Palmira è caduta in mano allo Stato islamico di Al Baghdadi. La bandiera nera sventola sopra il patrimonio architettonico e culturale del mondo, luoghi memoria dell’umanità, culla della cultura ellenistica. Un sito archeologico unico al mondo. La “Venezia del deserto” è in balia di un esercito votato alla morte e alla distruzione totale, l’orda degli incappucciati del Daesh sfila nelle strade dell’antica città e punta verso la capitale, Damasco. La difesa dei soldati filo governativi si è come piegata, si è sfaldata sotto l’attacco delle ben armate ed equipaggiate milizie fondamentaliste. Il collasso della linea del fronte, la rotta e la fuga degli uomini fedeli a Bashar al Asad ha lasciato il campo libero alle forze del Califfato. La sconfitta è pesante, anche sul piano mediatico. L’ingresso delle truppe vittoriose dell’ISIS nell’oasi della “Palma”, la parata militare, le solite assurde immagini di militari e civili nemici catturati che le televisioni ci hanno fatto vedere in queste ore, giustiziati e sgozzati sono il segno evidente della catastrofe. I video postati sul web, altre atrocità disumane mostrate al mondo. E ora il rischio che la furia si abbatta sul parco patrimonio dell’Unesco, distruggendo, devastando, saccheggiando tutto come purtroppo è già accaduto a Mosul, Nimrud e Hatra. La perdita di Palmira, in aramaico Tadmor, sarebbe un danno enorme, incalcolabile. Una storia millenaria è, in queste ore, ad un passo dal baratro, vittima della brutale violenza dei tempi odierni. Venerdì mattina il governo ha fatto “oscurare” la zona di Palmira, tagliando i collegamenti telefonici e internet. Nell’era della globalizzazione, della massificazione mediatica la battaglia è diventata silente. Eppure anche la notizia, solo un anno fa, della nascita dell’autoproclamato Califfato non aveva avuto grande risonanza, provocando qualche stupore ma nulla di più. In dodici mesi non è mancato giorno che nei nostri media non venissero riportate notizie del terrore jihadista. Una scia di sangue che scorre dal Medioriente all’Africa, sino all’Europa. E che fa paura indistintamente a cristiani, musulmani ed ebrei. Pochi giorni fa Sergio Minerbi, giornalista ed ex diplomatico israeliano, in un lungo incontro nella sua abitazione a Gerusalemme commentava: “L’ISIS può diventare una cosa preoccupante, è sbagliato sottovalutarlo. Il mio metro di giudizio su questa questione è l’Arabia Saudita, se loro si allarmano io devo farlo di più.” Prima degli emiri e del Mossad prontamente si è mosso Obama. Inquietati dall’espansione a macchia d’olio della zona d’influenza del Califfato nella regione gli USA hanno rifornito con armi pesanti ad Iraq, Arabia Saudita e Israele. “La Siria è la cartina tornasole del Medio Oriente.” Dice Minerbi. Il Paese è in guerra civile dal 2011. I morti sono centinaia di migliaia. I rifugiati milioni. Un conflitto dalle dinamiche regionali e con attori internazionali: Libano, Turchia, Iran e Paesi del Golfo. In Medioriente si disegnano nuovi confini, in un risico drammatico a cui assistiamo inermi. Per Minerbi il gioco politico è estremamente intrigato: “Asad è meno pericoloso del Califfato ma essere alleato dell’Iran lo rende poco digeribile ad Israele. In fondo una quasi alleanza con Asad in chiave anti ISIS a mio avviso sarebbe la scelta migliore.” Si dice che il nemico del mio peggior nemico sia il mio migliore amico. Nei giorni passati le bandiere dello Stato islamico sono state issate nel Golan a pochi metri dalla rete di recinzione tra Israele e la Siria. Netanyahu e l’Occidente tergiverseranno ancora? L’Europa, dove all’azione dello Stato Islamico non c’è stata una vera e unita comune reazione, non è un esempio confortevole. “Ho visto anni fa, con i miei occhi quando ero diplomatico quello che la CEE poteva o non poteva fare – rispetto ai veti dei singoli Stati – e oggi noto che l’Unione Europea non può fare molto.” L’ex uomo della politica estera di Israele, colui che ha costruito e saldato i rapporti tra Gerusalemme e Bruxelles, non è ottimista. “Nei mesi passati c’è stata un’alzata di scudi eccessivamente misteriosa.” Se le colonne di Palmira dovessero rotolare sotto i colpi delle sigle del terrore il rumore sarebbe assordante per le nostre coscienze.
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LA CAMPAGNA ELETTORALE PER LA KNESSET APPRODA AL CONGRESSO DI OBAMA
Nei giorni scorsi il Congresso americano ha dichiarato amore incondizionato al leader israeliano Benjiamin Netanyahu. Una dimostrazione d’affetto smisurata, ben oltre i solidi legami storici tra i due paesi: un gesto d’amore incurante di rompere i protocolli diplomatici della Casa Bianca, persino sgarbato e offensivo nei confronti del Presidente Barack Obama. Invitato a Washington dai repubblicani e boicottato dai democratici, non tutti, il Primo Ministro ha tenuto, la scorsa settimana, un lungo discorso ai membri del congresso statunitense riuniti in seduta congiunta. Nell’aula dell’organo legislativo più importante al mondo Netanyahu è stato accolto calorosamente, osannato, coperto da applausi e da standing ovation. Il succo del suo lungo discorso era la minaccia iraniana e l’accordo sul nucleare. L’obiettivo era frenare la trattativa in corso in queste ore. Alzare un polverone su Teheran. Mettere l’amministrazione Obama in un angolo. C’è riuscito. Grazie a quello che molti hanno definito il discorso perfetto, un monologo teatrale recitato convintamente e appassionato, proprio come piace alla platea anglosassone. Ha parlato di terrorismo, di bomba atomica, di geopolitica nella regione e di nazionalismo, sia ebraico che statunitense. Ha giocato le carte anche quelle più ovvie e quelle politicamente più scorrette. Ha paventato di raccontare i segreti di Obama. Non ha tralasciato di lanciare l’accusa di antisemitismo all’Ayatollah, per un suo tweet. Ha sapientemente scaldato gli animi della platea facendo rullare i tamburi di guerra: “ … anche se Israele dovesse restare solo noi non ci piegheremo. Ma so che Israele non è da solo. So che voi siete con Israele.” E ha concluso il suo intervento con tanto di citazione biblica. Il sermone di Netanyahu, che ha convinto gli americani non ha tuttavia avuto l’effetto sperato in patria: convincere l’elettorato israeliano. Le reazioni della stampa israeliana sono state negative e le critiche pesanti: chutzpa. Insolente. Arrogante. Alla fine i sondaggi, ad una settimana dal voto non hanno portato nulla di più, il viaggio americano non ha avuto l’effetto sperato. La coalizione di centrosinistra mantiene di qualche punto il primato. Il piccolo divario è stabile e solido. Dopo aver pestato i calli a Obama e a metà dei capi di stato europei al falco della politica israeliana non resta altro da inventarsi in questa campagna elettorale. Dove è stato costretto ad inseguire gli avversari. Dove si è procurato nemici su nemici. Dove ha perso credibilità. Nel tentativo di recuperare voti e consenso Netanyahu ha buttato acqua sul fuoco del dibattito tra sionismo e post sionismo, ha posto al centro della questione il ruolo d’Israele per gli ebrei nel mondo: “Israele è la casa di tutti gli ebrei.” E poi ha pronunciato un accorato invito agli ebrei ad una migrazione in massa verso le coste meridionali del Mediterraneo. Il no all’appello di Netanyahu è stato ripetuto con forza a più livelli. Le dichiarazioni del leader israeliano lasciano tuttavia ampio spazio alle interpretazioni. E’ innegabile che al momento in Europa il livello di guardia è stato superato, il fondamentalismo islamico ha lanciato la sua guerra santa al cuore del continente. Attacchi terroristici, profanazione di luoghi di culto, attentati alla stampa. Gli ebrei, ma non solo, sono purtroppo vittime del neo fanatismo islamico. In questo contesto l’invito lanciato da Gerusalemme a migrare in Terra Santa suona come un mantra per esorcizzare la paura e non una vera e propria strategia, lo stesso ragionamento vale per il nucleare iraniano. Il problema è che al momento non solo le comunità ebraiche ma tutti noi abbiamo la stessa paura e dobbiamo affrontare il medesimo pericolo. Per questo il messaggio di Netanyahu è in realtà fuorviante: lascia adito all’idea che l’unica alternativa possibile alla crisi attuale sia “fuggire” in un altro luogo, lontano da Parigi o Londra. Inoltre, le parole di Netanyahu introducono nella discussione il concetto che l’Europa non appartiene agli ebrei. Una tesi che è un falso storico, una bugia dalle gambe corte e pericolosa. Non ci può essere futuro per l’Europa senza la presenza ebraica, è nei fondamenti della nostra società e cultura. Molti di noi forse ignorano di aver avuto antenati israeliti, in ebraico sono chiamati anusim. Nello scorso secolo gli ebrei europei che non seguivano l’ortodossia dei dettami religiosi erano identificati come assimilati. Oggi, nell’era della globalizzazione parlare di assimilazione è un controsenso, alla stregua della definizione di razza. Insomma, l’appello di Netanyahu non risponde alle esigenze e necessità del momento, è pura propaganda elettorale. E soprattutto non indica la prospettiva di un percorso di pace con i palestinesi, non chiarisce il modus operandi per una soluzione politica che stabilizzi la regione e che resta il principale problema irrisolto di questo secolo.