La strada dell’abolizione delle armi di distruzione di massa è percorribile. La conferma arriva dal Nobel per la Pace 2017 assegnato a Ican (international campaign to abolish nuclear weapons), la campagna internazionale per il disarmo. Promotori dell’appello al trattato internazionale sul divieto delle armi nucleari, circolato alla recente assemblea Generale dell’ONU. Una decisione quella del Comitato norvegese che premia il boicottaggio alla proliferazione globale. Affronto politico tanto a Trump quanto a Kim Jong-un, una bacchettata ai due leader invischiati in una crisi diplomatica sul punto di degenerare. Riconoscimento indiretto all’Alto Rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini per l’accordo raggiunto con l’Iran. Un tema quello sul nucleare già affrontato in passato dall’accademia di Oslo che nel 1962 consegnò il premio a Linus Carl Pauling, promotore della campagna contro i test nucleari. Onorificenza conseguita nel 1974 da Eisaku Sato premier giapponese che aderì al Trattato di non proliferazione nucleare. E poi ancora nel 1995 la nomina di Pugwash Conferences on Science and World Affairs, organizzazione non governativa ispirata al manifesto pacifista di Albert Einstein e Bertrand Russell. E infine la premiazione del 2005 all’Agenzia internazionale per l’energia atomica, insignita “per i loro sforzi per impedire che l’energia nucleare venga usata per scopi militari e per assicurare che l’energia nucleare per scopi pacifici sia utilizzata nel modo più sicuro possibile”. Una lunga lista di battaglie morali per mettere al bando le armi nucleari.
C’è chi dice che negli ultimi anni il premio si sia trasformato in una riconoscenza alle buone intenzioni, fece scalpore in questo senso la vittoria di Obama. C’è chi invece parla di Nobel maledetto: Martin Luther King, Sadat e Rabin furono assassinati. Una notorietà che indubbiamente non porta molta fortuna politica: Willy Brandt terminò la sua carriera con uno scandalo; Gorbaciov travolto dal golpe; Arafat ha passato gli ultimi anni recluso nella Muqata; José Ramos-Horta presidente di Timor Est è uscito di scena dopo una bruciante sconfitta elettorale. Il presidente della Colombia Juan Manuel Santos ha perso il referendum di pace con le Farc. Denunce pesanti hanno riguardato Lech Wałęsa e Mohammed Yunus, il primo finito nella bufera per spionaggio e il secondo per appropriazione indebita. Accuse che recentemente hanno interessato anche la leader birmana Aung San Suu Kyi per non aver condannato «il trattamento tragico e vergognoso» riservato alla minoranza musulmana dei rohingya. Tante le polemiche che questo ambito riconoscimento si porta dietro, a partire dalla mancata nomina di Ghandi. Tra le oltre 300 candidature al vaglio del Comitato alcuni dei nomi dei potenziali vincitori per il 2017 avevano ricevuto un alto gradimento: candidato favorito era papa Francesco. Il cui nome era uscito prepotentemente nella vigilia. Mettendo sotto tono altri che circolavano insistentemente: elmetti bianchi siriani, Can Dündar direttore del giornale turco Cumhuriyet e Raif Badawi blogger saudita. Esclusa quindi la guerra civile siriana, dove i volontari di varie associazioni umanitarie che aderiscono alle Forze di difesa civile (SCDF) sono impegnati con il loro casco in testa a salvare vite umane dalle macerie: oltre 100mila persone soccorse dall’inizio del conflitto. Scartata anche la nomina dell’ex direttore del quotidiano turco di opposizione in esilio in Germania. Vittima del presidente Erdogan e della sua politica repressiva nei confronti degli oppositori e della stampa. Speranza illusa per il blogger arabo condannato a mille frustate e 10 anni di carcere per blasfemia. Non ce l’ha fatta nemmeno il trio Mogherini, Javad Zarif e Kerry protagonisti del complesso negoziato con Teheran sul nucleare, ripudiato da Trump. Alla fine l’ha spuntata il candidato più inaspettato, sul cui sito campeggia l’invito di Yoko Ono: “Immagina la pace”.
UN REFERENDUM PER IL KURDISTAN
Il Kurdistan ai seggi per la storia. Tra guerra all’Isis e aspirazioni separatiste dall’Iraq, a Erbil si sogna l’indipendenza. Il risultato dello scrutinio si saprà nelle prossime ore, ad urne ancora aperte, si è scatenata una reazione tesissima sul piano internazionale. Anche se il referendum democratico non ha carattere giuridicamente vincolante, l’alta partecipazione popolare alla richiesta di creazione di uno stato, di cui non sono chiari i confini, ha posto la leadership curda in una posizione critica. Lo spazio aereo della regione è stato praticamente sigillato. Truppe irachene e turche si stanno ammassando ai confini. A contestare il voto non solo Turchia, Iran e Iraq. Gli Stati Uniti, la Russia, l’ONU e l’UE esprimono dubbi sulla modalità, per l’assenza di negoziati diretti con la controparte. L’unica voce fuori dal coro è quella di Israele. Le bandiere con la stella di Davide hanno spesso sventolato, al fianco di quelle curde, durante le manifestazioni nelle città liberate dalle milizie nere dell’Isis. E Benjamin Netanyahu non ha mancato di far sentire il proprio sostegno agli “sforzi legittimi del popolo curdo per raggiungere il proprio stato”. Un’alleanza strategica per Gerusalemme in chiave anti-iraniana. Un alleato prezioso da elevare al rango di stato autonomo nel caotico scacchiere Mediorientale. Il nazionalismo curdo non ha radici storiche antiche, è fatto risalire al XVII secolo, ma è sul finire del XIX che il movimento per la creazione di una nazione indipendente prende forma e coscienza. La questione curda nel corso degli anni è andata caratterizzandosi come movimento transnazionale, trasformandosi in un problema regionale con effetti globali. Per questa ragione gli stati confinanti ritengono la secessione inammissibile: un sogno da reprimere con tutti i mezzi, inclusa la forza. Il crescente “pericolo curdo” è alla base del riavvicinamento geopolitico tra il regime degli ayatollah e il sultano Erdogan, avvenuto negli ultimi mesi. Il plebiscito popolare, quindi, non porterà acque tranquille in una regione pervasa dalla violenza atavica, dall’odio tra etnie e clan. La disgregazione di una nazione, quella irachena, è il preludio a nuove instabilità. Con una cartina geografica che quasi nessuno vuole modificare, almeno per ora.La guerra contro l’Isis ha visto giovani, uomini e donne, imbracciare il fucile e combattere per difendere le proprie case. Le vittorie sul campo, grazie al diretto contributo e all’assistenza straniera, hanno permesso ai curdi di ampliare la sfera di controllo su una vasta fetta di territorio a cavallo tra Siria e Iraq. La conquista di Mosul, seppure ha rappresentato il culmine del conflitto contro il Califfato, è stato il motivo che ha affievolito il supporto e l’attenzione internazionale. Il ribaltamento della situazione militare sul campo ha persino convinto il Pentagono a ridurre gradualmente la presenza nella regione dei propri soldati. La exit strategy della Casa Bianca è dovuta principalmente alle pressioni di Turchia e Iraq. Anche se Baghdad è molto più dialogante di Ankara con i separatisti. Comunque, pur in un quadro in continuo cambiamento il referendum presenta delle certezze: il Kurdistan staccandosi ridurrebbe il peso e il potere del governo centrale di Baghdad. Ma, soprattutto, espandendosi nella provincia di Kirkuk avrebbe il controllo sul 40% circa delle fonti di petrolio iracheno. Tuttavia, molte sono le incertezze, a partire dal futuro delle minoranze che risiedono in quelle terre: arabi, turkmeni e cristiani. Per finire con la visione, più o meno concreta, di annettere al futuro stato le zone del nord della Siria finite in mano ai miliziani curdi.La diatriba sorta all’indomani della bandiera curda issata sul municipio di Kirkuk, al posto di quella irachena, era solo l’inizio di una disputa destinata ad esplodere, con il passaggio referendario siamo alla vigilia di qualcosa che potrebbe sfociare in nuovi conflitti.
PROVE DI RICONCILIAZIONE PALESTINESE
In Medioriente. Hamas accetta di smantellare il governo di Gaza. Con un comunicato stringato, l’organizzazione terroristica palestinese, che da 10 anni controlla la Striscia di Gaza, annuncia di accogliere le condizioni del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e intraprendere una fase di riconciliazione interna, sotto l’egida dell’Egitto del generale al-Sisi. Aprendo alle elezioni e ad un governo di unità nazionale per il periodo di transizione. Prove di dialogo, in passato sempre fallito, tra le principali fazioni palestinesi, che sono state ad un passo dal far precipitare la Palestina in una guerra civile. Le prossime ore segnano anche la vigilia degli incontri, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, tra Trump, il primo ministro israeliano e il presidente palestinese, per discutere del processo di pace.
Hamas nell’arco di un trentennio ha saputo mantenere una doppia linea d’indirizzo: proseguire nello scontro militare contro Israele e promuovere capillarmente il consenso popolare. Due approcci interconnessi. L’organizzazione terroristica palestinese ha sconvolto l’opinione pubblica internazionale con i suoi attentati ai civili israeliani. Ha frastornato i commentatori di mezzo mondo stravincendo libere e democratiche elezioni legislative nel 2006, lasciando la Comunità Internazionale nello sconcerto per quel risultato elettorale, raggiunto contro ogni pronostico, e nonostante qualche ostacolo. Diventando la prima forza politica tra i palestinesi. Oscurando Fatah, il partito di Arafat, che già prima della scomparsa del suo storico fondatore, era accusato di: fauda (caos), fasad (corruzione), fitna (incitamento al conflitto) e falatan (immoralità). Abu Mazen, l’erede di Mr Palestina, è al dodicesimo anno consecutivo di mandato. È politicamente logorato, non può contare nemmeno sull’appoggio incondizionato della Casa Bianca. Ha perso la fiducia del suo popolo, lo testimoniano le recenti elezioni amministrative, a maggio di quest’anno, in Cisgiordania, con Fatah ridimensionato nei numeri e fuori dal governo delle principali città. Coinvolto in una faida per la sua successione alla Muqata. Molto meno convulsa la situazione dentro Hamas, dove con linearità le varie anime che compongono l’organizzazione – ala militare, religiosa e caritatevole, politica ed estera – evitano contrapposizioni e litigi. Alternando al vertice in questi ultimi anni figure chiave come Khaled Meshal prima, e Ismail Haniyeh, oggi. Meshal è il collettore degli aiuti internazionali dal mondo arabo e il pontiere delle alleanze strategiche nella regione mediorientale, dalla Turchia al Qatar. Haniyeh, elevato al ruolo di capo supremo è il mediatore con l’ al-Sisi, rinnegando i Fratelli Mussulmani. Sua l’iniziativa di cedere Gaza, in quella che era una mossa quasi forzata: le pressioni egiziane e la crisi economica strutturale davano poche alternative. L’inverno alle porte e la precarietà di energia elettrica per la popolazione gazawa, le ripetute guerre con Israele, l’altissima disoccupazione, le condizioni di povertà diffuse, le carenze nei servizi, il blocco degli stipendi nella pubblica amministrazione, la chiusura dei valichi, sono fattori e difficoltà che sfiancherebbero qualsiasi regime. La decisione della dirigenza di Hamas di fare un passo indietro e indire il voto è, quindi, una svolta ambigua e il gioco è pericoloso. Il gesto eclatante di consegnare le chiavi di Gaza pone Abu Mazen difronte a seri imbarazzi: quella di Hamas infatti non è una resa incondizionata, le milizie non deporranno le armi e tantomeno saranno dismesse. E sul piano internazionale se il presidente palestinese non dovesse accogliere la proposta di Haniyeh andrebbe ad incrinare seriamente le relazioni con il Cairo, perdendo un prezioso alleato. Al contrario se, il condizionale è d’obbligo, ratifica l’offerta, dovrà aspettarsi ritorsioni da parte di Israele. Nel 2050 Gaza rischia di essere un luogo invivibile, ma prima di allora Hamas potrebbe governare in tutta la Palestina non occupata da Israele.
VARIABILE LIBICA
Nel vertice con Francia, Spagna e Germania, l’Italia ha raccolto plausi e consensi: cooperazione decentrata con gli enti locali libici e lotta ai trafficanti. Non sono mancate pacche sulle spalle e vigorose strette di mano. Tuttavia, il sentore è che non c’è un reale interesse ad operare in perfetta e piena sinergia per risolvere il caos libico. Nei fatti Macron pensa ad aprire hotspot (centri di accoglienza e detenzione) in giro per l’Africa, peccato ne esistano già e siano dei lager. La cancelliera tedesca è intenzionata a rivedere gli accordi di Dublino, e stravincere così le imminenti elezioni. Mentre, l’Italia vorrebbe evitare di restare isolata.
Comunque, per affrontare la questione libica nella sua interezza c’è prima da risolvere la variabile Khalifa Haftar. In questi mesi il generale libico ha ripreso la lunga marcia di conquista, occupando o liberando città e villaggi della costa. Ha scatenato quella che è la più grande campagna militare nel nord Africa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, l’Operazione Dignità. Una lotta spietata e durissima purtroppo non solamente contro il terrorismo. Fonti delle organizzazione per i diritti umani presenti sul territorio accusano gli uomini di Haftar di compiere metodicamente uccisioni di massa e di essere responsabili di “crimini contro l’umanità”: il tribunale dell’Ajia ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Mahommud Al-Werfali, fedelissimo di Haftar, carnefice nell’assedio di Bengasi.
Il capo di stato maggiore della Cirenaica, tra propaganda e ostilità nei confronti di Roma, in un paese attraversato e devastato da odi tribali promette di mettere fine all’anarchia con l’uso della repressione. Gheddafiano pentito e collaboratore stimato della CIA, pretende dall’Europa un credito, economico e logistico, illimitato per schierare la sua milizia lungo la frontiera meridionale: respingendo i profughi, disarmati e alla fame, che vi transitano. Elucubrazioni dell’uomo oggi più potente in Libia.
Nel contesto della guerra civile libica contano, comunque, le alleanze internazionali. Haftar è legato da doppio filo al presidente egiziano Al-Sisi. Esercito e servizi segreti egiziani sono un fattore determinante dell’ascesa del generale libico. Ufficialmente il Cairo appoggia entrambi i governi: Tripoli e Tobruk. Una strategia di comodo per dimostrare alla comunità internazionale che ogni tipo di soluzione deve passare dalle rive del Nilo oppure è destinata a fallire: è il diritto di prelazione sul futuro assetto geopolitico della regione a prescindere da dove si sposterà l’ago della bilancia. Sul campo di battaglia Al-Sisi è spalla a spalla con l’Esercito nazionale libico (LNA) di Tobruk e di Haftar. Nell’emiciclo di New York parla la stessa voce del Governo di Unità nazionale (GNA) di Tripoli e di al-Serraj. Ambivalente? No, scaltro e freddo calcolatore. La partita nel Maghreb è talmente complessa che il rischio di esserne fagocitato è alto. Al-Sisi ha sfruttato le ambizioni napoleoniche di Macron tessendo, in parte segretamente, la rete che ha portato al vertice di Parigi del 25 luglio dove al-Serraj e Haftar hanno siglato la tregua di La Celle Saint Cloud. Un accordo precario che difficilmente verrà rispettato dalle parti, ma che se dovesse palesarsi disastroso e inconcludente avrebbe come unico capo espiatorio il giovane inquilino dell’Eliseo, e non il nascosto manovratore egiziano.
Intrighi e intrecci all’ombra dei quali si compie il dramma dei migranti. Sfruttati, torturati e schiavizzati, costretti in condizioni disumane a sopravvivere sulle dune del Sahel, nella speranza di un imbarco. Tappare l’imbuto della Libia alla migrazione può alla fine risultare proficuo, remunerativamente, a chi oggi gode d’impunità. La Turchia del sultano Erdogan, pagata profumatamente per bloccarli in un’altra sponda del Mediterraneo, insegna. Eppure, tutti vorrebbero aiutarli, a parole.
NO TENGO MIEDO
Poche ore di distanza e il grido Allah Akbar echeggia dalla Catalogna alla regione di Turku. Una serie di attentati a catena che se non orchestrati nel dettaglio sono sicuramente sponsorizzati Isis. Persino il web si tinge di nero con frasi farneticanti: “La Spagna è la terra dei nostri avi e noi la riprenderemo con la forza”. Agghiaccianti parole che non piegano gli spagnoli scesi in piazza: “No Tengo Miedo”, “Non ho paura”. Per capire a fondo la natura dell’Isis non è sufficiente fermarsi alla sua ideologia di morte e distruzione. Il terrorismo di matrice jihadista è il risultato degli effetti della crisi internazionale e dei conflitti localistici che imperversano nel Medioriente da anni. L’Isis non è solo una costola “impazzita” di Al Qaeda, è la sua metamorfosi strutturale. È un salto di qualità rispetto ad una visione che personificava il culto di Bin Laden. È il passaggio da un sistema che ruota intorno ad un sole a quello di una galassia di stelle sparse nello spazio infinito. Per questo anche se i seguaci del Califfato perdono terreno e sono sconfitti sul campo di battaglia mantengono un forte ascendente e ingrossano le fila nei quattro angoli del pianeta. Il regno del terrore muore lentamente tra le dune del deserto in Siria e Iraq ma il sogno resta, e nuove ondate sono pronte ad immolarsi per la causa. Alla vigilia dell’11 settembre 2001 al Qaeda contava su una forza di poche centinaia di unità, oggi lo stato islamico possiede nella penisola araba qualcosa come 40mila miliziani, un’armata imponente. Fanatici provenienti, in maggioranza, dal mondo arabo o reclutati nei paesi occidentali.Tuttavia il numero di forze impiegato nella difesa dei confini del pseudo Califfato, da Mosul a Raqqa, o nella conquista dei villaggi nell’est della Siria è solo la punta di un iceberg. Una rete ramificata si espande in Afghanistan, nel nord Africa e lungo la fascia Subsahariana, in Asia e nel Caucaso. Con cellule nelle città europee e in quelle statunitensi. Plotoni di uomini o lupi solitari pronti all’azione suicida. Impegnati in una guerra asimmetrica per definizione. Per spiegare l’ordine di grandezza del fenomeno jihadista in Siria ed Iraq è necessario partire dal disfacimento del partito d’ispirazione socialista e panarabo Baath, con la caduta di Saddam Hussein e lo sgretolarsi del regime di Assad. Vendette e odi, ufficiali fedeli ai regimi che cambiano casacca e, armi alla mano, passano con l’Isis. Affiliazioni frutto di scelte politiche legate a logiche tribali, non a rivendicazioni religiose sul diritto e la teologia islamica. E una tipologia di organizzazione mutuata dal franchising commerciale. L’aspetto fondamentalista è determinante nell’indottrinamento dei foreign fighters. Idealizzando il valore dell’ortodossia come unica strada per la redenzione, in una lotta senza confini agli infedeli “crociati”. Chi nel 2014, all’insorgere dell’Isis con la proclamazione della nascita del Califfato di Al Baghdadi, ha pensato che sarebbe di li a poco imploso, ha commesso un grave errore di sottovalutazione: non ha tenuto conto che in Turchia il sultano Erdogan pur di arginare i curdi sarebbe sceso a patti con i peggiori delinquenti, aprendo di fatto le frontiere. Resta oscuro e ambiguo il ruolo dei servizi segreti, tanto di quelli sauditi quanto della CIA, nella fase embrionale di Daesh. Invece, è stato trascurato il fatto che nelle prigioni di mezzo mondo una fascia generazionale lasciava la microcriminalità e abbracciava il credo fondamentalista: una sottocultura giovanile dedita allo spaccio dell’hashish che diventa ossessionata dalle cinture esplosive. È mancato anche il blocco alle casse, milionarie, che sostengono economicamente l’organizzazione. Mentre la comunità internazionale dava la caccia al nemico pubblico numero uno, un esercito silente attraversava continenti, montagne e deserti pronto a combattere nel nome di un islam distorto, diffondendo l’idea di un regno dei cieli in terra, portando caos, sangue, terrore e paura ovunque.
L’ESTATE DEL BIBIGATE
In Israele il governo guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia di voler oscurare l’emittente televisiva Al Jazeera, perchè fiancheggerebbe il terrorismo. Ma la decisione presa dal ministro delle Comunicazioni di Gerusalemme presenta talmente tante anomalie da risultare pressochè inefficace e quasi certamente fallimentare. Infatti, prassi vuole che la revoca delle credenziali ai giornalisti esteri deve essere motivata, e comprovata, con una informativa delle agenzie di sicurezza. Inoltre, per spegnere la CNN araba occorre il sostegno delle compagnie che mettono sul mercato i pacchetti televisivi via cavo o satellitari, anche in quel caso il provvedimento non avrebbe nessun effetto per il semplice dato che gli arabi israeliani seguono il canale qatariota avvalendosi di antenne paraboliche. Infine, la serrata delle sedi locali dell’emittente di Doha è materia del parlamento (Knesset). E ciò può avvenire solo dopo aver seguito l’iter burocratico: passaggio della mozione nel gabinetto dei ministri, verifica di costituzionalità dell’atto da parte dell’avvocatura di stato e poi ritorno alla Knesset per il voto finale. Insomma, Al Jazeera resta accesa. Dietrologia vuole che con questa manovra il governo israeliano abbia voluto banalmente mandare un messaggio “distensivo” al blocco dei paesi del Golfo non allineati con il Qatar, emiri sauditi in primis. Intanto, un vero e proprio terremoto politico rischia di demolire la popolarità e definitivamente la carriera di Benjamin Netanyahu. Uno scandalo a catena che riguarderebbe presunti illeciti del primo ministro in questi anni. Lui, che non è digiuno a scalpori e gossip, dalle vociferate relazioni extraconiugali alle critiche per le vacanze lussuose spesate da noti imprenditori, risponde che è vittima di un linciaggio mediatico. Differente lettura danno i magistrati che lo “braccano” oramai da mesi su vari fronti. Prima l’apertura di due fascicoli denominati 1000 e 2000: uno per i regali alla moglie Sara che nasconderebbero tangenti, l’altro per le pressioni ad un editore per “ammorbidire” la linea. E poi, ad inguaiare il leader del Likud il filone d’inchiesta 3000, una presunta frode nella commessa di sottomarini acquistati dal gruppo tedesco ThyssenKrupp. Ad arricchire le ricerche del procuratore generale Avichai Mandelblit c’è la testimonianza dell’ex capo di gabinetto di Netanyahu, Ari Harow. Devoto “servitore”, Harow accusato di molteplici reati, ha preferito aprire una trattativa sulla sua testimonianza con gli inquirenti e ricevere così una pena ridotta, evitando il carcere. Eppure, anche difronte ad un maremoto di questa portata non è da escludere la possibilità che Netanyahu ne esca “brillantemente” pulito. Al momento nel tentativo di sedare dolorose faide interne al suo partito ha scavato una trincea intorno all’esecutivo. Stiamo parlando del più longevo politico israeliano, dopo il padre della nazione David Ben Gurion, che ha dimostrato di essere inossidabile e intramontabile, ma forse oggi è più vulnerabile. Ha estremizzato la sua posizione nel corso delle stagioni e polarizzato l’attenzione pubblica sulle sue “verità”: “con i palestinesi non c’è dialogo e l’Iran è il male”. Convinto antiobamiano e antieuropeista. Amico di Putin. Nemico di Abu Mazen, “confinato” in queste ore a Ramallah nella Muqata, dopo le violenze esplose in Terra Santa nelle passate settimane. Netanyahu ha cavalcato il trumpismo, e come l’inquilino della Casa Bianca attraversa un periodo nero. Populista carismatico, scafato e diffidente, rispettato e odiato. La retorica del re nudo bene descrive la discesa lenta ed inesorabile di questo statista, che ha saputo incarnare i vizi di Israele. Se le prove di Harow dovessero incastrarlo la favola volgerà al termine. Attendiamo nuove sorprese sotto il sole di Gerusalemme: Dimissioni? Crisi di governo? Nuove elezioni? Comunque, la saga del “falco” sembra aver imboccato, una volta per tutte, la lunga strada dell’aula di un tribunale.
IL GIALLO DI PADRE DALL’OGLIO, UNA VICENDA SIRIANA
La speranza è vedere Paolo Dall’Oglio libero, il prima possibile, non dimenticandolo. Sono passati quattro lunghi anni dal rapimento del padre gesuita in Siria, sequestrato, presumibilmente, da un gruppo islamico di affiliazione qadeista. Dal triste giorno della sua sparizione a Raqqa di lui non si hanno più notizie: ucciso o detenuto in qualche prigione, venduto e passato di mano in mano tra diverse fazioni siriane? Le ultime tracce risalgono alla notte del 29 luglio mentre lavorava, con molta probabilità, alla mediazione per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Una trattativa delicata che forse avrebbe messo il padre gesuita sulla strada della guida spirituale dell’Isis, il califfo al-Baghdadi. Questo, per quanto lacunoso, è quanto sappiamo di Dall’Oglio, poi un lungo inesorabile e pesante silenzio. Servizi segreti e pressioni vaticane, ad oggi, hanno condotte ricerche infruttuose. Senza tuttavia chiudere mai alla speranza di veder tornare tra noi un uomo che ha dedicato la propria vita all’integrazione e amava dal profondo la Siria. Con la sua missione aveva scelto di ritirarsi in un luogo della regione impervio, solitario e mistico. Dove predicava la comunione con le chiese d’oriente e l’incontro tra le fedi che si richiamano ad Abramo. Sulle colline desertiche e incastonato tra le pietre, al nord di Damasco, aveva fondato nel 1991 la comunità monastica di Deir Mar Musa. Una luce di tranquillità e accoglienza dove, nel corso degli anni, migliaia di fedeli sono transitati: “Cercavo un posto per fare 10 giorni di preghiera, di silenzio. Ero interessato al Medioriente, alla pace, al dialogo islamocristiano, e sono venuto qua. Sono arrivato la sera, non c’erano tetti, porte, niente e ogni pietra andava per conto suo. Però questo luogo mi ha stregato e parlato della tradizione cristiana, convissuta nel contesto islamocristiano per quattordici secoli, parlandomi di speranza, bellezza e incontro con dio. E di ospitalità”. Raccontava il prete romano con voce calma ma ferma, barba lunga e ben curata, una kefiah al collo, parole semplici e ispirate al dialogo in una straordinaria testimonianza di pace. In quella intervista è tracciato il percorso ecumenico di padre Dall’Oglio, per raggiungere una sintesi completa con l’islam, attraverso lo scambio interreligioso nella totale affinità delle radici. Al punto da arrivare a definirsi “simbolicamente musulmano”. Conoscitore della lingua araba e studioso del Corano. “Come esiste quella giudeo-cristiana centrata su Sara, così a partire dai simboli biblici prolungati dalla meditazione coranica musulmana, c’è la possibilità di vedere prefigurata la Chiesa nella linea di Agar e Ismaele”. La visione di padre Dall’Oglio è manifestata nella regola che la comunità di Deir Mar Musa si è imposta, l’utilizzo della lingua araba come strumento di comunicazione sociale e liturgico, affiancata nelle preghiere al greco, all’aramaico e al latino. Impegno religioso e politico scandiscono la vita di questo monaco, pronto a sfidare il regime di Assad, schierandosi apertamente al fianco della piazza durante le rivolte della Primavera Araba: democrazia e dignità. Rendendolo un personaggio scomodo, a tanti. Facendo di lui una voce indignata, che protesta per la repressione e il massacro del popolo siriano. Prima che i riflettori delle televisioni si accendessero è testimone diretto della tragedia della guerra civile. È un punto d’informazione ma anche il pulpito di un monito, profeticamente avverte il sopraggiungere del caos. Capisce in anticipo che la violenza innescherà la fuga in massa, l’insorgere del problema dei profughi è prossimo. La Siria del dialogo si eclissa, coperta dalla strumentalizzazione e dal fanatismo religioso, sotto gli occhi di un occidente cinico: “la paura legittima la repressione, che legittima l’estremismo, che legittima la paura”. È il ciclo vizioso di un Medioriente senza pace e futuro, la frontiera “estrema” del Mediterraneo dove continuare a cercare padre Paolo Dall’Oglio.
FUOCO ALLE POLVERI IN MEDIORIENTE
A nulla è servito l’accorato appello di papa Francesco “alla moderazione e al dialogo” per il Medioriente. Gli echi del conflitto israelopalestinese tornano prepotentemente alla cronaca in un susseguirsi di violenza senza confini. È caos dalla Palestina alla Giordania, dove nella zona residenziale di Amman è stato compiuto un attacco terroristico all’ambasciata israeliana. A Gerusalemme, il venerdì della “rabbia” palestinese era arrivato, prevedibile e inesorabile. Dopo giorni di proteste e scontri la città eterna è stata attraversata da tensioni culminate con morti e feriti. Due popoli condannati dall’abisso eterno dell’incomprensione, in una terra contesa pietra per pietra. Il sangue palestinese scorre nelle strade di Abu Dis, El-Azarya, Ras Al-Amud e At-Tur, quartieri periferici di Gerusalemme est. La scia di dolore si sparge nella colonia illegale di Halamish, tra Ramallah e Nablus. In passato i teatri della violenza sono stati i vicoli arabi di Shuafat, Silwan, Jabel Mukaber o gli insediamenti israeliani di Efrat, Ariel e Maccabim. Cambiano i nomi dei luoghi e si aggiornano le statistiche di morti, feriti e arresti.
C’è chi oggi parla di una nuova Intifada alle porte ma, forse, è sempre la stessa che non è mai finita. Dal ’67 l’espansione israeliana ai danni dei palestinesi è proseguita inesorabile, erodendo terra e libertà. Radicando in entrambi una cultura impregnata di richiami alla resistenza o alla difesa. Tra quelle rocce tutto si carica di un significato simbolico che assume un valore trascendentale e, allo stesso tempo, politico. Simboli che non possono essere condivisi, una linea rossa invalicabile che per essere preservata risponde alla “legge” dello status quo: la legittimazione a fermare le lancette dell’orologio. Allora, una vecchia scala in legno viene lasciata per secoli sulla facciata del Santo Sepolcro, irremovibile per non alterare diritti e pratiche nel sancta sanctorum della cristianità. Tradizioni gelosamente custodite che esprimono potere e anche arroganza, come quella di continuare a vietare alle donne ebree di partecipare liberamente alle liturgie nel Kotel, il Muro del Pianto. Persino un metal detector, se si decide di istallarlo all’ingresso di un luogo di culto, in questo caso la Spianata delle Moschee, è considerato una provocazione e innesca un turbine di violenza inaudita.
Quando venerdì mattina, in una Gerusalemme blindata dalle forze dell’ordine, solo la voce del muezzin di al-Haram riecheggiava dal minareto, nel silenzio delle altre moschee, il finale era già scritto: cortine di fumo, sassi, manganellate e pallottole. Israele nel giorno della preghiera santa per i musulmani aveva chiuso agli uomini con meno di 50 anni l’accesso alla Spianata delle due Moschee sacre, una violazione criticabile certo, ma nulla che non fosse accaduto in precedenza tra quelle mura occupate. Invece, questa volta, la risposta di protesta palestinese ha avuto un’intensità e una partecipazione altissima. Mentre, gli organi di sicurezza israeliani giustificavano la presenza di maggiori controlli con il recente attentato terroristico del 14 luglio: due poliziotti drusi uccisi da tre assalitori arabi israeliani, che poi hanno cercato, e trovato, la morte sul selciato della Spianata. Israeliani che uccidono altri israeliani è un elemento di novità nel conflitto, non di poco conto. L’obiettivo degli attentatori era, probabilmente, innescare una deflagrazione che partisse da un luogo di risonanza per l’islam, il loro “martirio” è perfidamente riuscito. Scatenando l’emotività del mondo arabo e la reazione impulsiva del governo israeliano.
Come sempre dobbiamo chiederci qual’è il senso della scelta del muro contro muro portata avanti da Netanyahu in queste ore. E quanto i leaders palestinesi hanno strumentalizzato questo episodio. Le colpe, in una regione che è una polveriera, meritano di essere ripartite attentamente. Partendo dalla considerazione che terrorismo e occupazione sono gli anelli di una catena moralmente ingiustificabile.
UN ANNO DALLA CONGIURA AL SULTANO
La lunga notte del 15 luglio 2016 sulle sponde del Bosforo ha fatto calare le tenebre sulla democrazia turca. Le prime notizie televisive arrivarono alla rinfusa, parlavano di una orchestrazione ad opera di alcuni vertici dell’esercito: “In Turchia è in corso un tentativo «illegale» di assumere il potere da parte di alcun militari”. Carri armati nelle strade di Ankara mentre i jet F16 sorvolavano la capitale a bassa quota. Bloccati i media e i social network. Altre azioni dell’esercito in tutta la Turchia. La Cnn turca riferiva che i principali ponti ad Istanbul erano chiusi, occupati da reparti militari. Poche ore di dubbio su quanto stava realmente avvenendo: Erdogan arrestato, ucciso, in fuga? E poi lo stesso presidente compare sullo schermo di un cellulare e chiama in difesa la popolazione civile, la reazione è immediata: migliaia di persone salgono sui ponti dell’Anatolia, minacciate da colpi d’arma da fuoco, mettendo a rischio la propria incolumità. Il popolo turco assedia i golpisti che si arrendono, impauriti. Erdogan ha vinto e può sprigionare con forza tutta la sua rabbia.
Di congiure naufragate tragicamente la storia è piena, si sono abbattute su tutti i continenti in tutte le epoche. La sobillò Catilina nell’antica Roma di Cicerone e il cattolico Guy Fawkes nell’Inghilterra della dinastia Stuart. L’ultima in ordine cronologico è quella dello scorso luglio. Allora, a salvare la poltrona dell’ex calciatore salito al trono di Istanbul fu la sollevazione popolare, e un pizzico di “fortuna” dovuta al fatto che i militari rivoltosi, durante i momenti cruciali del golpe, restarono numericamente un gruppo esiguo, minoritario e mal organizzato. Una oscura trama di commistione tra la burocrazia che ruota intorno al palazzo e le alte cariche dell’esercito che stando alla versione di Erdogan sarebbe stata disegnata dal ricco predicatore Fetullah Gulen. Il quale, in esilio in USA, tuttavia ha sempre negato di essere l’architetto del complotto. Ma che molti, sotto interrogatorio, e presumibilmente anche tortura, avrebbero direttamente indicato come il vero mandante.
Il ripristino della “legalità”, post attentato alle istituzioni, ha innescato un processo antidemocratico, caratterizzato da purghe e arresti indiscriminati. Con lo strumento dello stato d’emergenza prolungato sono state oscurate le libertà, a partire da quella di stampa. La spirale degli eventi ha portato ad una “incrinatura” diplomatica tra Ankara e Bruxelles, allo stesso tempo ha segnato un divario storico tra Ankara e Washington, mettendo una pietra tombale nelle relazioni tra Erdogan e Obama. Dalle ceneri del golpe ha preso corpo uno spostamento degli assetti geopolitici: il patto di ferro con Mosca, per arginare il terrorismo jihadista, e la saldata alleanza strategica nella regione con il Qatar, in chiave di protezione alla fratellanza musulmana e alle sue emanazioni.
Il Sultano di Istanbul dopo aver sventato il pericolo ha “legittimato” il proprio potere attraverso lo strumento referendario, aprendo le porte, a scenari di una possibile deriva dittatoriale. Spaccando la società e facendo risorgere l’opposizione laica e democratica.
Il weekend appena trascorso ha visto celebrazioni ufficiali in tutta la Turchia per il primo anniversario del fallito golpe. Un tripudio di bandiere e slogan, cerimonie imponenti, retorica populista e nazionalista. Per ricordare l’epopea di quelle ore travagliate e convulse, di cui ci resta il dramma delle oltre duecento vittime e delle migliaia di persone finite nelle maglie della rete dell’epurazione senza fine. Ai morti l’onore dell’eroica narrazione della propaganda. Ai secondi l’accusa infamante e imperitura del vigliacco tradimento della patria, un’onta sprezzante che merita il “taglio della testa”. Questo ha promesso il Sultano dal palco alla folla, ad una Turchia euforica e cieca, diventata una insidia per l’Europa e per i suoi ideali.
Un viavai nel Golfo
Il segretario di stato americano Rex Tillerson, braccio destro di Trump, ha siglato con il Qatar uno storico memorandum nella lotta al terrore che prevede di tracciare e punire i finanziamenti al fondamentalismo, prima di volare a Jeddah e a Doha per intensi incontri diplomatici nel tentativo di sanare una crisi complessa e intricata tra i Paesi del Golfo. Attenuare la rivalità nella regione è lo scopo primario della Comunità internazionale. Ci ha provato nei giorni scorsi, senza ottenere risultati, il Ministro degli Esteri britannico Boris Johnson. Durante il suo viaggio l’esponente di spicco dei Tories ha stretto mani, è apparso sorridente, ma in realtà attendeva l’esito dell’Alta Corte di Londra, che doveva giudicare la regolarità della vendita di materiale bellico ai sauditi da parte dell’industria britannica, contratti fortemente voluti dallo stesso politico artefice della Brexit. Il verdetto ha dato ragione a Johnson ma è stato accolto con disapprovazione da parte di molte ONG che richiamavano e reclamavano la violazione del diritto internazionale. Il governo di Theresa May è anche accusato dall’opposizione di “nascondere” i risultati delle indagini sui rapporti tra fondamentalismo islamico e Arabia Saudita, volute dal suo predecessore Lord Cameron. Il report, stando ad indiscrezioni giornalistiche, inchioderebbe gli emiri alle loro responsabilità, accusandoli, prove alla mano, di collusione con il jihadismo globale attraverso una rete di finanziamenti ponte. Parte dei milioni di petrodollari arrivati sulle sponde del Tamigi sarebbe stata utilizzata per creare cellule radicalizzate. Più o meno la stessa denuncia che i sauditi muovono ai qatarioti in uno scontro avvallato, così si mormora, dallo stesso Trump, che per vendetta ad un mancato “aiuto” alle sue aziende di famiglia da parte qatariota, saltato all’ultimo momento, avrebbe dato il via libera alle sanzioni dei vicini. Al presidente americano, lo scorso maggio, sono bastati appena due giorni di permanenza nelle tende dorate del deserto arabo per provocare un terremoto nell’area: armando di fatto entrambi i “nemici” e facendo saltare i fragili equilibri del Medioriente. Sauditi e qatarioti hanno imboccato da tempo strategie geopolitiche dissonanti. Il Qatar avrebbe “tradito” le “promesse” siglate tra il 2013 e il 2014 con le altre monarchie arabe, inclusa quella di “ammorbidire” la propaganda mediatica di Aljazeera. Sul piano delle relazioni internazionali gli sceicchi della Medina e della Mecca hanno un saldo legame con l’Egitto del faraone Al Fattah al Sisi. Mentre gli sceicchi della piccola penisola araba sono affini, cuore e portafoglio, al sultano di Istanbul Erdogan. I primi hanno dichiarato guerra ai fratelli musulmani, i secondi invece concedono protezione e fondi alla fratellanza. Ancora più controversa è la questione in Libia, ai nostri confini e lontano dalle acque turbolente del Golfo. Nelle coste della Cirenaica e della Tripolitania la partita delle monarchie arabe è tesa. Doha appoggia il governo di Al Serraj, in linea con l’Italia. Riyad è al fianco delle armate del generale Haftar, con il quale trattiamo a fasi alterne. La natura dei rapporti e delle relazioni tra il Golfo e il Sahel Mediterraneo ovviamente non è solo economica. Il dubbio è che le armi made in USA vendute al suk da Trump possano finire, attraverso vari canali, in quello spicchio di terra a noi adiacente, come già successo in passato. Uno dei consiglieri più ascoltati a Washington RC Hammond ha dichiarato che c’è uno spiraglio di ripresa della trattativa tra i paesi del Golfo solo se il Qatar accetterà alcune concessioni in cambio di un approccio più morbido da parte degli altri stati: “siamo in una strada a doppia percorrenza”. Il giallo dei fondi per l’estremismo islamico provenienti dai Paesi arabi non ha ancora un colpevole: “Qualcuno ha le mani sporche”.