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IRRAGIONEVOLEZZA

Pochi giorni fa tutti i 15 giudici della Corte Suprema di Israele, cosa mai successa in precedenza, si sono riuniti in udienza preliminare per decidere, sulla base delle petizioni presentate, se il recente emendamento alla clausola di ragionevolezza approvato dal governo sia o meno da annullare. Ci potrebbero volere mesi prima che il verdetto sia emesso. Materia spinosa, per due ragioni: una strettamente politica e l’altra puramente giuridica. In mezzo una crisi che da mesi spacca in due il paese. La norma introdotta lo scorso 24 luglio è parte integrante della controversa riforma della giustizia avanzata dall’esecutivo di Netanyahu e volta a depotenziare i poteri stessi del tribunale di stato: «Nonostante quanto stabilito in questa legge fondamentale (sezione 15), coloro che detengono poteri giudiziari per diritto, compresa la Corte Suprema quando presiede come Alta Corte di Giustizia, non discuteranno la ragionevolezza delle scelte prese dal governo, dal primo ministro o da qualsiasi altro ministro, e non emetteranno provvedimenti al riguardo. In questa sezione, “decisioni” si riferisce a qualsiasi decisione presa, comprese quelle relative alle nomine, o disposizioni di astenersi dall’utilizzare determinati poteri». Tolta la “ragionevolezza” di segnalare e impedire scelte arbitrarie, irrazionali, immotivate per assurdo anche un cavallo potrebbe domani rivestire un alto ruolo istituzionale. A gennaio i giudici hanno dichiarato la nomina a ministro di Aryeh Deri, penalmente condannato e criminale seriale, irragionevole e invalida. Ebbene, quello stop “morale” non è più così scontato. D’altro canto, non è mai accaduto che la Corte Suprema abbia abrogato uno dei principi fondamentali o invalidato un emendamento correlato a tali leggi. Sebbene abbia stabilito in più occasioni di avere l’autorità per farlo. Scrive il Jerusalem Post in un recente editoriale: «In effetti, se alla Corte fosse impedito di annullare Leggi Fondamentali o loro emendamenti, allora qualsiasi governo potrebbe approvare qualunque legge gli venisse in mente qualificandola come “Legge Fondamentale” e precludendo così qualsiasi controllo giurisdizionale. Si tratta ovviamente di una situazione insostenibile. Altrettanto insostenibile è che un governo non presti ascolto alla Corte Suprema. Non solo è insostenibile, ma spalancherebbe le porte all’anarchia, a una situazione come quella descritta nel Libro dei Giudici quando “ognuno faceva come gli pareva” (21:25). Se il governo non dà ascolto alla decisione della Corte, perché dovrebbe farlo chiunque altro? La democrazia poggia su diversi pilastri e uno dei pilastri centrali è la supremazia della legge. Se i ministri del governo non riconoscono la supremazia della legge, allora non ci sono più regole del gioco. E se non ci sono regole del gioco, alla fine potrebbe non esserci più nessun gioco. Riconoscere la supremazia della legge significa farlo anche quando la legge non ti è favorevole. Nel 1979 l’allora primo ministro Menachem Begin (del Likud) diede voce a questo sentimento quando, a seguito di una decisione della Corte Suprema contraria all’insediamento di Elon Moreh – in cui Begin credeva con tutto se stesso – disse (parafrasando il mugnaio di Potsdam ndr): “Ci sono dei giudici a Gerusalemme”. Con questo intendeva dire che ci sono i giudici e che le loro decisioni devono essere rispettate. Durante un’accesa riunione di gabinetto dopo la sentenza della Corte, alcuni membri del governo Begin chiesero che si ignorasse la decisione. Begin, tuttavia, era categoricamente in disaccordo e dichiarò: “I tribunali in Israele hanno preso la loro decisione e il governo è obbligato a onorare ed eseguire qualunque cosa abbiano deciso”. Ciò che era così chiaro per Begin dovrebbe essere altrettanto chiaro per Netanyahu. Ciò che era vero allora è altrettanto vero oggi».

Sì, ma Netanyahu non è Begin. I tempi sono cambiati e il Likud del nuovo millennio è al governo con quelli che l’allora storico leader della destra e fondatore del partito, disprezzava profondamente, perché pericolosi fascisti.

Nella tradizione yiddish si narra di un piccolo e remoto shtetl dove un calzolaio aveva commesso un omicidio. Il giudice condannò l’imputato alla pena di morte. Ma prima che la sentenza venisse applicata i cittadini contestarono la condanna, non essendoci nella comunità un altro che lo potesse sostituire nel mestiere di ciabattino. Preso atto dei malumori della gente il giudice tornò sulla propria decisione: «Prendendo in considerazione che lasciare la città senza calzolaio non è possibile, e la condanna emessa deve essere eseguita, non resta che impiccare uno dei due sarti, in modo che possiate continuare ad avere un sarto e un calzolaio.» Alla lettura della nuova sentenza gli abitanti dello shtetl esultarono: «Non esistono giudici più intelligenti del nostro!». In Israele oggi c’è una sola democrazia seppur malmessa, e due potenziali governi. Quello attuale di estrema destra può essere “sacrificato” lasciando il posto ad una alternativa maggioranza di destra. Forse, sarebbe una mossa intelligente, se non si vuole abbattere il sistema e creare maggiore caos.

FRITTATA FATTA!

L’intrigo internazionale di Roma, sui colloqui diplomatici tra Libia e Israele, invece di una nuova pagina di storia si è rivelata una frittata all’italiana. La notizia, che avrebbe dovuto essere mantenuta segreta, dell’incontro tra i rappresentati degli esteri israeliano e libico, avvenuto durante un vertice alla Farnesina, ha prodotto una valanga di reazioni, contrarie. Investendo la Libia, attraversata da violente manifestazioni di protesta. Scoppiato il caos la prima poltrona a saltare è stata quella della ministra degli esteri Najla al-Mangoush, sospesa e costretta a lasciare, per motivi di sicurezza, il paese. La Mangoush considerata una delle personalità più accreditate dell’esecutivo presieduto da Abdul Hamid Dbeibah, governo riconosciuto dall’Italia e appoggiato militarmente dalla Turchia, è finita triturata dall’episodio che l’ha vista protagonista assieme all’omologo israeliano Eli Cohen. A poco è servita la difesa dell’ex ministra, che ha parlato di una riunione del tutto casuale, ribadendo l’assoluto rifiuto alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Come prevede la legge libica.

La posizione della Mangoush è sembrata compromessa da subito, con il premier Dbeibah che l’ha abbandonata al suo destino, prendendo le distanze, mentre montava l’accusa di tradimento, oggetto di una indagine in corso. Le ragioni del patatrac sono state le esternazioni pubbliche del ministro Cohen, che ha spifferato: “abbiamo parlato del grande potenziale delle relazioni tra Israele e Libia”. Nel raccontare alla stampa, quello che teoricamente era confidenziale, l’esponente del Likud (molto vicino a Netanyahu) è sceso nei particolari. Confermando al centro della discussione (durata un paio di ore) vari punti: la questione umanitaria, l’agricoltura, la gestione delle risorse idriche e l’importanza di preservare il patrimonio ebraico in Libia, compresa la ristrutturazione di sinagoghe e cimiteri. Apriti cielo. Nel tentativo di mettere una toppa e salvare l’immagine del primo ministro libico è stata sacrificata la Mangoush, che paga indubbiamente il fatto di essere donna. Per quanto sia lei che Cohen non abbiano commesso nulla di ignobile, anzi. È infatti cosa stranota che ci sono stati contatti tra i due paesi del Mediterraneo sin dai tempi, gli ultimi, del regime di Gheddafi. A novembre del 2021 in ritorno da Dubai Saddam Haftar, figlio del signore della guerra Khalifa, ha fatto sosta a Tel Aviv. L’anno successivo il jet privato di Haftar si è trattenuto per oltre un’ora nella pista del Ben Gurion Airport, prima di decollare per Cipro. Non c’è conferma che a bordo ci fosse il generale cirenaico. Comunque, in entrambi i casi i voli portavano un chiaro messaggio di richiesta di assistenza “militare e diplomatica”, in cambio di un impegno a normalizzare le relazioni con lo stato ebraico. Formalmente Israele, fino ad oggi, ha evitato di prendere una posizione sulla guerra civile libica. Prudenza a parte Israele è considerato molto vicino all’Egitto e quindi, pro-Haftar. Ciononostante, si parla con insistenza, e alta probabilità, di un abboccamento ad Amman tra Dbeibah, che nega, e il capo del Mossad David Barnea, che non commenta.

In questa vicenda, che ha screditato solo la Mangoush, non hanno fatto una bella figura sia Dbeibah che Cohen. Il danno provocato dall’attuale capo della diplomazia del peggior governo di sempre di Israele, quello dell’alleanza tra Netanyahu e l’estrema destra, è quanto mai palese. Dai banchi dell’opposizione Yair Lapid non usa mezzi termini: “dilettantismo irresponsabile” e “vergogna nazionale”. Merav Michaeli leader dell’Avodà invoca le dimissioni. L’ex capo di stato maggiore e fondatore di “Blu e Bianco”, Benny Gantz parla di negligenza fallimentare del governo di Netanyahu. Dalla maggioranza della Knesset, almeno questa volta, nessuna voce. Per quanto riguarda Dbeibah ha dato prova di essere debole e poco affidabile. Quando a gennaio scorso il direttore della CIA William Burns gli ha posto vis-à-vis la questione dell’apertura ad Israele si è astenuto. E del resto appare del tutto improbabile che il premier libico non fosse a conoscenza di quanto bolliva in pentola. È facile presumere che abbia autorizzato, e coordinato, la missione romana. Per poi tirarsi fuori a frittata fatta.

IL COMPLESSO DI CAINO

E l’Eterno disse a Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?”, ed egli rispose: “Non lo so; sono forse il guardiano di mio fratello?” (Genesi 4,9). L’ong statunitense J street e la fondazione Kohelet, con sede a Gerusalemme, sono “figli” dello stesso diritto: Israele casa per gli ebrei. Hanno, tuttavia, due visioni inconciliabili sul piano del modello di stato sionista (o post) da conseguire. Schierati su campi opposti per determinare, in una battaglia cruciale e non solo culturale, le sorti di Israele. In una sfida ideologica tra allergici alla sinistra e demonizzatori della destra, pro Bibi e anti Netanyahu, tifosi della riforma della giustizia e contrari alla sua introduzione, nazional-religiosi e laici progressisti, Caino e Abele.

J Street, a cui aderiscono vari membri del Congresso di Washington, incarna l’idea che solo una risoluzione negoziata tra israeliani e palestinesi possa soddisfare le legittime esigenze ed aspirazioni nazionali di entrambi i popoli: “Crediamo che il popolo palestinese, come il popolo ebraico, abbia il diritto ad una nazione democratica, che vivano fianco a fianco in pace, libertà e sicurezza. E che – i palestinesi – meritano pieni diritti civili e la fine dell’ingiustizia sistemica dell’occupazione”. In sintesi, la posizione espressa è appunto quella dei raggiungere il compimento di due stati sovrani, della pace in cambio di terra e la fine dell’occupazione. Al momento, si mantengono sulla strada che appare più impervia da percorrere, quella tracciata da Rabin e Shimon Peres.

Il Kohelet Policy Forum è invece un think-tank che si definisce apartitico, premuroso di dedicarsi alla promozione dei valori della libertà individuale e del libero mercato, di Israele come stato-nazione del popolo ebraico (di cui hanno architettato l’architrave giuridico) e della democrazia rappresentativa (in senso populista). La matrice di base del loro pensiero è il conservatorismo religioso. È ormai largamente acquisito che dietro alla contestata revisione del sistema della giustizia, che ha spaccato il paese, ci sia il loro disegno di legge di depotenziamento dei poteri della Corte Suprema: «Non siamo stati noi a prepararlo, ma il Kohelet Forum», ha dichiarato durante un’intervista a Channel 13 Keti Shitrit, parlamentare del Likud. Progetto che ha preso immagine nell’attuale esecutivo di Netanyahu.

Il refrain della critica a J street è rimasto pressoché inalterato da quello espresso da Seth Mandel, in un editoriale del 2011 sul mensile Commentary: «A differenza dei veri moderati, che occupano la terra di mezzo, questi “moderati” sono persone che non hanno principi, esistono solo per togliere consenso e la cui ragion d’essere è opporsi a qualsiasi cosa venga praticata da quelli di cui non si fidano. Questo è sempre stato il caso di J Street, un’organizzazione fondata semplicemente attaccando l’infrastruttura esistente del sostegno filo-israeliano, adoperando termini politici rozzi e iper-partigiani». A sua volta il giudizio rivolto al Kohelet non è meno negativo, così Yofi Tirosh docente dell’Università di Tel Aviv: «Sta rompendo il delicato equilibrio tra l’Israele tradizionale e gli ultra-ortodossi». L’obiettivo dei nuovi intellettuali di destra sarebbe di riscrivere completamente lo stile di vita degli israeliani, favorendo coloro che «sono convinti che l’ostacolo alla venuta del messia venga dalla violazione dello Shabbat o dal fatto che le donne indossino un abbigliamento non consono». Kohelet è un collettore che centrifuga maschilismo, sciovinismo, razzismo e messianesimo. Numericamente godono della possibilità di legiferare a proprio piacimento in parlamento. Dove affiliazioni più estremiste invocano la creazione di una milizia privata, il taglio dei fondi alle municipalità arabe, la distruzione di villaggi palestinesi, il divieto a sventolare la bandiera palestinese e la discriminazione di genere nei luoghi pubblici. Impongono dettami nello Shabbat (soprattutto nei trasporti), nei cibi (kosher) e nell’educazione. Difendono il vandalismo dei pogrom contro gli arabi e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Il loro peccato originale è proverbialmente l’istinto di Caino che li pervade, spingendoli a cancellare gli assetti fondanti della democrazia, di cui ciascuno a suo modo è guardiano.

BIBI E LA STRATEGIA SOVRANISTA

Che cosa può fermare Benjamin Netanyahu dal suo attacco diretto alla democrazia di Israele? A questa domanda si può rispondere in vari modi. Quella più spontanea è che solo lui è in grado di evitare il disastro dell’abisso dei valori dei padri fondatori, fermando la riforma della giustizia che non ha l’obiettivo di riequilibrare gli assetti tra i poteri dello Stato ma quello di scardinare l’intero sistema di controllo della Corte Suprema su esecutivo e parlamento.
In pratica una vera e propria rivoluzione che andrebbe ad amplificare il potere della maggioranza di governo. La seconda lettura degli eventi è che a questo punto il longevo premier appare prigioniero del suo stesso disegno. La decisione di formare una coalizione con l’estrema destra è risultata una mossa elettoralmente vincente, ma ha tuttavia finito per tramutarsi in un prezzo troppo alto da pagare. E ben presto Netanyahu ha dovuto subire le pressanti richieste, talvolta spudorate minacce, degli alleati. Concessioni che hanno messo in luce un leader debole come non mai.
L’errore del falco del Likud è stato quello di circondarsi di una corte di devoti yes man e poche donne. Oggi i sondaggi di gradimento sono impietosi sull’operato di questo governo. A criticare aspramente c’è una parte di Israele, che si è ribellata all’introduzione della nuova legislazione e da mesi scende in piazza: blocca l’aeroporto, ha marciato per 60km fino a Gerusalemme, e ha piazzato centinaia di tende difronte alla Knesset. Un’onda pacifica cresciuta nel tempo, che sventola la bandiera di Davide e si erge a difensore di diritti e libertà.
Il movimento pro-democrazia crede che il pericolo della deriva autoritaria e persino di una dittatura sia imminente. Alla protesta aderiscono interi settori della società, medici, riservisti dell’esercito, insegnanti, diplomatici, artisti, intellettuali etc. Sono ovviamente una spina nel fianco di Netanyahu, sono numerosi e determinati a non desistere nella loro lotta. Ciononostante, c’è anche una larga fetta dell’elettorato di destra che è ancora convinto della necessità di apportare modifiche sostanziali al sistema.
La ragione principale alla base di questo approccio è la riluttanza atavica agli apparati dello stato, perché considerati espressione di una élite, tendenzialmente manovrata dalla sinistra o riconducibile in vario modo ad essa. A prescindere da ciò che pensano, sbagliato o meno, il quadro odierno è di una nazione profondamente lacerata. A provocare questo danno, e qui non c’è nessun dubbio storico, hanno inciso tre decadi di martellante propaganda narrativa di Netanyahu, nel nome della paura. Che hanno radicalmente e persino subdolamente cambiato Israele.
Fino al punto che una società “polmone” di esperienze (e sofferenze) ha smesso di ossigenare il suo popolo. In Israele la democrazia per continuare a vivere deve prima di tutto trovare la sua ancora di salvataggio. C’è chi invoca la costituzione, di cui il paese è privo. Ma prima forse dovrebbe guardarsi dentro, e resettare l’era di Netanyahu.

IO BIBI E LE ROSE

In Medioriente questa settimana si prefigura calda, non è una novità. Le notizie di cronaca riportano dell’operazione militare israeliana lanciata su vasta scala a Jenin in queste ore. L’acceso dibattito politico dei passati giorni lascia il posto al diario di guerra, che si prende la scena.

Passa in secondo piano la testimonianza maratona, al processo che vede imputato il primo ministro israeliano per abuso d’ufficio, del magnate Arnon Milchan. Storia di un’amicizia che includeva una serie di omaggi ai Netanyahu, trasformatesi nell’arco del tempo in richieste regolari: «una routine». Talmente frequente che con i Netanyahu Milchan aveva messo a punto un codice per ciascuna tipologia di regali: i sigari pregiati chiamati “foglie” e “rose” erano le bottiglie di champagne, mentre alla richiesta di camicie di lusso corrispondeva il termine cifrato di “nani”. Il noto tycoon dell’industria cinematografica ha ammesso di aver incaricato uno dei suoi collaboratori di mettere a disposizione dei Netanyahu: «tutto ciò che vogliono». E di essersi reso conto, in seguito all’apertura dell’inchiesta, che i doni, per un valore stimato di 700mila shekel, erano diventati “eccessivi”. «A volte le foglie erano di mia iniziativa. Altre [Netanyahu] mi chiedeva: Ehi hai mica delle foglie a casa? E rose?». Milchan, che per motivi di salute partecipa all’udienza in remoto dall’Inghilterra, ha sottolineato di non aver commesso nulla di illegale e, soprattutto, di non essere mai stato obbligato. I magistrati invece ritengono che Netanyahu abbia fatto pesare le proprie influenze per far ottenere all’amico l’estensione della visa negli Stati Uniti, accusa smentita da Milchan. Il quale tuttavia ha potuto beneficiare della normativa introdotta nel 2013 dal governo Netanyahu sulle agevolazioni fiscali per i redditi all’estero dei cittadini israeliani, che la stampa ribattezzò laconicamente “legge Milchan”.

I problemi legali del leader del Likud sono intrecciati a doppio filo alla divisiva riforma della giustizia avanzata dal suo esecutivo. Una revisione del sistema giuridico concepita con l’esplicito intento di smantellare “l’ingerenza” della Corte Suprema sul potere politico. Progetto che non piace ad una larga fetta degli israeliani, che da ben 26 settimane è sul piede di guerra per impedire il suo concepimento. Manifestazioni partecipate nelle piazze e presidi sotto casa dei ministri. Insomma, una protesta persistente ed insistente che ha costretto Bibi a zigzagare nel procedere nel suo azzardato attacco alla democrazia, tra brusche frenate e repentine accelerate. Netanyahu intervistato dal Wall Street Journal ha manifestato l’intenzione di voler apportare delle modifiche alla proposta originale di riforma, confermando che la clausola di scavalcamento non sarà parte integrante del testo finale. Ma quale sia la reale evoluzione, o involuzione, della legislazione è incerto. Al punto che persino Bibi ammette di tastare con attenzione il polso della gente. Il passo indietro del falco della destra sarebbe quindi dettato da due ragioni pratiche: “mettere una pezza sul rapporto con l’opinione pubblica e gli Usa”, entrambi assai tesi. L’approccio conciliante di re Bibi, di fronte al malcontento generale, al richiamo del presidente Herzog e all’opposizione, apre una frattura nella maggioranza e nel partito del premier. «Alla fine, penso che affinché questo governo continui ad esistere dobbiamo portare avanti le riforme», ha commentato Miki Zohar, ministro della Cultura e considerato vicino al ministro della Giustizia Yariv Levin, ideatore della contestata legge. La parlamentare likudnik Tally Gotliv, che solo pochi giorni fa è uscita umiliata dal voto a scrutinio segreto della Knesset per la nomina a rappresentante nel Comitato di selezione dei giudici, è netta: «La riforma è morta». Anche l’alleato veterofascista Itamar Ben Gvir ha preso apertamente le distanze: «Siamo stati eletti per portare il cambiamento. La riforma è una pietra angolare di questa promessa». Ancora più critica l’ala del partito askenazita dei religiosi ortodossi: «Ho chiesto a nome dell’UTJ che la riforma includesse i tre impegni stipulati: lo studio della Torah, la clausola di esclusione e la modifica della legge sul servizio di leva. Ogni altro accordo è inaccettabile», così Meir Porush ministro degli Affari di Gerusalemme.

Fatta eccezione per il conflitto con i palestinesi, in qualsiasi modo si muova, Bibi rischia di risultare un populista impopolare.

STORIE PALESTINESI E ISRAELIANE DEL “CAVALIERE”

Non c’è dubbio che Berlusconi godesse di diffusa notorietà in Medioriente, dovuta sia alle vittorie calcistiche del Milan che alle conosciute vicende scandalistiche. Era seguito e commentato dal pubblico, spesso con ilarità. Nel 2010 l’allora presidente Shimon Peres disse di lui: “il leader più solare mai conosciuto”. Aggiungendo: “Non è importante quello che i giornali scrivono, ma quello che gli italiani votano. E votandola, gli italiani hanno dimostrato di avere buon gusto”. Ancora più sperticate sono state le lodi profuse nel tempo da Netanyahu: da “apostolo della pace” a “campione di sicurezza e libertà”. Di lui il longevo premier israeliano riporta uno scherzoso aneddoto di una loro conversazione nella sua ultima biografia: Domanda: “Allora, Bibi, quante stazioni televisive hai?”. Risposta: “Israele ha tre stazioni”. Berlusconi: “No, intendo dire quante di loro lavorano per voi”. Netanyahu: “Nessuna. Anzi, tutti lavorano contro di me…”.Molto divertente l’episodio che Ariel Sharon raccontò al giornalista Antonio Ferrari: «Durante la colazione di lavoro, alla presenza delle delegazioni, vi erano due cameriere di notevole avvenenza. Ciascuna posava un panino sul piatto a lato della portata principale. Berlusconi, dopo averlo divorato, ne chiese un altro. E Sharon: “Perché, se le piace tanto il nostro pane, non ne chiede due o tre pezzi, invece di uno alla volta?”. E Berlusconi: “Beh, così posso vedere da vicino la cameriera. Sa, alla mia età ci si accontenta di guardare”. Sharon, divertito: “Direi che questo non ci risulta”. Berlusconi “Ve l’hanno rivelato i vostri servizi segreti?”. Uno dei consiglieri di Sharon scoppia a ridere: “No, signor presidente, l’abbiamo letto sui suoi giornali”». Tanta amicizia per Israele che andava parallelamente all’empatia mai nascosta per i palestinesi. Ha finanziato l’Olp di Arafat, e molti ricorderanno che gli incontri con lo storico leader palestinese si aprivano e chiudevano con fraterni abbracci. Nel 2012 il presidente Abu Mazen parlava di lui in questi termini: “Non importa se Berlusconi è un grande tifoso di Israele, ci va bene questa abilità italiana d’essere amici di entrambi, perché può fare molto”. A marzo 2023 il ministro Tajani al ritorno dal suo viaggio in Terra Santa dichiara alla stampa: “Abu Mazen, mi ha detto di salutare Berlusconi, e lo stesso ha fatto Netanyahu”. Era amico di entrambi o meglio ha saputo diplomaticamente tenere un ottimo rapporto tra due nemici, stabile nel tempo. Silvio Berlusconi però ci ha lasciato anche episodi fuori luogo, in quel lembo di terra. Come quello di arrivare a far finta di non vedere il muro di separazione che divide Israele dai Territori palestinesi: “Non me ne sono accorto, stavo prendendo appunti”. Disse scusandosi con la giornalista che gli aveva posto la domanda. La giornalista Fiamma Nirenstein nel suo personale ricordo ha detto: “A volte raccontava prima di andarsene una delle sue barzellette. Io lo pregavo rispettosamente di evitare quelle sugli ebrei, anche se erano certo innocenti. Non mi dava retta”.

IL DECLINO DEL BIBISMO

Perché nonostante Netanyahu abbia fatto un doppio passo indietro, concedendo una pausa all’iter legislativo della contestata riforma giudiziaria e aprendo ai negoziati, la protesta nelle strade di Israele continua? Alla domanda, facciamo nostre le parole di una delle firme più autorevoli di Haaretz, Anshel Pfeffer: “Perché nessuno si fida più di Netanyahu. Se il primo ministro pensava che la sua decisione di congelare la riforma della giustizia gli avrebbe concesso un momento di tregua, l’accordo siglato con l’estremista Itamar Ben-Gvir per creare una sua milizia privata ha fatto naufragare la situazione – e ha creato un altro problema a Bibi”.
Non sventolano il ramoscello d’ulivo i manifestanti che da mesi paralizzano il paese. È opinione diffusa, e plausibile, che in realtà l’obiettivo di indebolire il potere della Corte Suprema non sia stato assolutamente tolto dall’agenda dell’esecutivo. L’ha solamente riposto nel cassetto, per prendere tempo e aspettare giorni migliori. Allo stesso tempo, la strada della trattativa tra maggioranza ed opposizione, sponsorizzata dal presidente della Repubblica Isaac Herzog, è stretta. Difficile, per non dire impossibile, che si arrivi ad un punto di compromesso tra le parti. E assai complicato che il clima politico decanti velocemente. Per ora, Israele dovrà restare con il dubbio che la sua tenuta sociale è fragile, e a rischio implosione. Con Netanyahu sempre più in un angolo, stretto sotto la pressione di fattori esterni ed interni. C’è la piazza con il movimento pro democrazia che ha vinto la sua prima battaglia ed è intenzionata a non fermarsi, fino alla sua destituzione. C’è la sfida di Yoav Gallant (formalmente ancora ministro della Difesa seppur sfiduciato), colpevole di lesa maestà, che “coraggiosamente” ha scelto di patteggiare per la ragionevolezza invece dello scontro frontale. Ci sono i sondaggi con il “moderato” Benny Gantz e il suo partito in forte crescita, a danno del Likud. C’è Herzog in campo a fare da arbitro, e ispiratore di una fase costituente. Il presidente Biden a tifare, apertamente, per i manifestanti, creando non pochi imbarazzi diplomatici all’amico di vecchia data. E infine, gli alleati di governo ad alzare alle stelle il prezzo delle richieste.
Prendiamo ad esempio Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza e leader del partito di estrema destra Otzma, al quale Netanyahu ha dovuto concedere la creazione di una futura guardia nazionale in cambio dell’approvazione a rinviare la riforma della giustizia. Mettere nelle mani di Ben-Gvir, una milizia è potenzialmente un errore, e un pericolo. Varie associazioni israeliane per i diritti civili hanno espresso preoccupazione alla creazione di una tale forza privata ed armata. Fermamente contrari anche la Procura generale, i vertici della polizia e dei servizi segreti. Domenica 2 aprile, il Consiglio dei ministri ha comunque dato il via libera alla proposta di istituire la guardia nazionale, per il bene della tenuta della coalizione. Lasciando la “calda palla” a un comitato che dovrà entro 60 giorni presentare un piano organizzativo, se si dovesse giungere alla conclusione che questo corpo parallelo di polizia risponde unicamente all’autorità del ministro, e non agli organi preposti all’ordine pubblico, ci sarà tuttavia bisogno di introdurre una normativa ad hoc. In tal caso il governo avrà a disposizione altri 90 giorni per approvare la nuova legge. Non è detto che anche questa iniziativa (e promessa di Bibi) finisca per diventare irrealizzabile. E che passi nel dimenticatoio. In molti lo sperano. E vedono prossimo il crepuscolo politico di Netanyahu. Ben-Gvir ha trovato il tallone di Achille e attacca colpendo duro. C’è da credere che presenterà qualche altra delirante pretesa minacciando, in caso contrario, di far cadere il governo. Prima o poi re Bibi dovrà dirgli un secco no. E decidere se spostarsi fuori dal quadrato della sua coalizione in cui si è trincerato. L’alternativa è formare una diversa maggioranza o tornare al voto, senza però avere una copertura tanto alla sua destra quanto alla sua sinistra. La morsa si stringe intorno al falco della destra, per uscirne farebbe meglio a guardare alla costituzione, che manca da 75 anni.

BIBI IN PAUSA

Domenica 26 marzo, Netanyahu decide di silurare il ministro della Difesa Yoav Gallant, reo di aver dichiarato di essere favorevole alla sospensione della contestata riforma della giustizia, promossa dal governo. Il licenziamento provoca un vespaio di nuove proteste in Israele. Nell’arco di una notte, lunga e sofferta, tutto precipita. E al mattino la notizia è che: “Netanyahu congela la riforma giudiziaria”. Almeno, è quello che trapela e rimbalza sui siti. Intanto, ci si aspetta che parli alla nazione. L’annunciata conferenza stampa però si trasforma in una via di mezzo tra il giallo e la barzelletta. Cresce l’attesa. Parla o non parla? Ammette la sconfitta o chiama in piazza i suoi? Che intanto si sono dati appuntamento per una contro-manifestazione nel pomeriggio a Gerusalemme. Il più infervorato è il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir che twitta «Oggi finisce il nostro silenzio. Oggi è il giorno in cui la destra si sveglia». Poco dopo anche l’altro leader dell’estrema destra razzista Bezalel Smotrich sentenzia: «Facciamo sentire la nostra voce». Sorge tuttavia spontanea una domanda: la vostra o quella di Bibi? Perchè quella del premier in tutto questo grande caos, un balagan gadol, mica si sente. Silenzio stridente, che lascia il dubbio che voglia veramente arrivare alla prova di forza. Altrimenti, perchè attendere così tanto? Ha già avuto modo di sentirsi personalmente con quasi tutti i leader che compongono la coalizione. Ha davanti a sé un quadro chiaro. Il blocco dei partiti religiosi gli ha dato conferma che sarà al suo fianco qualunque cosa decida di fare. Nel Likud la fronda è disposta a rientrare nei ranghi con l’annuncio dello stop alla riforma. Il problema è la componente nazionalista, che lo incita a proseguire e minaccia di sfasciare la coalizione in caso contrario. Numeri alla mano il governo di Bibi cessa di esistere nel momento in cui decide di pronunciarsi in pubblico, se non ricompone prima l’alleanza. Alla fine, il sacrificio è doppio, oltre al passo indietro ora deve subire anche le pretese di Ben-Gvir, al quale è costretto a promettere il comando di una futura “fantomatica” guardia nazionale. Un prezzo decisamente alto. Nonostante l’immagine di falco, Netanyahu è sempre stato considerato un politico cauto, avverso al rischio, attento a portarsi al limite senza superarlo, ideologicamente un populista conservatore. Questo era il vecchio Bibi che conoscevamo, e che qualcuno rimpiange persino a sinistra (non fosse altro per le poltrone che elargiva indistintamente). Quello di oggi, che si è incattivito con il sopraggiungere dei guai giudiziari, è completamente diverso. È diventato un populista sovranista. Ma soprattutto è un politico debole con gli alleati, che gli impongono lo spartito da suonare.

Bibi sin dall’inizio ha tentato di svicolare l’assedio montante sulla riforma della giustizia rassicurando che i diritti non erano in pericolo e la gente avrebbe dovuto fidarsi di lui, ma non tutti gli hanno creduto (anche tra quelli che l’hanno votato). E poi negli ultimi giorni vista la mala parata aveva “ammorbidito” il testo della riforma e allungato il brodo dell’approvazione. Parvenza di addolcire la pillola con qualche concessione che però non aveva avuto l’esito aspettato. La strategia comunque mirava in prima istanza a contenere le crepe nel Likud, che invece sono esplose, sbocciate come un fiore di primavera nel bel mezzo di una tempesta senza precedenti. Un grave errore di calcolo per un politico navigato, che si aggiunge ad altre cadute di stile.

Quando i sopravvissuti alla Shoah prendono carta e penna per scrivere una lettera al governo chiedendo di non partecipare alle cerimonie ufficiali nel giorno del ricordo dell’Olocausto (Yom HaShoah), non c’è nulla da aggiungere. Quando l’associazione delle famiglie che hanno perso i loro cari durante il servizio militare o per mano del terrorismo recapitano un “invito” ai rappresentanti della maggioranza a non intervenire alla giornata in memoria delle vittime (Yom HaZikaron), c’è solo da ascoltare in silenzio. Quando un ex direttore del Mossad afferma la necessità per il Paese di dotarsi di una costituzione, meglio obbedire. E quando il presidente della repubblica Isaac Herzog lancia un accorato appello chiedendo «di fermare immediatamente il processo legislativo, per il bene dell’unità del popolo di Israele e per amore del senso di responsabilità», andare avanti a testa bassa diventa un suicidio politico. Netanyahu ha perso il suo tocco magico e forse lucidità di analisi, ma può ancora evitare un folle disastro.

LA VOCE DI HERZOG, IL SILENZIO DI BIBI

Israele non avrà una costituzione ma ha un presidente, Isaac Herzog. Il quale in queste ore di crash test sulla tenuta della coesione sociale ha avanzato un articolato piano di mediazione (la “Direttiva della gente”), nel tentativo di abbassare i toni del confronto politico che è in atto nel Paese sulla proposta di riforma della giustizia: «Chi pensa che una vera guerra civile, con vite perse, sia una linea che non attraverseremo, sbaglia. Proprio ora, 75 anni dalla sua nascita, Israele è sull’orlo dell’abisso… Siamo ad un bivio: tra una crisi storica o un momento costituzionalmente decisivo». La mossa di Herzog, come lui stesso ha voluto sottolineare, «riflette un ampio, vasto comune denominatore e un enorme desiderio dei cittadini di concordare un compromesso». Secondo un recente sondaggio pubblicato dal Jerusalem Post il 42% degli intervistati ha dichiarato di sostenere la “direttiva” avanzata Herzog. Per la frastagliata opposizione in parlamento la proposta è sostanzialmente una strada praticabile ma non una soluzione ideale. Mentre, la coalizione di governo l’ha respinta al mittente giudicandola una “capitolazione”, perché disallineata dagli obiettivi che la riforma giudiziaria vuole apportare al sistema di bilanciamento dei poteri. Accusando l’atteggiamento del presidente di essere delegittimante del risultato elettorale. Purtroppo, per convincere l’esecutivo capitanato da Netanyahu a fermare l’iter della contestata riforma occorre molto di più del richiamo del capo dello stato, figura autorevole ma nel sistema istituzionale israeliano, puramente rappresentativa. Nulla ad oggi è valso a far desistere la coalizione di destra dal procedere a tappe spedite verso il depauperamento dell’autorità della Corte Suprema. Non ci sta riuscendo l’onda del movimento “pro-democrazia”, una marea umana che da settimane riempie le strade di Tel Aviv. Un buco nell’acqua hanno fatto gli appelli di finanza, imprenditori, banchieri, giudici, artisti, premi nobel e persino riservisti. Non è bastata nemmeno “l’insubordinazione” dell’IDF a portare a miti consigli Bibi & friends. L’unica cosa che può impedire l’introduzione del nuovo disegno di legge è, a questo punto, la crisi della maggioranza, scesa al limite di 61 voti a favore (su 120). Teoricamente ci sarebbero ancora margini per modifiche sostanziali del testo in seconda e terza lettura alla Knesset. Nessuno però pare particolarmente intenzionato a procedere in un tale labirinto. Un’eventuale, poco probabile ma non impossibile, scossone politico potrebbe venire invece da un cambio della maggioranza, con la formazione di un nuovo esecutivo spostato al centro oppure da una frattura interna del Likud, di cui Netanyahu è al momento indiscusso padre-padrone. Ciò non toglie che i malumori di dissenso al capo serpeggiano tra gli esclusi di corte, comunque la congiura non è sotto il tavolo. Quello che è ampiamente il primo partito in Israele già in passato è stato teatro di importanti defezioni, lotte intestine e scismi. Epica la rottura di Ariel Sharon quando fondò Kadima. Bibi di sfide ne sa qualcosa, fin dalla sua ascesa al vertice dei conservatori israeliani ha dovuto sfoggiare tutte le sue doti machiavelliche per respingere le insidie. La lista dei nemici che in questi anni il falco della destra si è fatto è lunga, quasi quanto un vecchio elenco telefonico. Solitamente però chi gli si è rivoltato contro si è amaramente pentito della scelta, uscendone politicamente ridimensionato. Bastonate che di per se invitano a riflettere cautamente prima di provare a fargli uno sgambetto. Anche se personalità del Likud del calibro di Yuli Edelstein o David Bitan si possono permettere quello che ad altri nel partito non sarebbe minimamente concesso, alzare la testa e contestare il re. Se Bibi continua a perdere pezzi si vedrà costretto ad inventarsi una strategia alternativa, compresa l’opzione meno gradita del ribaltone. Benny Gantz e il listone di Unità Nazionale aspettano alla porta, e non è detto che gli venga offerto di entrare al posto di qualcuno scomodo.

BIBI AGGIUNGE UN POSTO A TAVOLA, CHE C’E’ UNA AMICA IN PIU’

A scrivere un nuovo capitolo dei rapporti tra Israele e l’Italia non troppo tempo fa fu Mario Draghi, la controparte allora era il governo anti-Bibi di Bennett e Lapid. Ad avvicinare le due sponde del Mediterraneo gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina sull’energia. L’obiettivo era, e resta, quello di ridurre la dipendenza dal gas di Putin, in tempi rapidi. Israele ed Egitto rappresentano una valida alternativa di approvvigionamento per le aziende italiane. La calda accoglienza romana a Netanyahu è la riprova che nulla è cambiato nella strategia energetica nazionale. Per una cooperazione che si muove all’interno di una strutturata cornice di relazioni bilaterali, spaziando in diversi campi: innovazione e start-up, infrastrutture e telecomunicazioni, mobilità sostenibile e biomedicina, aerospazio e sicurezza cibernetica, farmaceutica e bellica. Affari commerciali che nel 2021 hanno registrato un balzo dell’export made in Italy del +25,9% (per un valore pari a 3,1 miliardi di €), rispetto all’anno precedente.
Una idillica partnership, fatta comunque non solo di scambi commerciali. Mazal tov (Auguri). L’incontro tra Meloni e Netanyahu ha avuto toni informali, quasi si trattasse di una rimpatriata di amici di lunga data. Ma in fondo Bibi si è sempre scelto attentamente le amicizie italiche. Quella storica con Berlusconi e poi quella con Renzi quando era in auge, alquanto fredda invece con Salvini (il loro incontro a Gerusalemme durò pochi minuti, giusto il tempo di una stretta di mano e della foto di rito) e pessima con Prodi (non quanto però quella con Clinton e Obama). Il falco del Likud si è presentato a Roma con un sacco di buone intenzioni, che tradotto in politichese significa che ha offerto a Meloni il riconoscimento internazionale ad entrare nel Pantheon dei leader mondiali della nuova destra: “Non ho dubbi sul fatto che Meloni ed altri leader del suo partito abbiano imparato la lezione della Storia” (M. Molinari, Netanyahu, l’intervista: “Al popolo della protesta dico: la democrazia in Israele è solida”, la Repubblica). Dopo aver sdoganato l’estrema destra israeliana Bibi mette sotto la sua ala protettiva la leader di FdI, anche in questo caso però la “fiducia” deve essere ricambiata, ed il prezzo imposto è alto: “credo sia venuto il momento per Roma di riconoscere Gerusalemme come capitale ancestrale del popolo ebraico”, ha puntualizzato al direttore Molinari nella recente intervista rilasciata a la Repubblica. Commento che suona come una esplicita richiesta diplomatica dalla portata politica, figlia della sintesi tra bibismo e trumpismo. Un punto massimo a cui sia Palazzo Chigi che la Farnesina non possono spingersi, per varie ragioni. Non fosse altro perché a Washington adesso c’è Biden e non Trump.
La motivazione che ha portato invece il vicepremier Salvini a sposare l’iniziativa e spaccare il governo sulla questione ha una risposta “scacchista”: sacrificare la regina, esponendola a situazioni disagevoli, è al momento l’unica mossa del segretario leghista per prendersi la scena. Nulla di personale, è semplicemente la logica legge del mors tua vita mea. In questo Bibi è un maestro di machiavellismo, e Meloni deve fare attenzione alla prima lezione profetica che gli ha impartito: “La Storia è imparziale e non perdona. Non favorisce i virtuosi, chi ha una superiorità morale. Favorisce chi è forte. Se vogliamo proteggere i nostri valori, diritti, le nostre libertà, dobbiamo essere forti”. Risoluti e mai compassionevoli con il nemico, tanto che si tratti dell’Iran o della Siria, dei palestinesi o del movimento israeliano che vuole fermare la riforma giudiziaria. I leader politici israeliani sono storicamente poco inclini alla magnanimità, come scriveva qualche settimana fa Herb Keinon sul Jerusalem Post (Now is the time for Netanyahu, coalition to show magnanimity). Rabin non indietreggiò d’un passo sugli Accordi di Oslo, tantomeno Ariel Sharon quando sgomberò Gaza. Per non parlare di David Ben-Gurion che ordinò persino di far fuoco alla nave Altalena. Il padre fondatore mancò tuttavia di dare una costituzione allo stato, una fase costituente secondo il suo punto di vista avrebbe aumentato le divisioni politiche, in un momento di emergenza. Lasciò insoluta una questione a cui poi nessuno ha messo mano. Se Netanyahu decidesse di scrivere la costituzione, e mettere così fine al vulnus esistente, dovrebbe sedersi al tavolo con l’opposizione, mostrando disposizione all’ascolto. Francamente, pensiamo che non avverrà. E da questa partita sulla giustizia uscirà un solo vincitore, magari un po’ malconcio.
Nel 1948 il primo ministro Ben-Gurion non partecipò all’insediamento della prima Corte Suprema di Israele. C’è chi dice perché non avrebbe accettato l’ingerenza. E c’è chi pensa che con quel gesto volesse tracciare la linea di indipendenza dei giudici. L’unica democrazia del Medioriente si è portata dietro questo dubbio, che però le ha permesso di mantenere inalterato sino ad oggi il bilanciamento dei poteri istituzionali. Ambiguità che Bibi non rischia affatto di lasciare ai postumi.