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6 GIORNI

Giugno 1967. La guerra per rompere l’anello imposto a Israele dagli stati arabi è iniziata da poche ore e già l’esito è scontato. Nel Sinai la disfatta dell’esercito egiziano è catastrofica, i soldati del “faraone” Gamal Abdel Nasser sono allo sbando completo. Le divisioni di fanteria e i corazzati non hanno retto l’urto contro la tecnica e tattica dei comandi di Tel Aviv. Nei giorni a seguire l’esercito di Tzahal avanzerà sul fronte meridionale verso il canale di Suez e su quello nordorientale nel Golan in direzione di Damasco, praticamente indisturbato. Gli aerei con la stella di Davide hanno assunto la supremazia in cielo, grazie ad un attacco preventivo, chirurgico. Con un blitz preparato e lungamente studiato nei mesi precedenti, messo in atto nei minimi dettagli dal ministro della difesa Moshe Dayan e dal capo di stato maggiore Yitzhak Rabin, hanno dilaniato l’aviazione avversaria.

La conquista di Gerusalemme est arriva la mattina del 7 giugno con la ritirata della Legione araba fedele al re Hussein di Giordania. L’intervallo di potere della casa Hashemita in Palestina termina disastrosamente. La bandiera di Israele sventola sulla Spianata delle Moschee, prima di venire “diplomaticamente” ammainata. Le immagini di repertorio ritraggono le emozioni dei giovani e sorridenti soldati con la divisa verde al Muro del Pianto. Baciano devotamente la pietra bianca del perimetro dell’antico Tempio, in un clima di festa e canti. Nel volto di quei militari prevale un trasporto mistico, che racchiude la sensazione dell’intromissione divina, la Shekinà, nella battaglia. Coloro che volevano, con l’aiuto di Allah, spazzare via dalla Terra il fazzoletto di Israele avevano perso di nuovo.

Dopo 6 giorni di guerra, il 10 giugno di 50 anni fa il conflitto è praticamente concluso, inizia allora per Israele una simmetria che segnerà la sua storia contemporanea. È l’espansione in Palestina, prima dettata da ragioni strategiche di difesa e sicurezza, poi trasformata in status quo ed un domani forse in annessione.

Il 22 novembre dello stesso anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva la risoluzione 242, il pilastro della “pace giusta e duratura”. Questa volta oltre agli stati arabi è anche il governo israeliano a decidere di non ascoltare. Continuando il processo di riduzione drastica dello spazio fisico dei palestinesi, disegnando militarmente e politicamente una cartina destrutturata della Palestina, un puzzle di scavi archeologici, riserve naturali, zone di tiro, avamposti militari, muri e reticolati, strade e insediamenti coloniali. E che porterà con gli Accordi di Oslo alla “ghepardizzazione” dei Territori Palestinesi Occupati: divisione in tre diverse tipologie di aree di controllo.

L’assurdità ideologica che il diritto degli uni non è conciliabile con quello degli altri ha alienato entrambi. La filosofia israeliana del limite della pazienza e quella palestinese del vittimismo hanno ampliato la frattura tra i due popoli, oggi insanabile dal dilagare del jihadismo e del populismo. Il più martirizzato dei popoli e il più costantemente umiliato condividono il destino, tra muri di separazione o di sicurezza, tra check point o kamikaze: “una terra senza uomini per uomini senza terra” o “una terra senza diritti per un diritto alla terra”? La risposta è amara quanto i possibili scenari. Il primo, è che non avvengano cambiamenti “climatici”, in quel caso per i palestinesi sarebbe la strada di un lento ed inesorabile stato “soft” di apartheid. Nel secondo, e meno probabile, gli accordi porteranno ad uno stato binazionale. Nel terzo, con negoziati di compensazione, Gerusalemme diventa la capitale di due stati confinanti. Nell’ultimo gli stati arabi riconoscono Israele e aprono ai trattati, i palestinesi entrano in una sorta di confederazione, l’Egitto torna “ufficialmente” responsabile per Gaza e alla Giordania è “affidata” la West Bank. Ma su tutto potrebbe ancora prevalere l’estremismo.

L’IGNORANZA TRUMPIANA SU ISRAELE E PALESTINA

Quando nel 2010 Benjamin Netanyahu si presentò a colloquio alla Casa Bianca il padrone di casa non degnò, il primo ministro israeliano, del picchetto di onore e lo fece entrare da una porta secondaria. In quell’incontro che non lasciò notizia, quasi non fosse mai avvenuto, lo scontro tra i due leader ebbe toni pesanti, così raccontano i ben informati. Nessuna stretta di mano immortalata da foto di rito, nemmeno la classica amichevole conferenza stampa congiunta. I dissidi tra Obama e Netanyahu hanno avuto picchi di tensione altissima, ciò tuttavia non ha alterato lo stretto legame tra i due paesi, al contrario l’impegno americano in favore di Israele non è mai venuto meno, anche se il premier israeliano scaltramente, ha sempre lasciato passare il messaggio opposto al fine di screditare Obama e la sua visione. Sulla questione della Terra Santa l’ex presidente afroamericano aveva un’idea apertamente contraddittoria con l’indirizzo politico espresso dal governo di Netanyahu: possiamo accettare, praticamente, tutto, tranne il prolificare degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Ovviamente durante tutto il ciclo obamiano “il falco” della Knesset si adoperò per autorizzare altre colonie, facendo orecchie da mercante ai richiami di Washington. In realtà l’approccio di Obama all’eterno conflitto mediorientale non aveva nulla di nuovo, era in linea con quello dei suoi predecessori, a partire da Carter e sintetizzabile nel motto: porre le basi per la creazione di uno stato palestinese e assicurare la sicurezza di Israele. Clinton e Bush junior rafforzarono questo assioma, lavorando alacremente al processo di pace e organizzando una serie di incontri trilaterali dalle tante, troppe, aspettative. L’agenda della diplomazia statunitense, a prescindere dal partito di appartenenza del presidente e dai risultati raggiunti, era scritta in calce. Uno spartito passato di mano in mano agli inquilini della Casa Bianca. Per buttare al vento decadi di diplomazia internazionale in Medioriente è bastata una frase banale di Trump durante una conferenza stampa, nei giorni scorsi, al fianco dell’amico sodale Netanyahu: uno o due stati per me non fa differenza. Aggiungendo: decidano loro. L’ignoranza trumpiana, perchè di questo si tratta, lascia sgomenti. Com’è possibile trattare con tanta leggerezza una questione così intrigata e complessa? E che alla fine alimenta solo violenza. Il magnate newyorkese in pochi secondi ha smantellato l’impalcatura che reggeva il sogno di poter aver, un giorno, uno stato di Palestina in pace e limitrofo con Israele. Due popoli per due stati non è più una priorità delle trattative, non è più il faro nel mezzo di una tempesta implacabile. La soluzione dei due stati non è solo una voglia del momento o un castello di sabbia, è una lunga e tortuosa strada che nasce da un consensus internazionale su di una formula strategica per porre le condizioni di una pace futura: la Terra Santa è di entrambi, palestinesi ed israeliani, così come Gerusalemme. E se si vuole spingere per riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele, allo stesso tempo si dovrebbe almeno concedere che la parte est della città Santa diventi la capitale dello stato palestinese. O no? Trump, al solito, naviga nella vaghezza, scimmiotta, è sconcertante: al momento si è impuntato per spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, sfidando l’ONU. Una chiave di lettura delle affinità e influenze della destra israeliana su Trump è certamente da cercare nei consigli del genero Jared Kushner, un pontiere tra Gerusalemme e Washington, è stato lui ad aprire la linea di credito di Netanyahu sul suocero. L’obiettivo immediato di Netanyahu è definire una stretta alleanza con il mondo arabo “moderato”: Egitto, Giordania e stati del Golfo. Più o meno dittature al pari del vero nemico di tutti, l’Iran. Il mondo arabo ora dovrà scegliere se abbandonare al loro destino i palestinesi per frenare l’espansionismo persiano nella regione. E c’è da credere che Trump giocherà un ruolo centrale.  

 

I TERRORISTI DEL CALIFFO ALLE PORTE DI GERUSALEMME

Nel 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la risoluzione 181 con un piano di partizione della Terra Santa, nel tentativo di risolvere il conflitto tra arabi ed ebrei scoppiato nella regione: il mondo arabo scelse la risposta peggiore. Settant’anni dopo attendiamo ancora la nascita di uno stato palestinese: democratico, indipendente e sovrano. C’è qualcuno che crede che ciò possa avvenire nel 2017? Obiettivamente pensiamo che solo un miracolo possa appianare uno dei conflitti più lunghi della storia. La situazione politica interna alle due realtà, palestinese ed israeliana, è talmente e palesemente compromessa da non permettere spiragli positivi: la destra nazionalista israeliana al governo, le criticità di Fatah e la dittatura di Hamas a Gaza, la prospettiva del radicarsi dell’Isis, la visione di Trump.

Eli Kaufam editorialista del Jerusalem Post, recentemente ha scritto nel suo blog non un commento di fisica quantica, ma una riflessione filosofica sull’era che ci attende: «Possono causa ed effetto andare indietro nel tempo? Nella realtà delle cose può il futuro determinare il passato? …. Se il futuro fosse in grado di determinare il passato, allora con un futuro meraviglioso quello che ci attenderebbe sarebbe un presente radioso, perché abbiamo già visto il passato e non era così bello.»

Nel contesto della Terra Santa gli errori del passato, effettivamente, sono stati troppi, determinando il presente e il futuro: culturalmente ma sopratutto politicamente il mancato riconoscimento dell’altro, da entrambi le parti, è ancora un aspetto sconcertante della questione israelopalestinese. Sicurezza, diritti umani, confini definiti per due stati per due popoli sono sempre stati l’obiettivo primario della Comunità internazionale. La cartina geografica più diffusa della Terra Santa è ferma al ’67, attualmente quindi è obsoleta. A prescindere dal caso in cui si creino le condizioni per uno stato binazionale, che si opti per una sorta di stato federale o meno, ci vorranno intense trattative e lunghi trattati. Oppure ciò che ci aspetta sono barriere, occupazione e terrorismo? La matita che dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra palestinesi ed israeliani è oggi spuntata, e Trump è pronto a strappare i fogli su cui disegnare.

Nei prossimi giorni a lasciare un segno sul quadro mediorientale ci proverà il presidente francese Francois Hollande, lontano dalla ricandidatura ha deciso di affrontare, senza troppe pretese, il nodo gordiano del conflitto israelopalestinese, invitando a Parigi per il 15 gennaio i rappresentanti di 70 stati. L’iniziativa parigina è l’ennesimo tentativo di alimentare il percorso di due stati per due popoli. Un summit accolto favorevolmente da Abu Mazen, presidente senza consenso, ma non da Netanyahu, primo ministro in bilico. A Parigi non ci saranno strette di mano tra nemici. In realtà c’è però un certo interesse per quanto presenteranno le tre commissioni che da mesi lavorano ad una road map. Ciascuna analizzando una differente prospettiva: la struttura delle istituzioni palestinesi, il contributo economico, in particolare quello europeo, e infine la partecipazione della società civile al processo di pace. L’ultimo attentato sulla promenade di Gerusalemme, e la folla a Gaza in visibilio per il martirio dell’attentatore; le minacce alla giuria e le proteste di piazza al processo contro il soldato israeliano che freddò un prigioniero palestinese; le vignette pubblicate qualche giorno fa dal quotidiano Al-Hayat Al-Jadida che mostravano soldati dell’esercito israeliano uccidere Babbo Natale; i nuovi insediamenti israeliani. Dipingono un presente senza futuro.

Brexit e Israele

Il referendum sulla Brexit non è solo una questione esclusivamente British ma impone una attenta analisi fuori dei confini del Vecchio Continente. Il valore e il peso dell’esito di questo appuntamento hanno ricadute internazionali che vanno ben oltre la cornice europea. «L’uscita della Gran Bretagna dalla Ue sarebbe una battuta d’arresto non solo economica ma geopolitica» ha recentemente commentato il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. L’ansia di Londra, in queste ore di voto, contagia le borse, le banche e le altre capitali europee. Anche in Medioriente il dibattito è aperto. La Brexit entra persino nella questione più intrigata di sempre: il conflitto israelo-palestinese. Non poteva essere altrimenti, la Terrasanta, come oggi la conosciamo geograficamente, è strettamente legata alle scelte politiche dell’Impero di Sua Maestà: il vulnus storico è, e rimane, il periodo del Governatorato britannico della Palestina post Prima Guerra Mondiale. Con l’inasprimento del confronto tra arabi ed ebrei, “l’uso e la strumentalizzazione” dell’odio degli uni verso gli altri, radicando nelle rispettive società e culture la paura e l’uso della violenza. Un orrore, che nasce da un errore, di cui ancor oggi paghiamo le drammatiche conseguenze. Alla vigilia del voto inglese è interessante osservare e capire come a Gerusalemme palestinesi ed israeliani riflettono su questa scadenza elettorale. La maggioranza delle persone, di qua e di là dal muro, dimostrano un approccio di fondo strettamente legato al proprio portafoglio, guardando la concretezza della cosa, gli effetti immediati sulla valutazione della moneta visto che l’Europa è il primo partner commerciale: cosa farà lo shekel, ci sarà la svalutazione del nuovo siclo israeliano in caso di Brexit? Domanda più che logica. Tuttavia, indipendentemente dagli effetti monetari, ci preme mettere in risalto anche taluni aspetti più tecnicamente “diplomatici”. Secondo Tusk l’uscita rappresenterebbe un cataclisma: «potrebbe essere l’inizio della distruzione non solo dell’Unione europea, ma di tutta la civiltà politica dell’Occidente». Gli analisti israeliani sono divisi sul significato oggettivo della Brexit. Per Israele, c’è chi ritiene che produrrà un cambiamento in negativo “è preferibile che la Gran Bretagna rimanga nella Ue dove rappresenta una voce moderata in favore di Israele. Preferiamo vedere un’Europa solida economicamente, commercialmente e fortemente unita nella sua battaglia contro il terrorismo” ha affermato una fonte autorevole israeliana. E chi invece, in maniera diametralmente opposta, assume che ci sarà un effetto positivo con la riduzione della tendenza ad appoggiare la causa palestinese e il frastagliarsi dell’Ue. Indebolendo notevolmente l’influenza europea nello scenario Mediorientale e smontando definitivamente l’iniziativa di Parigi per la riapertura del processo di dialogo tra israeliani e palestinesi, osteggiata dallo stesso Netanyahu. Per parte della destra israeliana nazionalista vale il concetto che “con l’uscita britannica l’Ue diventa più fragile e questo avrà un impatto positivo, perchè nel suo complesso le istituzioni dell’Unione sono su posizioni molto più critiche nei confronti di Israele rispetto ai singoli paesi europei”. La lettura della Brexit che fà il lato palestinese appare più distaccata, alcuni accademici ritengono infatti che, a prescindere dal risultato finale, il Regno Unito e l’Europa hanno imboccato un percorso irrefrenabile di “simpatia e vicinanza” per le sorti della Palestina: “La Gran Bretagna dentro o fuori non cambierà l’atteggiamento europeo”, ripetono da Ramallah. La controversia degli insediamenti israeliani nella West Bank è materia sentita e fatta sentire da Bruxelles, la voce europea suona stonata per Gerusalemme. E così qualcuno mormora che i mal di pancia di Netanyahu per le richieste della Mogherini si curano con la Brexit.

LA CRUDA LOGICA

Il nemico può essere chiunque e ovunque. Può essere una donna dai grandi occhi neri, coperta dal velo e con un coltello nella borsa. Un ragazzo in moto che alla fermata del bus estrae una pistola. Uno studente con lo zainetto della scuola che fa esplodere una molotov. O un anziano che si lancia con la sua sgangherata vettura a tutta velocità contro un check point. Non c’è età, non c’è sesso a determinare il profilo del nemico, tranne il fatto che sicuramente è un palestinese. Questo insegnano alle reclute dell’esercito israeliano al corso d’addestramento alle tecniche di antiterrorismo. Dure settimane in cui ufficiali e sottufficiali preparano i soldati ad operare in territorio ostile. “Capire il pericolo, rimuovere l’ostacolo” viene inculcato a tutti. Un insegnamento da tenere a mente, parole che hanno un significato ben specifico: questo è il modo per riportare la pelle a casa. In guerra anche se asimmetrica un esercito dovrebbe essere chiamato a rispettare dei codici morali scritti e siglati, a prescindere dagli ordini. Possibile? Beh certamente non semplice.
Proprio in queste ore l’esercito israeliano è di fronte ad una bufera di critiche dopo l’uccisione a Hebron di un palestinese che aveva, a sua volta, accoltellato e ferito un ufficiale. È stato un giovane militare dell’esercito di Tzahal a freddare il palestinese che si trovava a terra ferito e disarmato. Il caso ha suscitato polemiche dopo la pubblicazione online del video integrale del fatto. Il tribunale militare di Jaffa ha aperto un’indagine sull’accaduto, mentre l’ufficio stampa dell’esercito ha reso noto la testimonianza di uno dei commilitoni presenti, il quale ha riportato le parole dell’indiziato prima che aprisse il fuoco: “merita di morire, ha accoltellato un mio amico”. Il ministro della Difesa Moshe Ya’alon e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu hanno parlato di gesto immorale condannandolo apertamente. Il capo di stato maggiore dell’esercito Gadi Eisenkot ripete di essere orgoglioso dei propri soldati ma che “non esiterà a punire coloro che andranno contro i principi morali dell’esercito”. Per portare alla luce quest’ultimo scandalo è servita una telecamera, per altri crimini c’è impunità e silenzio. “In pattuglia abbiamo usato civili per arrestare altri palestinesi – procedura oggi in gergo denominata «porta un amico» – abbiamo preso i vicini di casa usandoli come scudo per proteggerci. Chiedere ad un soldato israeliano se usa i palestinesi come scudo umano è come chiedergli se per vivere respira”. Quando a Gerusalemme in uno scarno appartamento del quartiere meridionale di Talpiot incontrammo Yehuda Shaul, con la sua kippah nera in testa e la sua barba ben curata, per una lunga intervista, mai integralmente apparsa, in pochi conoscevano quel giovane paffutello, la sua storia e la sua organizzazione: Breaking the Silence. L’intenzione di Shaul e dei suoi amici era rompere il silenzio che copre le violenze, gli abusi, quello che Shaul definisce “l’immoralità dell’occupazione”: svelare pubblicandolo materiale raccolto dagli stessi soldati durante il loro servizio di leva nei Territori Palestinesi. Quell’idea ha portato alla pubblicazione di un libro «La nostra cruda logica» edito in Italia da Donzelli, decine di testimonianze di veterani, racconti d’ordinaria quotidianità, un progetto che ha suscitato la reazione della destra israeliana, e le accuse di “tradimento” a Breaking the Silence. “Dappertutto t’insegnano ad accertare un’uccisione. La si accerta sempre, gli spari un’altra pallottola in testa anche se il tipo è morto”. Non hanno un volto e un nome le parole degli ex soldati, al lettore viene fornito solo l’anno e il reggimento di appartenenza. Frammenti di ricordi indelebili, “cartoline” dal fronte: “Picchiavamo di continuo gli arabi, niente di speciale. Giusto per passare il tempo”. Poi scorri le pagine del libro e trovi la memoria di un soldato di fanteria a Betlemme: “l’espressione accusatoria nello sguardo di una donna di novant’anni, che certamente non ha fatto niente di male, è qualcosa che ti resta dentro”. Il giudizio nel racconto del paracadutista: “Sentire di essere superiore a loro è irrilevante, sei già superiore a loro”. Mentre il soldato dei corpi blindati ricorda: “Li mettevamo in ginocchio, li tenevamo a seccare”. Parla il poliziotto di frontiera: “piangevano, ovviamente, venivano umiliati”. Dal canto loro le gerarchie dell’esercito hanno preso le difese dell’operato delle proprie unità. “Il nostro spirito è nella moralità, combattiamo con regole molto chiare, nel rispetto della dignità umana, con una netta separazione tra nemici e innocenti” sono le parole del tenente colonnello Nati Keren, trentenne comandante del battaglione Duchifat, è l’elite dell’esercito con la stella di Davide, l’arma migliore dello Stato di Israele, da sempre. Senza il proprio esercito Israele non esisterebbe. Breaking the Silence, che piaccia o meno, è un contributo alla vita democratica “verso se stesso ma anche verso l’altro”.

SETTLERS

In Israele in questi giorni è dibattito sull’occupazione. Molti intellettuali israeliani sono più volte intervenuti pubblicamente per segnalare come l’atteggiamento del governo guidato da Netanyahu abbia contribuito a peggiorare il clima politico. Israele oggi non è più lo stato laico e aperto di qualche anno fa, stanno prevalendo estremismi di tutti i generi. Nelle ultime ore è intervenuto lo scrittore Amos Oz che ha scelto di esprimere la propria opinione scrivendo una lettera ai giornali: «In considerazione delle politiche sempre più estreme del governo israeliano, chiaramente intenzionato a controllare i territori occupati espropriandoli alla popolazione locale palestinese, ho appena deciso di non partecipare più ad alcuna iniziativa in mio onore nelle ambasciate israeliane». La Comunità Internazionale riconosce che il sopruso alla Palestina è nell’occupazione militare israeliana e nella costruzione delle colonie oltre la linea Verde. Entrambe le questioni risalgono al 1967 e ininterrottamente arrivano sino ai giorni nostri. Gli insediamenti di fatto hanno provocato un’alterazione della carta geografica della regione, precludendo il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione in uno stato autonomo. “Il colonialismo odierno ha rimescolato le carte ma la partita rimane truccata.” Inizia così la nostra intervista al professor Lorenzo Veracini, origini toscane e docente all’Università di Melbourne, uno dei massimi esperti in materia di colonialismo. Willem De Klerk, premio Nobel assieme a Mandela, ha detto: “senza una soluzione di due stati per due popoli Israele può trasformarsi in uno stato d’apartheid”. C’è chi ritiene che di fatto è già la realtà della condizione dei palestinesi. Secondo Veracini “ci sono affinità e divergenze. L’affinità principale riguarda il fatto che una comunità si arroga il diritto di controllare la mobilità dell’altra: dove si può andare, quando, con che permessi. Se sei un palestinese e passi la vita a fare la fila ai checkpoint magari la somiglianza ti salta agli occhi”. Oggi, in base agli Accordi di Oslo, la West Bank è divisa in tre tipologie di aree: A, B e C. Le colonie sorgono nelle aree denominate C, sotto il completo controllo israeliano. Dove risiedono oltre 500 mila persone, chiamati internazionalmente settlers. Per il professor Veracini “esistono varie comunità di settlers nella West Bank. Si tratta di gruppi molto diversi che alle volte hanno poco in comune. Tantissimi sono di provenienza statunitense. Quello che accomuna tutti i settlers è il senso di una sovranità politica che si attribuiscono in modo unilaterale. Non negano solo la presenza e i diritti dei palestinesi, contestano in via di principio anche le prerogative dello stato di Israele.” Nella storia di Israele un ruolo fondamentale hanno avuto i pionieri, così si definivano molti kibbutznik appartenenti al modello di vita collettiva. Oggi i coloni hanno fatto proprio il mito del pionierismo e impongono la linea al governo. Veracini sottolinea come “anche qui ci sono affinità e divergenze. La differenza principale a mio avviso è che molti dei kibbutz dopo il ’48 operavano in un contesto dove la pulizia etnica della popolazione palestinese era già avvenuta.” Il segretario di Stato americano John Kerry in un’intervista rilasciata al New Yorker magazine ha criticato il governo israeliano: “Costruire insediamenti e la demolizione di case palestinesi non è una soluzione”. Sulla questione Gerusalemme e Washington sono su posizioni divergenti. Il docente dell’Università di Melbourne commenta così: “Se ci fosse un processo di pace gli insediamenti peserebbero tantissimo. Ma un processo di pace degno di questo nome al momento non c’è. Quindi, in realtà, per il momento, il problema conta relativamente poco”. La polizia israeliana è impegnata a contrastare i price tag, crimini vandalici e terroristici compiuti da organizzazioni di fanatici coloni. “Il colonialismo produce ideologie disumanizzanti, sopratutto nei casi dove la prossimità fisica tra colonizzato e settler crea i presupposti per un processo di radicalizzazione”. È l’analisi del professor Veracini. In Europa intanto si continua a discutere di boicottaggio e misure di tracciabilità dei prodotti provenienti dagli insediamenti e il dibattito è acceso. A riguardo Veracini dice: “Non c’è una sottile linea rossa tra i due approcci. Sono due cose completamente diverse. Il primo approccio costituisce un atto politico. Il secondo sancisce un mero dato di fatto. La scelta poi passa al consumatore”. Il microcosmo dei coloni in Palestina è una materia complessa e contraddittoria. Uno dei tanti problemi irrisolti del Medioriente.

LE TERRE DI MEZZO

Nemmeno il Natale placa la violenza in Medioriente, non ha fine l’interminabile scia di sangue in Terra Santa. La tensione è alta a Gerusalemme e a pochi chilometri, a Betlemme, è emergenza terrorismo. L’Intelligence palestinese, “al-Mukhabarat”, da giorni è in stato di massima allerta. Il timore è che affiliati allo Stato islamico del Califfato stiano preparando uno o più attentati durante le festività. Obiettivi sarebbero i turisti stranieri e i luoghi santi cristiani. Gruppi radicali, cellule imprevedibili che sono in grado di colpire ovunque. In maniera precauzionale le forze di polizia palestinese hanno arrestato in queste ore decine di presunti appartenenti ai gruppi salafiti. «Possano israeliani e palestinesi riprendere un dialogo diretto e giungere ad un’intesa che permetta ai due Popoli di convivere in armonia, superando un conflitto che li ha lungamente contrapposti». È l’appello pronunciato da Papa Francesco nella benedizione dell’Urbi et Orbi, durante la messa nel giorno di Natale. E mentre a Roma il Pontefice invoca la pace a Betlemme ed in altri centri della Palestina scoppiano nuovi disordini che vedono coinvolta anche l’auto che accompagna il Patriarca Latino di Gerusalemme. È l’onda lunga dell’Intifada dei coltelli, dei giovani 2.0, nata ad inizio autunno tra i quartieri degradati di Gerusalemme Est e allargatasi alle città dei territori palestinesi occupati. Terre di mezzo, come quella del campo profughi di Shuafat, l’unico dentro i confini di Gerusalemme, dove anche la polizia israeliana tende a tenersi alla larga. È il regno dei Tanzim, l’ala militare di Fatah a cui aderiscono migliaia di giovani palestinesi, il cui leader Marwan Barghouti è detenuto nelle carceri israeliane con condanna all’ergastolo per terrorismo. Tuttavia, negli ultimi anni anche cellule di Hamas e altre fazioni armate si sono radicate nel territorio. «L’intero campo profughi di Shuafat è pieno di armi, fucili M16, kalashnikov e pistole». Lo confermano in queste ore alcuni residenti del quartiere alla stampa internazionale, ostaggi delle violenze interne e dell’occupazione. Su quella pietraia rivolta verso la valle del Giordano sono passati e poi stati scacciati romani, crociati, ottomani, ebrei e giordani. Shuafat è un “piccolo quartiere“ che ospita, secondo gli ultimi dati dell’UNRWA (l’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) circa 18 mila palestinesi, di cui il 60% ha meno di 25 anni, ma è terra di nessuno, un non luogo dove l’emergenza è cronica. Nel campo imperversa una situazioni di malessere giovanile che è quasi incomprensibile vista da fuori. I giovani di non hanno una prospettiva, non hanno un lavoro, hanno abbandonato gli studi, vivono in veri e propri tuguri, appartamenti a più piani costruiti in “stile lego”: un piano sull’altro, aggiunto man mano che la famiglia si allarga. Non c’è controllo ne sicurezza nell’edificazione delle case che si trasformano in palazzi. Edifici praticamente attaccati l’uno con l’altro, talvolta tra una porta e l’altra c’è meno di pochi metri. Le strade del campo sono delle strette viuzze assimilabili a gallerie a cielo aperto. Ogni giorno la spazzatura, che da lì non esce, viene accumulata e poi bruciata, spesso a ridosso del muro di separazione per provocarne cedimenti. A Shuafat l’acqua scarseggia, arriva solo di notte e mancano le fogne. La gente vive un disagio giornaliero, in uno scenario di totale degrado, socio abitativo e culturale. È lì che nasce questa nuova Intifada che coinvolge, purtroppo, anche i bambini: indossano maschere o si coprono il volto con stracci, sono centinaia, lanciano sassi con le fionde, bruciano pneumatici, accendono petardi. Sono per lo più di età compresa tra gli 8 e i 13 anni, partecipano ai disordini spalla a spalla con i ventenni. Giocano a fare i grandi, imitano i fratelli maggiori, si dicono disposti a morire: «non abbiamo nulla da perdere», ripetono con tono di sfida. Sono i ragazzini della Terza Intifada che scelgono di “combattere” piuttosto che andare a scuola e studiare. Questa è anche la loro Intifada. Una rivolta vincolata ad una volontà di carattere politico, più o meno evidente. Perché come dice Papa Francesco: «Dove nasce la pace non c’è più spazio per l’odio».

IL NATALE DI BETLEMME

In Terra Santa l’ondata di disordini esplosa in autunno con l’Intifada dei coltelli, ennesimo capitolo del conflitto israelopalestinese, ha provocato un calo nell’affluenza turistica. A poche ore dal Natale a Betlemme nella città culla del cristianesimo aleggia un clima di sfiducia. Meno bus turistici, meno pellegrini affollano la Piazza della Mangiatoia e le strade addobbate a festa sono semideserte. Betlemme comunque si prepara alla tradizionale messa di mezzanotte nella chiesa di Santa Caterina, nel complesso della Natività, alla presenza delle autorità civili e religiose. Le violenze di questi mesi hanno dissuaso molti turisti dal viaggio di pellegrinaggio e le cancellazioni sono piovute a raffica. Solitamente Betlemme era da sempre considerata una destinazione sicura, “un’isola felice” incentrata suo malgrado su un turismo mordi e fuggi ma con una presenza costante, in particolare in questo periodo dell’anno. Anche l’appello lanciato da Fuad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme: “I pellegrini non dovrebbero aver paura di venire”, è passato inascoltato.

“In questa stagione, abitualmente si registra una presenza vicina al 80-90 % dei posti letto disponibili, per il 2015 non ci sarà pienone che ci aspettavamo.” Il giovane direttore generale della Camera di Commercio di Betlemme, Ala’ Adili ci sciorina gli ultimi dati: gli alberghi su 4000 posti letto non hanno raggiunto nemmeno la metà delle prenotazioni. Il livello di disoccupazione alla fine del 2015 segna il 22,7 % (il 15% tra i neolaureati); il calo dell’attività economica e produttiva ha raggiunto il 35%, mentre l’export ad ottobre di quest’anno era poco inferiore ai 16milioni di dollari (un dato nettamente negativo rispetto alle previsioni). Betlemme pur rimanendo la prima località turistica palestinese con circa 650mila visitatori (il 40% delle presenze turistiche di tutta la Palestina) segna quest’anno la punta più bassa per numero di visitatori dalla fine della seconda Intifada.

“Le celebrazioni per questo santo Natale procedono spedite secondo i piani, stiamo rispettando il programma. Attendiamo con gioia la visita del Patriarca. Tuttavia dobbiamo registrare un drammatico calo di presenze internazionali e locali. Basta camminare per il centro e vedere molti locali vuoti. Le ricadute di questa crisi sono molto gravi.” Sono le parole di Vera Baboun, primo sindaco donna di Betlemme, cristiana e palestinese. “Stiamo attraversando una situazione anormale. Viviamo sotto occupazione, con un muro di separazione, con l’ampliamento degli insediamenti israeliani. Betlemme sta letteralmente soffocando.” Il tono della voce è deciso, va dritta al centro del problema. “La nostra situazione non può essere considerata come una semplice normalità, è inaccettabile. Il 20% della popolazione di Betlemme sono giovani, senza una speranza di lavoro, un’opportunità di futuro. È una dimensione di scoramento sociale. La nostra gente è disperata, dovete ascoltare la loro voce. Quando cammino per strada le persone mi fermano, mi chiedono di fare qualcosa per loro, ma purtroppo non posso fare nulla per i miei cittadini. E la causa di questa condizione è la mancanza di una soluzione politica”. In Medioriente le comunità cristiane sono perseguitate, costrette alla fuga dall’integralismo islamico che dilaga nella regione, secoli di storia di relazioni e tradizioni calpestati. Durante la Seconda Intifada migliaia di famiglie cristiane hanno abbandonato Betlemme, prendendo la via delle Americhe. La maggioranza della popolazione nel luogo dove secondo la tradizione nacque Gesù è oggi di religione musulmana. In questi anni non sono mancati piccoli episodi di tensione tra le due comunità arabe. “Sono convinta che Betlemme possa rappresentare un esempio di integrazione e dialogo interreligioso per tutto il mondo. In fondo siamo tutti palestinesi, siamo sulla stessa barca, condividiamo le stesse sfide e sofferenze.” L’ufficio di Vera affaccia sulla piazza, la Natività è a poche centinaia di metri, dal vicino minareto risuona la preghiera del muezzin mentre le illuminazioni natalizie rendono splendida Betlemme, capitale per un giorno della cristianità.

COSA SAREBBE SUCCESSO SE RABIN NON FOSSE STATO ASSASSINATO?

Su tutto ciò che è stato pronunciato o scritto nel ventesimo anniversario della morte di Rabin, tanti sono stati i “cosa sarebbe successo” se fosse rimasto vivo. Certo, non potremo mai saperlo, e ciascuno di noi si avvicina a questo pensiero dal proprio punto di vista o dalle sue idee politiche.

E’ vero, i sondaggi erano contro di lui. Le elezioni, previste per il novembre del ’96, erano le prime che prevedevano il voto disgiunto tra il partito politico e il candidato primo ministro. Nel faccia a faccia tra Rabin, il premier allora settantatreenne, e il giovane leader del Likud Benjamin Netanyahu, i sondaggi oscillavano tra il pareggio e il vantaggio per il candidato più giovane, diretta conseguenza di una recrudescenza della violenza palestinese. Pur non escludendo una possibile debacle elettorale, giova ricordare che Rabin aveva ancora un altro anno di governo del paese, e aveva preso misure significative per far cambiare il vento dei sondaggi.

All’inizio del mandato di Rabin come primo ministro ero il viceministro degli Esteri, mentre verso la fine ero stato nominato ministro per l’Economia e la Pianificazione. In quei due anni condussi negoziati segreti e informali con l’uomo che oggi è il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, allora presidente del comitato esecutivo dell’OLP, per delineare una risoluzione permanente, tra cui una precisa mappa di scambi territoriali sulla base della Linea Verde (le cosiddette Linee 1967).

Sabato 30 Ottobre 1995, Abbas arrivò nel mio ufficio a Tel Aviv per una riunione con coloro che erano coinvolti nella preparazione dell’accordo (tra gli altri c’erano, per parte israeliana, Yair Hirschfeld, Ron Pundak e Nimrod Novik). Concordammo di mostrare i risultati ad Arafat e Rabin nei giorni successivi. Subito dopo, ad Amman si tenne una seconda conferenza economica regionale. Volai lì con Rabin, e durante il viaggio gli dissi che, una volta rientrato da un già pianificato viaggio negli Stati Uniti, avrei avuto bisogno di un lungo incontro con lui. Non mi chiese di cosa si trattasse, rimanemmo semplicemente che ci saremmo incontrati. L’incontro non ebbe luogo, naturalmente. Mostrai il progetto di accordo a Shimon Peres, diventato primo ministro ad interim, ma lui non era pronto a portare avanti la questione al punto necessario. Informai Abbas che non c’era bisogno di controllare tutto ciò con Arafat.

Pur essendo ben consapevole che questa è una domanda quasi infantile, ammetto che non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe successo se Rabin non fosse stato assassinato. La risposta è nulla. Avrebbe potuto continuare a portare avanti l’accordo, il passaggio di tutte le città della Cisgiordania, tra cui Hebron, ai palestinesi, chiedendomi di seguire la risposta di Arafat per il cosiddetto accordo “Beilin – Abu Mazen” e, qualora fosse stata positiva, dare l’impulso a intensi negoziati basati su di esso.

E’ possibile che avrebbe portato avanti i colloqui avviati con il presidente siriano Hafez Assad, al fine di raggiungere un accordo su un impegno preso con l’allora segretario di Stato Warren Christopher, che comportava la concessione delle alture del Golan in cambio di garanzie di sicurezza. Avrebbe potuto trasformare le elezioni del novembre 1996 in un referendum su due accordi di pace – con la Palestina e la Siria – raccogliendo i favori del pubblico, vincendo le elezioni, e iniziando il suo ultimo mandato come primo ministro raccogliendo i frutti di pace e di supervisione del completamento del suo vecchio progetto di cambiamento delle priorità della società israeliana.

Anche se questo si sarebbe verificato prima del 2002, anno dell’iniziativa di pace araba, di matrice saudita, è probabile che la pace con i palestinesi e la Siria avrebbe costretto la maggior parte dei paesi arabi a instaurare relazioni diplomatiche con Israele; avrebbe anche comportato l’istituzione di un organismo regionale, dove Israele avrebbe riempito un ruolo economico importante, e un ruolo militare fondamentale quale membro di una coalizione regionale strategica; e Rabin sarebbe stato probabilmente il leader di tutto questo procedimento con l’aiuto di Peres e di altri membri del governo.

In giornate come questa, nelle quali si ricorda questo straordinario uomo – un introverso, sfacciato, pessimista e amaramente sarcastico combattente per un futuro migliore, che era in grado di parlare con grande emozione, esponendo la verità anche pur essendo i suoi discorsi scritti da altri, è doveroso per un attimo sognare ciò che sarebbe potuto essere, senza quei tre colpi di pistola alla schiena.

Yossi Beilin è presidente della società di consulenza aziendale Beilink. In passato ha lavorato come ministro in tre governi di Israele e come un membro della Knesset per Lavoro e Meretz. E’ stato uno dei pionieri degli Accordi di Oslo, dell’Iniziativa di Ginevra e di Birthright.

Il commento è reperibile nel sito del canale televisivo i24

SENZA FINE

Gerusalemme. Non c’è freno all’ondata di terrore che scuote le strade di Israele. È Intifada, l’abbiamo vista crescere nelle passate settimane, a partire dalla battaglia che a Settembre scoppiò nella Spianata delle Moschee e che continuò per giorni, con i fedeli musulmani arroccati all’interno del complesso religioso e la polizia israeliana impegnata a disperdere i manifestanti. Sassaiole, molotov, petardi, lacrimogeni e granate stordenti. A scatenare i disordini la presenza di coloni israeliani e religiosi ortodossi che sono soliti entrare nel luogo sacro all’Islam per poi mettersi a pregare, infrangendo lo status quo e la proibizione imposta dalle massime autorità religiose dell’ebraismo. Altro elemento di tensione in quelle prime ore di Intifada 2.0 è stato il divieto ad alcune murabitat, le donne sentinelle volontarie musulmane che presidiano il luogo sacro assicurando che non venga “profanato da infedeli”, di entrare nella Spianata. Poi nei giorni a seguire la “rivolta” si è allargata anche alle altre città israeliane. Tristemente ha fatto la comparsa quello che è divenuto l’emblema di questa Intifada 2.0: il pugnale. Armati di coltelli uomini e donne palestinesi aggrediscono i passanti. L’epilogo di questi episodi è quasi sempre lo stesso: l’attentatore riverso a terra circondato dalla sicurezza, spesso il corpo è inerme crivellato di colpi. L’Intifada dei coltelli assume di giorno in giorno i connotati di una protesta popolare, in gran parte minorenni dei quartieri arabi di Gerusalemme Est. A differenza delle precedenti “rivolte” è assente un cappello politico, questo è un movimento generazionale con richiami ideologici confusi e indistinti “mescolano anarchia e religione”. Una Intifada che vede le due principali organizzazioni palestinesi Hamas e Fatah assolutamente non in grado di prenderne il controllo e che rischiano di vedere nuove forze politiche emergenti aumentare il consenso nella regione. D’altro canto l’attuale leadership politica palestinese, a Gaza come a Ramallah, non gode di consenso tra i giovani e per questo è relegata ad un ruolo subalterno e protesa ad appoggiare almeno verbalmente la protesta. Una Intifada di ragazzi che passano le giornate a navigare sul web, tra cinguettii e libro delle facce. Da internet scaricano decine di filmati postati durante gli scontri con l’esercito israeliano, oppure altri video di altri luoghi del Medioriente in conflitto, il filo conduttore è sempre la violenza. È il web ad influenzare questa nuova generazione di shabaab che si lanciano in attacchi terroristici armati di pugnale. Pronti a morire nel nome del fanatismo anti ebraico. Giovani terroristi per i quali il martirio prima di essere il raggiungimento del Paradiso è un video virale. Ragazzi che vogliono essere ricordati non nelle pagine dei libri di storia ma da Wikipedia o da eroi di Youtube, per una generazione dove non c’è separazione tra il mondo reale e quello virtuale. Intanto Papa Francesco durante l’Angelus della domenica lancia un accorato appello: “In questo momento c’è bisogno di molto coraggio e molta forza d’animo per dire no all’odio e alla vendetta e compiere gesti di pace … Nell’attuale contesto medio-orientale è più che mai decisivo che si faccia la pace nella Terra Santa.” Mentre, in queste ore, il quotidiano francese Le Figaro ha riportato la notizia dell’intenzione del governo di Parigi di presentare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una proposta che prevede l’invio di osservatori internazionali con lo scopo di “verificare e impedire violazioni dello status quo” nella Spianata delle Moschee. Al testo dell’iniziativa, secondo fonti giornalistiche, lavorerebbe anche la Spagna. Israele però respinge una simile soluzione che secondo il vice ministro degli esteri Tzipi Hotovely sarebbe una chiara violazione della sovranità di Israele.