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Nucleare iraniano, diplomazia di vasta proporzione

L’accordo sul nucleare iraniano è arrivato alla sua conclusione o maturazione. Un risultato diplomatico di vaste proporzioni, raggiunto dopo un’estenuante tavolo delle trattative: una patata bollente dagli esiti incerti per oltre 60 mesi. La quadratura diplomatica grazie alla mediazione del Commissario europeo Federica Mogherini, in splendida luce. Nella tarda mattina viennese di una calda estate si accende il semaforo verde alla fine delle sanzioni nei confronti di Teheran. Nemmeno il tempo per le delegazioni ufficiali di stringersi la mano per la foto di rito che da Gerusalemme si alzano le voci di protesta. E Washington risponde. Mentre Teheran canta vittoria con la folla in piazza. È il classico teatrino della politica internazionale, in scena tanti attori ma tre veri protagonisti: il presidente iraniano, Netanyahu neo confermato capo di governo israeliano ed infine Obama il presidente in scadenza degli USA. L’ultimo ha fortemente spinto per una soluzione positiva alla trattativa iraniana, che riaprisse il dialogo interrotto nel ’79 con il paese degli Ayatollah, nella speranza, nemmeno troppo segreta, di poter un giorno definire un nuovo Medioriente senza Califfi: “E’ un accordo che non si basa sulla fiducia ma sulla verifica. Se l’Iran violerà l’accordo tutte le sanzioni saranno ripristinate e ci saranno serie conseguenze. Nessun accordo avrebbe significato nessun limite al programma nucleare iraniano. Gli Stati Uniti manterranno le sanzioni contro l’Iran collegate alla violazione dei diritti umani”.

Occhi puntati. Scadenze da rispettare per l’Iran e per il presidente Hassan Rouhani che nella dichiarazione alla stampa non ha tralasciato di uscire dal seminato, cadendo nel grottesco: “Non abbiamo chiesto la carità. Abbiamo chiesto negoziati equi, giusti e senza sconfitti. Oggi la gente di Gaza, del Libano, di Gerusalemme e della West Bank sono felici perché gli sforzi del regime sionista sono stati sconfitti. Paesi vicini! Non lasciatevi ingannare dal regime sionista”. In Medioriente, almeno la parte ostile alle politiche di Teheran quella che teme il potere sciita e le milizie dei pasdaran, non accetta di buon grado il risultato di compromesso siglato in Austria. Arabia Saudita e Israele, nemici giurati dell’Iran, sono rigidamente contrari. Temono per propri i confini, per la sicurezza di una regione votata all’instabilità e alla violenza.

Il primo ministro israeliano, dal canto suo, esprime condanna accesa, con toni funesti: “Adesso l’Iran avrà un patto sicuro per sviluppare le armi atomiche. Molte delle restrizioni che avrebbero fatto in modo di prevenire ciò sono state revocate. L’Iran avrà in mano un jackpot, una miniera d’oro in contanti centinaia di miliardi di dollari, che le consentirà di continuare a perseguire le aggressioni e il terrore nella regione e nel mondo. Si tratta di un grave errore di proporzioni storiche.”

Netanyahu parla, allo stomaco e alla testa, della comunità internazionale ma soprattutto ai repubblicani americani, al Congresso dove sono in maggioranza e lui, il falco, potrebbe trovare fedeli alleati in una nuova battaglia politica al democratico afroamericano presidente della Casa Bianca. Un match rischioso per la tenuta delle relazioni sodali tra i due stati. Obama appare rilassato, al fianco il suo vice, insieme per il monito al Congresso e per delimitare il campo di gioco: “Sarebbe irresponsabile allontanarsi da questo accordo. Porrò il veto a qualsiasi legge che si opporrà alla sua attuazione”. Netanyahu è fuori dalla porta …. con la palla in mano.

LA CAMPAGNA ELETTORALE PER LA KNESSET APPRODA AL CONGRESSO DI OBAMA

Nei giorni scorsi il Congresso americano ha dichiarato amore incondizionato al leader israeliano Benjiamin Netanyahu. Una dimostrazione d’affetto smisurata, ben oltre i solidi legami storici tra i due paesi: un gesto d’amore incurante di rompere i protocolli diplomatici della Casa Bianca, persino sgarbato e offensivo nei confronti del Presidente Barack Obama. Invitato a Washington dai repubblicani e boicottato dai democratici, non tutti, il Primo Ministro ha tenuto, la scorsa settimana, un lungo discorso ai membri del congresso statunitense riuniti in seduta congiunta. Nell’aula dell’organo legislativo più importante al mondo Netanyahu è stato accolto calorosamente, osannato, coperto da applausi e da standing ovation. Il succo del suo lungo discorso era la minaccia iraniana e l’accordo sul nucleare. L’obiettivo era frenare la trattativa in corso in queste ore. Alzare un polverone su Teheran. Mettere l’amministrazione Obama in un angolo. C’è riuscito. Grazie a quello che molti hanno definito il discorso perfetto, un monologo teatrale recitato convintamente e appassionato, proprio come piace alla platea anglosassone. Ha parlato di terrorismo, di bomba atomica, di geopolitica nella regione e di nazionalismo, sia ebraico che statunitense. Ha giocato le carte anche quelle più ovvie e quelle politicamente più scorrette. Ha paventato di raccontare i segreti di Obama. Non ha tralasciato di lanciare l’accusa di antisemitismo all’Ayatollah, per un suo tweet. Ha sapientemente scaldato gli animi della platea facendo rullare i tamburi di guerra: “ … anche se Israele dovesse restare solo noi non ci piegheremo. Ma so che Israele non è da solo. So che voi siete con Israele.” E ha concluso il suo intervento con tanto di citazione biblica. Il sermone di Netanyahu, che ha convinto gli americani non ha tuttavia avuto l’effetto sperato in patria: convincere l’elettorato israeliano. Le reazioni della stampa israeliana sono state negative e le critiche pesanti: chutzpa. Insolente. Arrogante. Alla fine i sondaggi, ad una settimana dal voto non hanno portato nulla di più, il viaggio americano non ha avuto l’effetto sperato. La coalizione di centrosinistra mantiene di qualche punto il primato. Il piccolo divario è stabile e solido. Dopo aver pestato i calli a Obama e a metà dei capi di stato europei al falco della politica israeliana non resta altro da inventarsi in questa campagna elettorale. Dove è stato costretto ad inseguire gli avversari. Dove si è procurato nemici su nemici. Dove ha perso credibilità. Nel tentativo di recuperare voti e consenso Netanyahu ha buttato acqua sul fuoco del dibattito tra sionismo e post sionismo, ha posto al centro della questione il ruolo d’Israele per gli ebrei nel mondo: “Israele è la casa di tutti gli ebrei.” E poi ha pronunciato un accorato invito agli ebrei ad una migrazione in massa verso le coste meridionali del Mediterraneo. Il no all’appello di Netanyahu è stato ripetuto con forza a più livelli. Le dichiarazioni del leader israeliano lasciano tuttavia ampio spazio alle interpretazioni. E’ innegabile che al momento in Europa il livello di guardia è stato superato, il fondamentalismo islamico ha lanciato la sua guerra santa al cuore del continente. Attacchi terroristici, profanazione di luoghi di culto, attentati alla stampa. Gli ebrei, ma non solo, sono purtroppo vittime del neo fanatismo islamico. In questo contesto l’invito lanciato da Gerusalemme a migrare in Terra Santa suona come un mantra per esorcizzare la paura e non una vera e propria strategia, lo stesso ragionamento vale per il nucleare iraniano. Il problema è che al momento non solo le comunità ebraiche ma tutti noi abbiamo la stessa paura e dobbiamo affrontare il medesimo pericolo. Per questo il messaggio di Netanyahu è in realtà fuorviante: lascia adito all’idea che l’unica alternativa possibile alla crisi attuale sia “fuggire” in un altro luogo, lontano da Parigi o Londra. Inoltre, le parole di Netanyahu introducono nella discussione il concetto che l’Europa non appartiene agli ebrei. Una tesi che è un falso storico, una bugia dalle gambe corte e pericolosa. Non ci può essere futuro per l’Europa senza la presenza ebraica, è nei fondamenti della nostra società e cultura. Molti di noi forse ignorano di aver avuto antenati israeliti, in ebraico sono chiamati anusim. Nello scorso secolo gli ebrei europei che non seguivano l’ortodossia dei dettami religiosi erano identificati come assimilati. Oggi, nell’era della globalizzazione parlare di assimilazione è un controsenso, alla stregua della definizione di razza. Insomma, l’appello di Netanyahu non risponde alle esigenze e necessità del momento, è pura propaganda elettorale. E soprattutto non indica la prospettiva di un percorso di pace con i palestinesi, non chiarisce il modus operandi per una soluzione politica che stabilizzi la regione e che resta il principale problema irrisolto di questo secolo.

Una telefonata non allunga la vita…

Una telefonata non allunga la vita. E non stiamo parlando dell’implicazioni connesse all’uso scorretto del cellulare quando siamo alla guida della nostra vettura, ma del fatto che le tecnologie attuali permettono di rintracciare il punto di provenienza di una chiamata e l’intelligence è in grado di spedire sul posto un paio di missili in pochi minuti, eliminando il possessore del telefonino e distruggendo ciò che lo circonda. Ovviamente la cosa non accade tutti i giorni e soprattutto non è così comune nelle nostre città. Mentre, è un evento che potremo definire tipicamente mediorientale. Sintomatico di un contesto di violenza esponenziale, non risparmia nessuno ovunque anche nel suo più sperduto angolo. Questa volta è successo sulle montagne del Golan in Siria. Dove i vertici militari iraniani e di Hezbollah che operano al fianco dei governativi nella guerra civile siriana sono stati decimati con un attacco aereo. La provenienza del bombardamento è inequivocabile, anche se ufficialmente Israele non ha rivendicato la paternità della missione. La cosa che ha fatto maggior scalpore è che nell’attacco abbia perso la vita un generale iraniano, Mohammed Ali Allahdadi era il comandante in capo delle forze militari di Teheran che combattono in Siria contro i ribelli. A Gerusalemme fonti non ufficiali hanno parlato di “malinteso”: il target sarebbe stato un’unità di combattimento che preparava un azione lungo la frontiera del Golan e non il generale pasdaran, questo secondo alcune voci di corridoio. Di tutt’altra idea la stampa libanese, per i quali il militare avrebbe inavvertitamente dimenticato il cellulare acceso in una zona monitorata dai servizi segreti israeliani pronti ad intervenire. Infine c’è chi ritiene che l’alto ufficiale fosse spiato nei movimenti da lungo tempo e che l’attacco fosse stato preparato ore prima. Tutti concordano nel dire che si è trattato di un messaggio a chiare lettere non per Beirut, non per Damasco, non per Teheran ma per Washington. Alla fine però la risposta armata è arrivata da Hezbollah. È piovuta lungo il confine che separa Libano e Israele. Un convoglio militare in perlustrazione è stato bombardato da Hezbollah. Due soldati israeliani morti. Una decina feriti. L’escalation dello scontro di frontiera ha provocato la morte di un soldato della missione internazionale UNIFIL, che vede impegnata anche l’Italia con un suo contingente di peacekeeping. Qualcuno dovrebbe ricordarsi che tra Hezbollah e Israele ci sono in mezzo soldati, di pace. Hanno un mandato preciso e una risoluzione delle Nazioni Unite la 1701. Le risoluzioni non andrebbero violate, intanto è tornata la calma lungo la frontiera di una guerra mai sopita.