenere i diritti umani di milioni di persone nel mondo. Lo richiede, da anni, la storia quotidiana. In Siria si calcola che ogni giorno ci siano 9.500 rifugiati in più. Sono uomini, donne, bambini e anziani costretti ad abbandonare la propria casa. In questo caso il dramma siriano è riconducibile ad una guerra civile, con ricadute sul Medioriente e fuori dai confini regionali. Al mondo, attualmente, ci sono 50 milioni di persone costrette a fuggire a causa di cataclismi, violenze e violazioni dei diritti umani. Eppure, quando l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati nasce, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, le previsioni sono ottimistiche per i rifugiati europei. Il 14 dicembre 1950 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituisce l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) con un mandato di tre anni per portare a termine il proprio compito e destinato successivamente a sciogliersi. Ebbene, come tutti sappiamo da allora non è stato mai chiuso e chiunque può, rendersi conto di quanto sia un “ufficio” indispensabile. Dal 1951 viene adottata la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, base giuridica dell’assistenza ai rifugiati e statuto guida dell’attività dell’UNHCR. Al capitolo IV del documento che l’Italia ratifica nel 1954 si affronta il tema del Benessere sociale del rifugiato. Ovvero quella parte dello statuto, entrato in vigore dal 1955 nel nostro paese, dove si indicano le condizioni da offrire al rifugiato in termini di cibo, alloggio, salute e sicurezza sociale. Quattro articoli che spesso, troppo, negli ultimi mesi vengono, in Europa e in Italia in particolar modo, politicamente strumentalizzati o peggio ancora dimenticati. Articoli che non possono essere stracciati. In questo senso occorre promuovere una corretta informazione, evitando il rischio di dare adito a fraintendimenti. A riguardo l’Italia nel 2008 ha adottato un codice deontologico, la Carta di Roma, allo scopo di fornire ai giornalisti delle linee guida che facilitino un’informazione equilibrata ed esaustiva su richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. In questi anni l’UNHCR ha formato vari team con una vasta gamma di competenze chiave, pronti ad essere dispiegati e immediatamente operativi in tutto il mondo. L’UNHCR ha la capacità “di mobilitare in risposta ad una situazione critica più di 300 operatori qualificati per soccorrere 600.000 persone entro 72 ore, in ogni angolo del mondo”. L’organizzazione internazionale ha inoltre sviluppato meccanismi di mobilitazione immediata di risorse finanziarie per fare si che la risposta all’emergenza arrivi tempestivamente. Publiacqua e Water Right Foundation, con il sostegno della Regione Toscana e di Unicoop Firenze hanno risposto a questo appello aderendo al World Refugee Day Live, organizzando un grande evento per sensibilizzare l’opinione pubblica della regione. Ecco, allora, il grande evento: sabato 20 giugno 2015 all’Ippodromo del Visarno a Firenze si svolgerà il concerto, con la presenza di famosi artisti italiani, per la raccolta fondi. Il biglietto d’ingresso, sarà di 10 euro con i quali l’UNHCR, garantirà un mese di acqua potabile a un rifugiato che vive in condizioni di emergenza umanitaria e l’incasso sarà totalmente devoluto a UNHCR. Gli esempi concreti dell’operato di questa agenzia sono nei dati. In Nepal a causa del recente sisma gli aiuti d’emergenza dell’UNHCR hanno consentito nelle prime ore di dare “aiuti a 40 mila sopravvissuti”. Un altro esempio dell’impegno dell’UNHCR è in Siria dove soltanto negli ultimi dodici mesi sono stati distribuiti kit a quasi tre milioni di siriani. I kit comprendono: “3 materassi, 5 coperte normali o termiche nei mesi invernali, 3 materassini, 1 set comprendente gli utensili per cucinare, 1 bidone per l’acqua, 1 lampada solare, un telo di plastica e un ventilatore per i mesi estivi. In aggiunta ad oggetti fondamentali per l’igiene della famiglia, tra cui pannolini, assorbenti igienici.” Piccoli aiuti necessari a chi ha perso la casa e a cui resta solo la speranza.

VIAGGIO A HOLOT

Milano, Roma nelle principali stazioni di transito italiane qualche centinaia di immigrati in cerca di una destinazione. Poche persone confrontate con il flusso di viaggiatori, pendolari e turisti in transito ma sufficienti a mostrare un problema, una situazione emergenziale che nasce non in Italia ma sulle sponde sud del Mediterraneo, in Medioriente, nell’Africa subsahariana. Guerre, carestie e disastri, arrivano da queste terre molti dei 50 milioni di rifugiati nel mondo secondo l’agenzia delle Nazione Unite, i dati sono dell’ufficio UNHCR. Rifugiati, “protetti” da convenzioni internazionali, in fuga e a rischio della vita, arrivano lungo le nostre coste, sono richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti. Come gestirne il flusso? Alcuni stati introducono nuovi approcci e aprono la discussione, politica e morale. Sono risposte sufficienti? Oppure semplici palliativi? Nel Medioriente dei conflitti in Israele si sta discutendo su come affrontare il destino dei 50mila immigrati clandestini entrati nel paese, prima che nel 2013 venisse “srotolato” lungo il confine con l’Egitto la barriera che oggi impedisce l’ingresso. Lo scorso anno 7mila sono stati rimpatriati, mentre solo 1.500 hanno deciso volontariamente di lasciare Israele per un paese terzo. Trasferire in massa gli immigrati in un paese africano, diverso da quello di provenienza, è la misura in discussione in questo momento a Gerusalemme. Secondo quanto riportato dai media il precedente governo era pronto a finalizzare un accordo multimilionario con alcuni paesi africani, Rwanda e Uganda, dove espellere gli immigrati che avessero volontariamente deciso di lasciare Israele. Questioni politiche, umanitarie, morali ed economiche in questi giorni si intrecciano. Nel frattempo, a Holot nel centro di detenzione più importante di Israele vivono circa 1500 immigrati in attesa di conoscere il proprio futuro. Per arrivare ad Holot da Gerusalemme ci vogliono quasi tre ore di viaggio. Passando le verdi colline dei vigneti di Latrun. Lasciando in lontananza le città di Ashdod, Gaza ed infine Beer Sheva si attraversa il deserto del Neghev con le dune di sabbia rossastra. Lungo la strada n. 40 il paesaggio è movimentato dai villaggi beduini, dai verdi kibbutzim e dalle tende da campo dei soldati in addestramento. Imboccata la numero 211 i carri armati in manovra sulle dune alzano nuvole di sabbia. Il lungo reticolato perimetrale di Holot è a pochi metri da quello della prigione di Saharonim. Al suo interno ben visibili blocchi numerati, edifici ad un solo piano, la biancheria al sole. L’ingresso all’interno del centro è vietato alla stampa. Intervistiamo Nicole Englander, portavoce del governo, ci dice che “ogni modulo abitativo con aria condizionata può ospitare fino ad un massimo di 10 persone, nel centro ci sono negozi e cliniche mediche, biblioteca e caffetteria”. Ma Holot visto da fuori non è un villaggio turistico, tutt’altro: è una “prigione aperta” per soli uomini. L’ingresso principale è una grande volta sopra un cancello, a lato un piccolo edificio con due porte, tra queste un distributore di bevande, in alto la bandiera d’Israele. I tornelli ruotano in continuazione, al passaggio degli immigrati. Alla vicina fermata del bus la pensilina con il cartello indica solo tre destinazioni, la più vicina è il villaggio di Nizzan, la più lontana la città di Beer Sheva. Il personale che ha terminato il turno di servizio è in coda per salire sul bus numero 44. Alla vista della macchina fotografica alcuni immigrati preferiscono non farsi riprendere, altri non vogliono parlare. Sono di provenienza eritrea o sudanese. Come Adam e Faisal, vengono dal Darfur, 39 anni il primo e 32 il secondo, salutano in ebraico per poi parlare in perfetto inglese, sono arrivati nel centro a marzo del 2013. Raccontano la loro storia, il tentativo di giungere in Italia dalla Libia, dove hanno soggiornato a lungo, fermati dalla paura del mare e dalle tariffe elevate degli scafisti. Allora, hanno intrapreso la via delle carovane della morte, pagando mille dollari per raggiungere la Terra Santa. Sono sfiduciati, nel campo si annoiano e l’unico svago è praticare sport, nei loro volti rassegnati c’è dignità. Nel piazzale antistante l’ingresso rottami, auto dismesse, bottiglie accatastate sono sparse ovunque. Tende e ombrelloni colorano l’ambiente. Alcuni giovani africani preparano i narghilè mentre altri sbucciano frutta o tagliano verdure. E’ il convivio dei migranti, un suk polveroso e scarno. “A Holot ciascun immigrato riceve un sussidio giornaliero di 16 shekels, meno di 4 €, servono per le spese personali” come tiene a precisare Nicole. Mohamed non vuole essere fotografato, racconta che a Tripoli non ha avuto il coraggio d’imbarcarsi, cosa che invece ha fatto il suo amico fraterno ora in Italia. Oggi è pentito, però non è disposto ad accettare, in cambio di denaro e visto, la destinazione per un paese africano. Scuote la testa e aggiunge: “Io resterò, altrimenti tornerò a casa, se proprio devo morire voglio farlo nella mia terra”. Israele nella sua storia ha dato asilo a gente proveniente da tanti paesi, persino dal Vietnam e più recentemente dal Nepal. Oggi si chiede cosa fare dei migranti africani: se regolarizzarli diventando così forza lavoro e chiudendo luoghi come Holot, oppure procedere con le espulsioni. L’Italia come l’Europa deve avere il coraggio di porsi la stessa domanda sapendo che i flussi migratori non si fermano. Con questo fenomeno dobbiamo convivere.

Fauda e Balagan. Un blog di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi