Trump tratta la politica estera come lo stereotipo del giocatore di poker che con sigaro in bocca e bicchiere di whisky in mano rallegra il tavolo da gioco con battute demenziali e scadenti, quanto stia in realtà bleffando, in questo periodo di transizione, lo scopriremo ben presto. Indubbiamente il protrarsi di toni bellicosi nelle concitate settimane che hanno seguito l’esito elettorale non sono di buon augurio, ma la troppa vaghezza e le sintomatiche contraddizioni sul Medioriente potrebbero alla fine spingerlo a più ragionevoli consigli, ovviamente se ci saranno delle colombe e non dei falchi a suggerirgli all’orecchio cosa dire e fare. Delle simpatie del successore di Obama per taluni discutibili leader mondiali già sappiamo abbastanza, personaggi politici che se in Europa non fanno rabbrividire almeno diciamo che non lasciano sogni tranquilli a metà delle capitali del Vecchio Continente. Come non citare ovviamente la quasi referenziale ossessione di Trump per Putin. Vigilia di amichevoli incontri in qualche dacia nelle sperdute tundre caucasiche o in un ranch nel far west, tra abbracci, colbacchi e cappelli da cowboy, fucili da caccia e cartine geografiche da ridisegnare con nuovi confini. USA e Russia restano, ad oggi, le uniche forze in grado di imporre un piano di stabilizzazione per il Medioriente o almeno di risultarne in modo determinante l’ago della bilancia. La sintonia tra la retorica populista del neo presidente della più grande potenza al mondo e la visione imperiale dello zar del Cremlino sono una metamorfosi geopolitica verso la creazione di un nuovo ordine mondiale. Dove la futura collaborazione tra Donald e Vladimir aprirebbe, per ricaduta, uno spiraglio di sopravvivenza al regime di Bashar al-Assad in Siria, a quel punto uomo forte e presentabile alla comunità internazionale come male minore rispetto al caos dilagante e alla presenza dell’Isis nell’area. Eppure più che grande statista amato e adorato dal suo popolo Bashar è un tiranno che massacra e affama la sua gente, tortura gli avversari, rade al suolo interi villaggi. Un leader impresentabile che ha provocato immani sofferenze. L’assedio di Aleppo è il simbolo di un ignobile capitolo della disumanità che si protrae giorno dopo giorno in Siria. Una guerra civile che non risparmia nessuno, dove non c’è tregua o bandiera bianca che venga rispettata: scuole, asili e ospedali sono un bersaglio quotidiano. In Siria c’è una guerra resa ancor più schifosa dall’indifferenza internazionale. In quella regione martoriata l’integralismo islamico ha trovato linfa vitale e creato il suo falso mito, elevandolo a fine supremo. Anche se le milizie del califfato sono in ritirata su quasi tutti i fronti, lasciando dietro di loro una scia di sangue, la battaglia finale è lontana. E nessuno oggi è in grado di predire cosa sorgerà dalle ceneri di questo scontro, non siamo nell’Olimpo greco o nel Valhalla vichingo, siamo nel mondo terreno attraversato da distruzione e dall’incubo di ideologie aberranti. Credere che Trump possa essere la soluzione di tutti i mali non è una fiaba ma una barzelletta di pessimo gusto. Forse però non è nemmeno ciò che da lui pretendono i suoi elettori americani e i suoi sostenitori fuori dai confini statunitensi, in fondo a lui chiedono tutt’altro, qualcosa di assai semplice, appariscente e pacchiano: erigere un muro che impedisca di vedere altrove, porre un velo su quanto avviene oltre il loro piccolo recinto quotidiano. Allora è lecito ancora una volta domandarsi cosa effettivamente farà Trump una volta insediatosi nell’ufficio ovale per risolvere la catastrofe siriana? Agli occhi degli analisti scettici l’indirizzo dell’era trumpiana in Medioriente si preannuncia come benzina sul fuoco di un contesto già altamente esplosivo, oggi purtroppo partiamo da qui.
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Siria, caschi bianchi da Premio Nobel
In Siria tra esplosioni, distruzione, cumuli di macerie, polvere e sangue nel buio del terrore compaiono degli spiragli di luce, sono “angeli” i volontari di varie associazioni umanitarie che aderiscono alle Forze di difesa civile (SCDF), gente comune che corre in aiuto dei propri connazionali per salvare, quando possibile, delle vite umane. I volontari del SCDF hanno in questi anni raccolto stima e gratitudine da tutte le parti in conflitto ma, allo stesso tempo, ricevuto anche la critica di parteggiare esplicitamente per i rivoltosi contro il regime e di essere sostenuti da britannici, americani e turchi. Sono disarmati e diplomaticamente neutrali, impugnano vanghe e zappe, scavano per ore per estrarre gli intrappolati tra i detriti. Non guardano la bandiera politica o l’appartenenza religiosa, soccorrono tanto i seguaci quanto i nemici del regime di Assad. Perseguendo il motto, citato nel Corano: «salvare una vita è salvare l’umanità». Cittadini qualunque: panettieri, maestri, sarti, ingegneri, operai, medici. Raggiungono le 3mila unità e sono dislocati in quasi tutto il paese per portare soccorso a rischio costante della propria sicurezza. Tra loro anche una sessantina di donne, addestrate in tecniche di pronto intervento e salvataggio, fianco a fianco con i colleghi maschi, sfidando le tradizioni: «Da sotto le macerie una società nuova sta emergendo». Hanno salvato oltre 60mila persone ma il numero è destinato a crescere in queste ore di acutizzarsi delle violenze. Non sono invulnerabili ai proiettili e lo dimostra la triste nota che decine di loro sono morti, molti hanno perso la vita durante il drammatico interminabile assedio di Aleppo, l’evento bellico che gli ha dato notorietà internazionale e le prime pagine dei giornali. Indossano un casco bianco, è il loro segno distintivo. Spesso portano una mascherina sul volto, delle cuffie e una piccola telecamera sulla visiera. L’organizzazione è da tempo impegnata a denunciare l’uso delle barrel bomb. «I siriani perdono la vita per colpa di diverse tipologie di armi da fuoco, ma quelle più letali sono le barrel bomb a causa della loro natura indiscriminata». Queste le parole pronunciate da Raed Saleh, leader dei The White Helmets, al recente Consiglio di Sicurezza del Palazzo di Vetro. Gli uomini dal casco bianco sono un embrione di protezione civile, spontanea ed emblematica. Un simbolo di speranza. Sfidano i cecchini, le mine e i bombardamenti. La candidatura dei caschi bianchi siriani è in corsa per la massima onorificenza del Premio Nobel per la Pace, sono ore di attesa e Venerdì mattina a Stoccolma sapremo se ce l’avranno fatta. In appoggio alla loro candidatura si sono mossi i più famosi attori di Hollywood, da George Clooney a Susan Sarandon e Daniel Craig. Le possibilità che i caschi bianchi possano essere insigniti sono alte. Tuttavia le indiscrezioni danno per favoriti Juan Manuel Santos, il presidente colombiano, e Rodrigo Londoño, il leader dei guerriglieri marxisti delle Farc, che pochi giorni fa hanno siglato uno storico accordo di pace per porre fine all’ultimo grande conflitto dell’America Latina, dopo 50 anni di guerra civile e decine di migliaia di vittime. In Siria, durante questi cinque anni di guerra i media hanno raccontato storie di un conflitto da altre prospettive, abbiamo assistito alla resistenza di Kobane, all’ingresso delle bandiere nere del califfo a Palmira, agli aerei russi e ai carri armati turchi. Abbiamo visto i profughi, una marea umana, in fuga per disperazione ammassarsi sui gommoni. E poi piano piano i riflettori hanno incominciato ad accendersi su di loro, “impensabile” la notizia della candidatura al Nobel e in “contemporanea” l’uscita su Netflix di un cortometraggio, dedicato a questi “eroi qualunque”. In un genocidio senza fine, “se non sono i siriani a salvare i siriani chi altro lo farà?”. I caschi bianchi contribuiscono a dare un salto di notorietà straordinario ed un’immagine nuova alla Siria, un messaggio a cui non si può essere indifferenti.
LE PRIGIONI SIRIANE
Abbiamo tutti visto gli occhi persi nella paura del piccolo Omran, immobile e scalzo su quel sedile arancione di un’ambulanza ad Aleppo, un pulcino fragile, incenerito e macchiato di sangue. Nella storia di quel bambino c’è il simbolo della guerra civile siriana. Poi c’è quello che non vediamo e che ci viene svelato solo in parte, è la fotografia della vita nelle prigioni: fame, senza cure mediche, confessioni estorte con la tortura. È sufficiente il sospetto di far parte dell’opposizione al regime di Damasco per aprirti le porte di un calvario. Amnesty International pochi giorni fa ha diffuso sulla Siria dati allarmanti: 17.723 i carcerati morti nelle prigioni governative dall’inizio della rivolta ad oggi. 10 persone ogni giorno hanno perso la vita tra le sbarre. Il nuovo rapporto del movimento per i diritti umani fondato negli anni ’60 dall’attivista britannico Peter Benenson porta alla luce inquietanti dettagli sulle sevizie, sull’uso sistematico delle violenze corporali ai prigionieri da parte delle guardie carcerarie: frustate, bruciature con sigarette, acqua bollente versata sul corpo, scosse elettriche. Il governo siriano ha ripetutamente negato tutte le accuse. Chi è passato per le prigioni della dittatura racconta: «Le feste di benvenuto consistevano in percosse con barre di metallo e cavi elettrici».
Celle sovraffollate, sporche. Poca aria. «Mi hanno bendato prima di consegnarmi ad un ufficiale che ha iniziato ad insultarmi, quando mi ha detto che non avrei mai più rivisto la luce del sole gli ho creduto». Decine rinchiusi nella stessa stanza. Obbligati a dormire a turno. Costretti a bere l’acqua del gabinetto. Racconti raccapriccianti di costrizioni ad abusi sessuali tra detenuti. Sotto le minacce delle pistole. Picchiati a sangue dalle aguzzine guardie per giorni. «Abbiamo visto il sangue colare fuori dalla cella. Dentro erano tutti morti». Il luogo peggiore si chiama Saydnaya, carcere militare a 25 km al Nord di Damasco. È un carcere di massima sicurezza invalicabile. Un buco nero dei diritti umani: «Riconosci le persone dal suono dei passi. Avverti che stanno distribuendo il cibo dal tintinnio delle ciotole. Le urla annunciano nuovi detenuti. Durante le punizioni cala il silenzio, qualsiasi lamento prolunga l’agonia». Nelle carceri di Assad si annienta l’essere umano nello stesso modo di quelle degli insorti: “Un Inferno senza diavoli e fiamme” la definizione del giornalista italiano Domenico Quirico rapito in Siria nel 2013. La denuncia delle organizzazioni umanitarie chiama in causa anche i rivoltosi. Le crudeltà commesse dai miliziani del Califfo sui civili sono una piaga: crocifissioni, amputazioni di arti, lapidazione e fustigazioni. Massacri di massa, individuate almeno 17 fosse comuni. Uccisioni sommarie e guerriglieri liberi di compiere efferatezze senza limiti. Un genocidio dove villaggi vengono sistematicamente ed interamente sterminati. La popolazione che vive nel terrore, persone trattenute per lunghi interrogatori solo a causa delle loro opinioni politiche o culto religioso. Nelle zone in mano ai gruppi armati di matrice fondamentalista sono state create delle istituzioni amministrative e semi-giudiziarie. Un sistema processuale parallelo, basato sull’applicazione, più o meno rigida, della legge islamica (shari’a). Giovani portati in cella perchè: trovati a fumare in pubblico, indossavano abiti troppo aderenti oppure avevano avuto la malaugurata idea di radersi la barba. «Russia e Stati Uniti dovrebbero pretendere la fine dell’uso della tortura nelle carceri. Fermiamo le sofferenze di massa, è una vergogna». Le parole di Philip Luther direttore di Amnesty per le aree del Medioriente e del Nord Africa rinnovano il dibattito e le polemiche. In Siria fa paura ciò che si vede, ma non è meno terribile di quanto non vedremo mai.
L’INFINITA BATTAGLIA DI ALEPPO
Sul piano teorico in Siria ci dovrebbe essere la tregua, ma le continue violazioni dell’accordo sono peggiorate sino alla definitiva riapertura del conflitto. Aleppo in mano ai ribelli è assediata da mesi dall’artiglieria del regime. Intrappolati oltre 250mila civili, il 60% sono donne e bambini che vivono da troppo tempo tra le bombe. Il governo di Damasco ha annunciato corridoi umanitari per i civili e coloro disposti a deporre le armi. Tuttavia la Comunità Internazionale esprime ancora scetticismo e la catastrofe umanitaria pare inevitabile. È la deriva inesorabile di questo paese. La fuga di milioni di profughi, verso i quali manca ancora umana solidarietà, è un problema organico. Nella lettura della storia attuale del Medioriente prevale disordine e discordia, la cronaca è ripetitiva e talvolta ossessiva. Il conflitto, in questa terra tre volte santa, si è radicalizzato e globalizzato a partire dall’informazione. Eppure ad Aleppo tutti annunciano di aver vinto. Anche l’esito finale della battaglia è caos per una regione che non ammette sconfitte. Subissati dalle notizie, aggiornati in tempo reale sul numero dei morti, sull’evoluzione dei combattimenti o sul macabro rituale degli attentati. Correndo il rischio di finire assuefatti alla violenza barbarica giornaliera e di assimilare come verità assolute le retoriche della propaganda. In Siria non ci sono solo due schieramenti, buoni e cattivi, i ” pro” o “contro” Assad, i “filo” e gli “anti”. È un micro sistema di situazioni – drammatiche e disastrose – che si intrecciano con le passioni – odio, rabbia e paura – e la religione nelle aberrazioni più fanatiche. Una crisi quella siriana che affonda le robuste radici nella stagione delle “primavere arabe”. Un periodo delicato e complesso, un vaso di Pandora che ha innescato rivolgimenti e poi conclusosi con l’esplosione di contraddizioni antidemocratiche per gran parte del mondo arabo investitone. Cinque anni ininterrotti di morte, eventi infausti a catena hanno partorito solo mostri. Uomini venali lanciati in una impresa spregevole: mantenere in vita un regime dittatoriale o edificare un nuovo califfato. Deporre il tiranno laico o elevare la teocrazia del fondamentalismo islamico. Per quasi tredici secoli, dalla morte di Maometto al rovesciamento dell’ultimo sovrano ottomano, il Medioriente è stato governato da un “successore” del profeta. Nel maggio 2014 Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato ufficialmente la nascita del nuovo califfato, lanciando la guerra “santa” al mondo. Nei mesi a seguire il terrorismo colpisce l’Europa, non per caso. È guerra: il 14 Luglio a Nizza in una notte muoiono 84 persone. In Siria nello scorso mese 1590 civili hanno perso la vita. Quanto accade in queste ore nel golfo della Sirte in Libia, lungo le rive del Tigri a Mossul in Iraq, tra le dune del Sinai in Egitto è geograficamente fuori dai nostri confini ma, non può essere trascurato. Che la cittadella di Aleppo cada in mano ad Assad o vinca l’offensiva dei rivoltosi l’onda d’urto avrà in e per l’Europa un effetto negativo. I fallimenti della diplomazia internazionale per porre fine alla guerra civile, l’assenza di transizione politica, i profughi che supplicano soccorso e vengono respinti, i massacri compiuti dai fedelissimi al regime, l’azione militare russa sono tutti elementi che hanno contribuito in maniera diretta all’innalzamento del livello del conflitto, aumentando, purtroppo, in modo crescente la “popolarità” del radicalismo islamico. Sino a giungere all’impossibilità oggettiva di essere in grado di neutralizzare e prevenire devastanti ondate terroristiche. L’Isis non può essere sconfitto con un assalto al palazzo del sedicente califfo perchè deve essere prima di tutto ridimensionato il potere attrattivo che emana sia dentro che fuori il Medioriente. Occorrono reali e concreti colloqui di pace, c’è una regione da ricostruire dalle macerie, mattone dopo mattone.
LA PACE IN SIRIA PER PAPA FRANCESCO
Siria. Per fare le guerre servono tre cose: soldati, armi e denaro. Per fare la pace una sola: la volontà. “La pace è possibile!” Ripete instancabilmente Papa Francesco e inaspettatamente, in queste ore, anche Ankara apre uno spiraglio: “Stabilità in Siria”. È stata la dichiarazione rilasciata dal neo premier turco Binali Yildirim che ha aggiunto: “sono certo che arriveremo alla normalizzazione delle relazioni con la Siria.” Il governo di Erdogan, dopo il recente attentato di Istanbul, stende per la prima volta la mano a Bashar Al Assad, in un gesto di disgelo che potrebbe avere rilevanti ricadute. Intanto però nel paese dopo 5 anni di guerra non c’è tregua che regge. Esplosioni nel mercato di Idlib, bombe a Homs mentre, ad Aleppo si combatte di nuovo nei quartieri della città vecchia e lungo l’arteria principale per l’entroterra del paese. La Siria oggi, di fatto, non esiste più, quello che rimane è una cartina geografica con tante bandierine colorate che si spostano come il vento. Zone sotto il controllo delle forze governative e quelle in mano agli eserciti antigovernativi, aree che si allargano e poi si restringono nella quotidianità più totale, terre dove spadroneggiano i signori della guerra. Formazioni “rivoluzionarie buone e cattive”, partigiani e fascisti islamici: giovani ragazze curde che combattono per difendere la casa e incappucciati jihadisti con l’obiettivo di portare il mondo sul baratro. Spazio vitale del peggiore fondamentalismo di matrice terroristica: Isis e Al Qaeda. Interessi più o meno velati di mezzo mondo:. In un conflitto che da locale ha assunto il livello di uno scontro globale. In mezzo stretti in una morsa di morte milioni di profughi, ai quali la storia, come ricorda Papa Francesco, ha provocato una “indicibile sofferenza”. Vittime della catastrofe siriana “costretti per sopravvivere alla fuga verso altri Paesi”. E per loro il Vescovo di Roma ha lanciato un nuovo accorato appello, chiedendo una sensibilizzazione nelle parrocchie nella diffusione di un messaggio di unità e speranza: “sostenere i colloqui di pace verso la costruzione di un governo di unità nazionale”. L’azione diplomatica della Santa Sede è in piena attività da mesi, la Caritas internazionalis ha ufficialmente aperto una campagna umanitaria, l’operazione prevede oltre all’invio di generi di prima necessità anche rifugio e protezione alla popolazione stremata. Il pensiero di Bergoglio è per la comunità araba cristiana: vittime dell’odio e delle discriminazioni. Più volte la minoranza cristiana è stata al centro delle parole del Santo Padre che in queste ore invoca un salto di qualità, il passaggio dalle preghiere alle opere concrete: negoziati tra i principali attori di questo eccidio. “Affinché prendano sul serio gli accordi e si impegnino ad agevolare l’accesso agli aiuti umanitari”. In 50 anni di storia la Siria ha avuto due rivoluzioni: la presa del potere del partito Ba’th nel ’63 e la primavera araba nel 2011. Entrambe degenerate in due controrivoluzioni: la prima nel ’70 con l’ascesa del gruppo Alawita e l’instaurazione della dittatura, la seconda con l’attuale massacro civile. Un conflitto intestino drammatico che come crede Francesco potrà terminare solo “con una soluzione politica”, spezzando il nodo gordiano degli opportunismi. Mutuando Ernest Hemingway “in una lotta tra cani non è la stazza ma la ferocia che spesso decide le sorti della sfida”. Per placare le belve che popolano la Siria c’è da mettere molte museruole, rilanciare il ruolo della diplomazia e applicare una risoluzione Onu mai rispettata. Congelata in attesa di un dialogo realistico basato su condizioni etiche.
SIRIA LA TREGUA IN & OUT
Siria, tregua in e out, quella entrata in vigore a Febbraio per consentire il dialogo di una trattativa delicata è stata ripetutamente violata. A livello diplomatico c’è tuttavia un cauto ottimismo, ma di fatto la guerra civile continua. Aleppo muore. È l’ennesimo appello lanciato dalle organizzazione cattoliche. “Servono soluzioni politiche. Tutto quello che è successo in questi anni ha prodotto una situazione che sarà molto difficile da ricostruire”. Ha detto il cardinale Pietro Parolin alla stampa. La battaglia di Aleppo è stata una delle più cruente di questi anni, la Gettysburg siriana. Decine di morti nei feroci scontri, strada per strada, casa per casa, tra gruppi ribelli e forze governative. Il controllo di Aleppo, la capitale del Nord della Siria è nevralgico. Per motivi economici e culturali. Chi conquista la città vince la guerra di primavera. Per raggiungere l’obiettivo ogni mezzo. Nessuna remora. E così la devastazione della battaglia ha colpito purtroppo luoghi che per definizione simboleggiano la neutralità. “Troppo spesso gli attacchi contro cliniche e personale medico non sono eventi isolati o accidentali, ma piuttosto rappresentano un obiettivo sensibile. Tutto ciò è vergognoso e ingiustificabile” ha tuonato Ban Ki-moon ai membri del Consiglio di Sicurezza nella riunione che ha adottato all’unanimità la risoluzione 2286 (2016). Nel testo la condanna agli attacchi contro le strutture sanitarie, e il principio che l’assistenza sanitaria è un bene primario, sia per chi indossa una uniforme che per i civili. Ad Aleppo culla della civiltà questo principio è stato costantemente violato dall’abominio del danno “collaterale”. Colpito l’ospedale ostetrico di Al-Dabeet. Stessa sorte era toccata alla clinica Al Marja. Chiuso l’ospedale Al- Quds nel quartiere di Sukkari dopo il raid aereo che ha sollevato lo sdegno internazionale e in cui hanno perso la vita almeno 50 persone, tra le vittime sei medici e tre bambini. Bombardamenti mirati che in pochi secondi riducono le corsie e le sale operatorie in cumuli di macerie. Nella città dei 10 ospedali operativi, che si contavano prima dell’inizio del conflitto, secondo fonti, solo cinque sarebbero attualmente in funzione con una capacità di circa 500 posti letto. La violenza barbarica è la tragica realtà di un Medioriente senza pietà. E dove per sopravvivere l’unica disperata soluzione è la fuga. Migliaia di arabi cristiani hanno in questi anni abbandonato le proprie case, intraprendendo un doloroso cammino. Lasciano l’Inferno delle persecuzioni, della profanazione dei luoghi di culto, degli stupri di massa, delle conversioni forzate e delle torture. Nella lettera che papa Francesco ha indirizzato al patriarca copto di Alessandria la denuncia: “Sono ben consapevole della vostra seria preoccupazione per la situazione in Medio Oriente, specialmente in Iraq e in Siria, dove i nostri fratelli e sorelle cristiani e altre comunità religiose devono affrontare prove quotidiane”. La linea ufficiale del Vaticano è ancora quella esplicitata durante il Concistoro del 2014 quando emerse che “un Medioriente senza cristiani sarebbe una grave perdita per tutti”. Sul piano strategico il Concistoro pose le basi per un’alleanza storica con la Chiesa ortodossa, nel nome di una comune visione tra il pontefice e i patriarchi d’oriente. Un patto per “incoraggiare i cristiani affinché restino in Medio Oriente”. Nel disegno della diplomazia della Santa Sede anche la creazione di apposite “zone di sicurezza” per i profughi e la necessità politica d’introdurre un modello di coesistenza culturale civile. La via per la pace, in Medioriente e nel mondo passa attraverso il prossimo World Humanitarian Summit che si svolgerà a Istanbul il 23 Maggio. Il rischio è di perdere altro tempo, inutilmente.
LO SCHIAFFO DI ERDOGAN
Nel vertice di Bruxelles l’Unione Europea e la Turchia hanno trovato un accordo generale, ma solo nei principi, sul piano per alleviare la crisi dei migranti. Forti perplessità sono state espresse dall’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), che ravvede violazioni al diritto internazionale, e la decisione finale è stata posticipata al 17 marzo a causa dei nuovi diktat presentati da Ankara. Il governo presieduto da Ahmet Davutoglu ha alzato l’asticella delle richieste, una prova di forza: costi per il rientro dei migranti irregolari in suolo turco a spese degli europei, per ogni siriano riammesso un’altro profugo smistato in un paese dell’Unione. Inoltre l’Europa dovrà erogare altri 3 miliardi oltre ai 3 stanziati per il fondo rifugiati. Libera circolazione per i cittadini turchi, sollevando l’obbligo di visto e accelerare i negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa. L’ultimo punto, uno schiaffo all’Europa, è il più difficile da digerire per le ripetute inadempienze sui diritti umani e la libertà di stampa. In ultimo il caso del giornale Zamana la cui linea editoriale è stata “ammorbidita” con l’uso della polizia. La Turchia, a lungo fedele alleato degli Stati Uniti e membro strategico della NATO, ha svolto un ruolo fondamentale e delicato nella difesa dell’Europa e del Medio Oriente sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Teatro del conflitto della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica ieri e della guerra civile siriana con l’ingerenza Russa oggi. Una potenza con carattere deterrente in grado di frenare qualsiasi mira espansionistica in Medioriente. La presenza della Turchia nella NATO è fondata su un principio di reciprocità: la Turchia mette a disposizione le strutture logistiche nel suo territorio, mentre il blocco degli alleati occidentali fornisce tecnologie e assistenza militare ed economica. Il patto di ferro è andato scricchiolando con l’aggravarsi dello scenario siriano e per l’impegno bellico di Ankara in Siria: attualmente l’esercito turco ha aperti due fronti di guerra. Ha trasformato le città curde nel sud-est della Turchia in zone militarizzate, nello sforzo di rimuovere i militanti indipendentisti curdi presenti in quella regione. E ha lanciato attacchi con intensivi bombardamenti contro le forze curde nel nord della Siria. La lotta all’eterno nemico curdo ha convinto Ankara ad intavolare segrete, nemmeno troppo, alleanze con gruppi fondamentalisti islamici. È di pochi giorni fa la pubblicazione di un documento ufficiale, la cui autenticità non è ancora stata tuttavia riscontrata, che dimostra il sostegno della Turchia al transito dei foreign fighter. Il ministero degli interni avrebbe fornito le disposizioni per l’appoggio logistico ai jihadisti ceceni e tunisini di Jabhat al-Nusra, da utilizzare in chiave anti curda in territorio siriano. La denuncia dei legami con l’Isis ha provocato in questi mesi non poche grane al governo turco che ha risposto alle critiche internazionali con censure alla stampa interna: il direttore Can Dundar e il caporedattore Erdem Gul del quotidiano Cumhuriyet sono sotto processo per aver pubblicato fotografie di convogli mentre trasportano, probabilmente, armi dalla Turchia ai jihadisti. I due giornalisti rischiano la pena dell’ergastolo. Nella “classifica” sulla libertà di stampa, stilata da reporter senza frontiere nel 2015 in 180 paesi, la Turchia è al 149° posto. Le organizzazioni non governative denunciano che più di 30 giornalisti sono attualmente detenuti in cella, giornalisti terroristi l’accusa. Nelle elezioni del 2002 molti analisti plaudirono alla pluralità partitica presente nello scenario turco, espressione, si pensava, di una transizione democratica. L’ascesa di Erdogan e del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo Islamico-conservatore (AKP) chiudeva il lungo periodo kemalista. L’AKP smantellò il sistema di controllo del potere dell’esercito, introducendo normative atte a ridimensionare l’influenza politica della gerarchia militare. Ebbene, quello che pareva un processo di democratizzazione e civiltà oggi merita attenta riflessione prima di tutto di quella Europa che deve decidere l’ingresso della Turchia nella sua Comunità.
I PREDATORI DELLA CULTURA
Inarrestabile lo scempio alla storia che compie impunemente e quotidianamente l’esercito del Califfato in Medioriente. Barbaramente in queste ore hanno raso al suolo il monastero di Mar Elian, in Siria. Poche ore dopo l’uccisione del più noto archeologo locale. È uno scenario di pura follia che si allarga a tutta la regione. Abbiamo contattato a Gerusalemme, dove lavora, Carla Benelli, storica dell’arte che da anni è impegnata in campagne di scavi e restauro in Terra Santa: “A 82 anni Khaled al-Asaad era l’archeologo siriano che più di tutti conosceva il sito di Palmira. Era in pensione ormai, dopo essere stato il direttore del sito archeologico per quaranta anni fino al 2003, ma continuava a studiare e promuovere il sito, frequentando conferenze internazionali e scrivendo articoli e pubblicazioni scientifiche. La sua uccisione brutale sembra confermare che l’Isis intende terrorizzare il personale che ancora lavora nei siti archeologici per conto del governo.” Lo stato del terrore allarga i propri confini, lambisce la Palestina. Miete nuove vittime nel nome di una ideologia aberrante. Sfregiando la storia nel tentativo di cancellarla per sempre. Le bandiere nere che sventolano sono il segnale della pulizia etnica culturale in corso, dove vengono issate al cielo è la fine. “È molto difficile valutare in queste condizioni i reali danni causati dalla guerra al patrimonio culturale siriano. C’è molta propaganda intorno alla questione, e non è possibile stimare con precisione e oggettivamente il livello dei danni in questo momento. Sembra però purtroppo confermato che siano ingenti.” Come chiarisce Carla Benelli siamo di fronte a crimini immani e la risposta per preservare, salvare, il patrimonio non è proporzionata alla violenza in atto. Eppure per anni proprio quei luoghi hanno visto padre Michele Piccirillo, archeologo francescano e biblista scomparso pochi anni fa, promuovere la tutela dei beni artistici in tutta la Terra Santa: “Come sempre molto del suo impegno era rivolto alla formazione del personale locale, proprio quel personale che in questo momento è sotto attacco. Non ci soffermiamo mai abbastanza a valutare la perdita enorme alle risorse umane oltre che materiali che questa guerra sta causando alla Siria. I ragazzi e le ragazze formate dai progetti sostenuti da padre Michele condividono con i connazionali una situazione di vita drammatica. Alcuni di loro sono dovuti fuggire all’estero, altri sono ancora in servizio e rischiano la vita ogni giorno, per cercare di proteggere un patrimonio dal valore immenso per tutta l’umanità.” Carla in qualità di assistente di padre Michele, ha preso parte a vari scavi, da Sebastia a Gerico, dal Monte Nebo a Damasco. Del team di padre Michele ha fatto parte anche Osama Hamdan, architetto palestinese e professore universitario, al quale abbiamo chiesto di commentare il rischio che incombe tragicamente sulla Palestina: “Il patrimonio architettonico palestinese è enorme, però negli ultimi anni subisce un attacco feroce e veloce. Sia i centri abitati che i villaggi sono in pericolo. Il nostro patrimonio appartiene a varie epoche, una stratificazione di civiltà dalle più antiche della regione fino al periodo ottomano. La maggior parte è in abbandono e a rischio di perdita. Purtroppo finora l’Autorità Palestinese non è riuscita a disegnare una strategia per salvare questo patrimonio. Non siamo nemmeno consapevoli della sua importanza, del suo valore storico e del ruolo fondamentale che potrebbe svolgere per salvaguardare la nostra comunità anche oggi. Se la situazione dovesse continuare in questo modo, potremmo perdere una grande parte del nostro patrimonio.” Per salvaguardare i beni storici in Siria è stato fatto troppo poco, praticamente nulla. Domani il bersaglio della furia dei predatori potrebbe diventare la Palestina, evitare che ciò accada è impedire un nuovo disastro, una catastrofe mondiale: “È necessario investire la massima attenzione sul settore, rafforzare le risorse umane, il rapporto con le comunità locali, vigilare sull’applicazione delle leggi internazionali, tenendo conto che la maggior parte dei reperti archeologici del Medioriente viene comprato da istituzioni e privati in Occidente. L’attacco dell’Isis al personale siriano va letto anche in questa ottica, l’indebolimento delle istituzioni locali permette al traffico internazionale di agire indisturbato. Fino a quando il traffico illecito di reperti archeologici, anche da parte dell’Isis, non viene bloccato a livello internazionale, sarà inutile scandalizzarsi e emettere comunicati di condanna.” La richiesta del sostegno internazionale è il grido di allarme per un Occidente sino ad oggi sordo e lontano.
Bandiera nera su Palmira, il terrore è più vicino
Palmira è caduta in mano allo Stato islamico di Al Baghdadi. La bandiera nera sventola sopra il patrimonio architettonico e culturale del mondo, luoghi memoria dell’umanità, culla della cultura ellenistica. Un sito archeologico unico al mondo. La “Venezia del deserto” è in balia di un esercito votato alla morte e alla distruzione totale, l’orda degli incappucciati del Daesh sfila nelle strade dell’antica città e punta verso la capitale, Damasco. La difesa dei soldati filo governativi si è come piegata, si è sfaldata sotto l’attacco delle ben armate ed equipaggiate milizie fondamentaliste. Il collasso della linea del fronte, la rotta e la fuga degli uomini fedeli a Bashar al Asad ha lasciato il campo libero alle forze del Califfato. La sconfitta è pesante, anche sul piano mediatico. L’ingresso delle truppe vittoriose dell’ISIS nell’oasi della “Palma”, la parata militare, le solite assurde immagini di militari e civili nemici catturati che le televisioni ci hanno fatto vedere in queste ore, giustiziati e sgozzati sono il segno evidente della catastrofe. I video postati sul web, altre atrocità disumane mostrate al mondo. E ora il rischio che la furia si abbatta sul parco patrimonio dell’Unesco, distruggendo, devastando, saccheggiando tutto come purtroppo è già accaduto a Mosul, Nimrud e Hatra. La perdita di Palmira, in aramaico Tadmor, sarebbe un danno enorme, incalcolabile. Una storia millenaria è, in queste ore, ad un passo dal baratro, vittima della brutale violenza dei tempi odierni. Venerdì mattina il governo ha fatto “oscurare” la zona di Palmira, tagliando i collegamenti telefonici e internet. Nell’era della globalizzazione, della massificazione mediatica la battaglia è diventata silente. Eppure anche la notizia, solo un anno fa, della nascita dell’autoproclamato Califfato non aveva avuto grande risonanza, provocando qualche stupore ma nulla di più. In dodici mesi non è mancato giorno che nei nostri media non venissero riportate notizie del terrore jihadista. Una scia di sangue che scorre dal Medioriente all’Africa, sino all’Europa. E che fa paura indistintamente a cristiani, musulmani ed ebrei. Pochi giorni fa Sergio Minerbi, giornalista ed ex diplomatico israeliano, in un lungo incontro nella sua abitazione a Gerusalemme commentava: “L’ISIS può diventare una cosa preoccupante, è sbagliato sottovalutarlo. Il mio metro di giudizio su questa questione è l’Arabia Saudita, se loro si allarmano io devo farlo di più.” Prima degli emiri e del Mossad prontamente si è mosso Obama. Inquietati dall’espansione a macchia d’olio della zona d’influenza del Califfato nella regione gli USA hanno rifornito con armi pesanti ad Iraq, Arabia Saudita e Israele. “La Siria è la cartina tornasole del Medio Oriente.” Dice Minerbi. Il Paese è in guerra civile dal 2011. I morti sono centinaia di migliaia. I rifugiati milioni. Un conflitto dalle dinamiche regionali e con attori internazionali: Libano, Turchia, Iran e Paesi del Golfo. In Medioriente si disegnano nuovi confini, in un risico drammatico a cui assistiamo inermi. Per Minerbi il gioco politico è estremamente intrigato: “Asad è meno pericoloso del Califfato ma essere alleato dell’Iran lo rende poco digeribile ad Israele. In fondo una quasi alleanza con Asad in chiave anti ISIS a mio avviso sarebbe la scelta migliore.” Si dice che il nemico del mio peggior nemico sia il mio migliore amico. Nei giorni passati le bandiere dello Stato islamico sono state issate nel Golan a pochi metri dalla rete di recinzione tra Israele e la Siria. Netanyahu e l’Occidente tergiverseranno ancora? L’Europa, dove all’azione dello Stato Islamico non c’è stata una vera e unita comune reazione, non è un esempio confortevole. “Ho visto anni fa, con i miei occhi quando ero diplomatico quello che la CEE poteva o non poteva fare – rispetto ai veti dei singoli Stati – e oggi noto che l’Unione Europea non può fare molto.” L’ex uomo della politica estera di Israele, colui che ha costruito e saldato i rapporti tra Gerusalemme e Bruxelles, non è ottimista. “Nei mesi passati c’è stata un’alzata di scudi eccessivamente misteriosa.” Se le colonne di Palmira dovessero rotolare sotto i colpi delle sigle del terrore il rumore sarebbe assordante per le nostre coscienze.
#SAVEYARMOUK
Siria. Periferia di Damasco. Quartieri proletari della capitale. Nel campo profughi di Yarmouk, cuore della comunità palestinese in Siria che contava 150 mila presenze. “Mancano le condizioni minime per poter fornire assistenza umanitaria in una situazione d’emergenza totale.” Sono state le parole con le quali il portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite Chris Gunness ha fotografato la realtà, aggiungendo: “Questa situazione mette a serio rischio la vita di 18 mila persone, donne e bambini palestinesi e siriani.” Ma vediamola meglio questa realtà dove migliaia di palestinesi sono intrappolati nel campo profughi, vittime del conflitto e delle barbarie dell’ISIS.
In Medioriente in questo mese di aprile la primavera tarda ad arrivare e le condizioni climatiche come quelle umanitarie girano al peggio: cibo, acqua sono razionati da giorni. Per scaldarsi e cucinare vengono bruciati mobili e vestiario, c’è chi ha dovuto dar fuoco al letto, alla porta di casa, alle finestre, sedie e quant’altro possa alimentare le fiamme. L’acqua scarseggia, il freddo inverno con temperature sotto lo zero ha fatto esplodere le tubature, al momento in media per famiglia sono disponibili 20 litri di acqua ogni cinque giorni. Interi edifici sono stati danneggiati gravemente nei bombardamenti. Mancano i medicinali di prima necessità. L’allarme viene dall’agenzia per le nazioni unite UNWRA, che ha lanciato una campagna sui social network, #SaveYarmouk chiedendo urgentemente l’apertura di un corridoio umanitario. La comunità internazionale ancora una volta tarda ad intervenire e la situazione è insostenibile: siamo al limite di una catastrofe umanitaria. Dal 28 marzo, infatti, gli operatori delle Nazioni Unite non sono in grado di distribuire generi di prima necessità nell’area di Yarmouk. Il campo profughi è tagliato fuori dal mondo, assediato dalle forze dell’ISIS, a nulla è valso il recente appello ad interrompere le ostilità e rispettare gli obblighi di garantire la protezione dei civili. La guerra del Califfato non prevede il rispetto del genere umano, purtroppo l’abbiamo scoperto noi europei anche a nostre spese e al momento un intervento internazionale pare l’unica soluzione per proteggere i civili.
Agenzie d’informazione internazionali in queste ore hanno annunciato che le principali fazioni palestinesi presenti in Siria hanno raggiunto un accordo e concordato di operare congiuntamente con l’esercito governativo siriano contro l’esercito dell’ISIS. Mentre da Ramallah l’OLP ha rifiutato di prendere parte in un’azione armata di qualsiasi tipo. Intanto guerriglieri palestinesi, per proteggere i propri civili, sono impegnati in una resistenza strenua, casa per casa, strada per strada. “Abbiamo deciso di avere una cooperazione permanente con il governo siriano.” Ha detto Ahmed Majdalani inviato speciale del presidente palestinese Abu Mazen a Damasco che poi ha aggiunto: “lavoreremo con la Siria per ripulire il campo profughi dai terroristi”. La smentita è giunta da Ramallah poco dopo le dichiarazioni di Majdalani, confermando una spaccatura netta all’interno del fronte palestinese, vedremo nelle prossime ore quanto la posizione presa dall’OLP verrà accettata dai palestinesi che vivono in Siria. Sin dall’inizio del conflitto le fazioni palestinesi avevano optato per tenere una posizione di neutralità. Non è servito a nulla. La guerra non risparmia nessuno in questa regione, in particolare chi chiede di essere lasciato vivere in pace. Secondo le prime stime sarebbero almeno 200 i morti per malnutrizione e mancanza di medicinali a Yarmouk. Una cinquantina invece i guerriglieri palestinesi uccisi in combattimento dalle forze dell’ISIS in questi giorni. “Gente innocente è utilizzata come scudi umani dalle parti in conflitto” ha affermato Federica Mogherini, Alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione Europea. Mentre e non va sottovalutato, nella Striscia di Gaza avvenivano le prime manifestazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi di Yarmouk.