25 APRILE, LIBERAZIONE

“I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”, diceva il partigiano, diventato presidente, Sandro Pertini: l’amato politico italiano scomparso trentanni fa. 25 aprile 2020, senza piazze gremite, acceso e attivo lo spazio virtuale, dei social. È il mondo e la cultura delle nuove generazioni, quelle destinate a tramandare la memoria, con la forma a loro più congeniale: il web.

In questi, pesanti e tristi giorni del Coronavirus, nella lunga lista delle vittime compaiono i nomi dei testimoni di quel lontano 1945. Tra i tanti ci ha lasciato Francesco Nezosi, classe 1930, è stato una staffetta partigiana nella provincia bergamasca. Quattordicenne affronta con coraggio la pistola puntata di un miliziano fascista che voleva conoscere dove si era nascosto il fratello, aggregatosi alla brigata “Francesco Nullo” di Giustizia e Libertà. Non parlerà, dalla sua bocca non uscirà nessun tradimento. Tuttavia, il brutale episodio cambierà il corso della sua vita, convincendolo a schierarsi. Gli occhi di quel giovane videro gli eventi salienti della battaglia di Fonteno, nell’agosto del 1944, quando la 53º Brigata Garibaldi andò in aiuto della popolazione locale che rischiava di essere rastrellata. L’operazione dei partigiani fu un successo. Al termine dello scontro rilasciarono i soldati della Wehrmacht fatti prigionieri dopo la promessa che avrebbero lasciato in pace i civili. Tornati liberi, vigliaccamente, non rispettarono i patti. Storie drammatiche che non hanno confini, come quella di Aryeh Even, sopravvissuto alla Shoah. E prima vittima israeliana del Coronavirus. “Un volto dolce, rassicurante”, era nato a Budapest 88 anni fa. Nel 1941, il padre venne deportato prima in un campo di lavoro ungherese e poi … a Mauthausen. Il nonno, invece, venne arrestato e il cadavere gettato nel Danubio. Per mesi Even, la madre e il fratello furono costretti a fuggire dalla furia bieca degli sterminatori in camicia bruna. Si salverà grazie alla protezione di un diplomatico svedese. Piera Vitali, “la biondina della Val Taleggio”, evase dal mezzo che la stava portando dal carcere di San Vittore in Germania. Era stata arrestata e torturata dai fascisti. È morto anche Guglielmo Giusti, ultimo partigiano di Somma Lombardo nel varesotto, salì sui monti per combattere con la Divisione Valtoce, partecipò anche alla Repubblica dell’Ossola e venne internato in Svizzera.

Il bel fiore del partigiano continua a sbocciare anche nell’epoca buia del contagio. “Bella ciao” risuona tra i balconi. A la Spezia hanno festeggiato affacciandosi alla finestra i 92 anni di Umberto Bellavigna, nome di battaglia William. Il 25 aprile del 1945 entrava nella città ligure liberata. Pagine indelebili della storia. Covid19 e nazifascismo sono due virus diversi. Per debellare la pandemia è richiesto il vaccino chimico. Mentre, l’antidoto al totalitarismo sono i valori democratici. In entrambi i casi la barriera al virus si costruisce nel rispetto della nostra Costituzione.

IL SULTANO SENZA MASCHERA

Il lungo sultanato di Recep Tayyip Erdogan è passato indenne al golpe, e ora è alla prova di una nuova congiura di palazzo, in atto per la sua successione. E a portare alla luce lo scontro politico è stato il Coronavirus. Le recenti frizioni nel governo sulla gestione dell’emergenza sanitaria rispecchiano le dinamiche della lotta esplosa tra le diverse correnti del partito Akp, fondato dal presidente e di fatto in mano alla sua famiglia.
La Turchia ha confermato ufficialmente il primo caso di Covid19 lo scorso 11 marzo. Quello che il ministero della sanità di Ankara riconobbe come il paziente zero era appena rientrato da un viaggio in Europa. Altre informazioni relative al contagiato non sono state rese pubbliche, per non violare la privacy del malato. Mentre, paradossalmente la libertà di stampa latita. Al vaglio del parlamento una legge che permetta il totale controllo delle app di messaggistica. Erdogan affronta un calo di consensi e popolarità. Un distacco che è andato ampliandosi con l’acutizzarsi della crisi economica e finanziaria degli ultimi anni: il crollo della lira, la galoppante inflazione, l’elevato tasso di disoccupazione e l’escalation militare in Siria contro i curdi. Trema l’industria del turismo, che con i suoi circa 50 milioni di visitatori l’anno è un asset strategico, e al contempo molto fragile. In balia di effetti negativi come il terrorismo ma anche imprevedibili come la pandemia.
Da quando è stato annunciato il coprifuoco, a Istanbul, ma un po’ ovunque nel Paese, ci sono state scene di panico generale, supermercati invasi e razziati, lunghe code nelle strade nel tentativo di scappare dai grandi centri urbani. Qualcosa è andato storto nella comunicazione governativa. Evidentemente sono stati fatti errori su errori nel fronteggiare l’epidemia. La decisione di chiudere la frontiera con l’Iran e cancellare i voli verso destinazioni con alti tassi di infezione, tra cui l’Italia, non sono state misure sufficienti a contenere Covid19. E oggi il boom dei contagi rischia di aggravare la situazione. La Mezzaluna Rossa turca, che aderisce alla Croce Rossa internazionale, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno recentemente allertato sulla possibilità che il virus possa colpire in modo catastrofico la parte più vulnerabile della popolazione. A partire dai rifugiati, 4 milioni di persone, il 90% proveniente dalla Siria, dalla guerra.
Il sistema sanitario nazionale turco, privato e pubblico, nonostante gli avvisi e gli echi dal resto del mondo non ha sviluppato un piano di scorte di materiale medico. E le strutture sono al limite. Il governo per placare le polemiche ha fatto distribuire mascherine e disinfettanti. Svuotato le carceri con una maxi-amnistia per un terzo dei detenuti, 90 mila, escludendo dal provvedimento gli oppositori politici.
In molti, intanto, si chiedono se Erdogan fosse a conoscenza della presenza del Coronavirus già da tempo. Chi critica è convinto di ciò. La stampa filo governativa ha invece serrato i ranghi contro le “speculazioni”.

IL COVID NEL MONDO, STORIE D’ASIA

A Wuhan, luogo di origine del Covid19, la gente è finalmente “libera” e può uscire di casa. Dopo 76 giorni di isolamento. In molti, come prima cosa, hanno fatto le valigie e lasciato la città trasferendosi in regioni vicine. Con il rischio per la Cina di una nuova diffusione del contagio, il temuto rebound: altri contagiati sono stati registrati al di fuori della provincia di Hubei. Dopo decine di nuove infezioni l’Impero del Dragone ha deciso di assegnare ingenti risorse economiche per prevenire la diffusione del virus. In una delle “tigri” asiatiche, a Singapore, il governo ha invitato, per mitigare la crisi dei generi alimentari, a coltivare il proprio orticello sui tetti, di casa o dei parcheggi. La città-stato produce circa il 10% del proprio fabbisogno, il resto è importato ma le restrizioni sui trasporti della grande distribuzione hanno innescato una situazione alquanto caotica, tra carenze e impennata dei prezzi nei negozi. Per evitare il panico le autorità hanno assicurato investimenti per 21 milioni di euro a sostegno della produzione di uova, verdure e pesce. Inoltre, è stato predisposto un programma per promuovere l’utilizzo di spazi agricoli alternativi come i siti industriali dismessi e, appunto, i tetti. A Singapore inoltre è stato sospeso l’utilizzo di una nota piattaforma social per video conferenze adoperata dagli insegnanti, dopo aver riscontrato evidenti violazioni della privacy. La Malesia sotto blocco parziale registra una decrescita di casi, tuttavia, le restrizioni al movimento sono state estese sino alla fine del mese. In Indonesia la curva del contagio è in aumento. In Corea del Sud, nella città di Daegu, con il più diffuso focolaio, i casi sono zero, per la prima volta da febbraio.
In Pakistan i contagiati sono in continuo aumento come il numero dei decessi. Le recenti proteste in piazza dei medici pakistani, che evidenziavano una situazione ingestibile e le “deplorevoli” condizioni in cui devono lavorare, sono state represse dalla polizia con l’uso della forza. A Islamabad, tuttavia, la misura che limita la presenza di un massimo di cinque persone contemporaneamente all’interno delle moschee è stato quasi completamente ignorato dai fedeli.
Nei regni della Cambogia e della Thailandia l’assenza dei rispettivi monarchi, uno a Pechino per visite mediche e l’altro in vacanza in Baviera, ha di fatto lasciato pieno potere ai militari. A Bangkok dall’emergenza nazionale (adottata anche dal Giappone) si è passati al coprifuoco notturno. Nella terra dei khmer invece da giorni si prospetta l’introduzione della legge marziale. Il Bangladesh ha optato per sigillare il quartiere di Cox Bazaar, dove sono ospitati oltre un milione di rifugiati Rohingya, provenienti dal vicino Myanmar.
Mentre l’India è sul baratro della catastrofe umanitaria. Nel nord ovest del Paese, nella regione del Punjab, un raro panorama si offre alla vista, grazie alla riduzione dell’inquinamento atmosferico: le imbiancate vette dell’Himalaya distanti centinaia di chilometri.

IL MEDIORIENTE E IL VIRUS

Politica, religione e il coronavirus in Medioriente. A Gerusalemme al Santo Sepolcro è permesso l’ingresso solo ai “custodi” rappresentanti delle diverse dottrine cristiane, che “mantengono” lo status quo del luogo. Saltata la tradizionale processione della domenica della palme sul Monte degli Ulivi e rinviata la messa crismale, a Pasqua le porte della Basilica,che secondo la tradizione ha ospitato le spoglie di Cristo, resteranno chiuse. Intanto, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, è di nuovo in quarantena.
La decisione del primo ministro in carica è stata presa dopo che il ministro della Sanità, il rabbino ortodosso ed uomo di punta del partito Yahadut Ha Tora Yaakov Litzman, è risultatopositivo al virus. Israele conta 42 morti e si sfiorano 7.600 casi. I dati del ministero della Sanità parlano di 115 pazienti in condizioni gravi e di 427 israeliani guariti dopo aver contratto la Covid19. Ma i numeri continuano inesorabilmente a salire. L’isolamento del leader della destra cade proprio nel momento di frenetiche consultazione per formare un governo di unità nazionale in l’ex rivale Benny Gantz. E l’introduzione di misure di contenimento più stringenti (incluso l’impiego dei servizi segreti nel tracciamento dei contagiati) trova l’opposizione, anche violenta, della comunità degli ebrei ortodossi, restii a rinunciare alle proprie abitudini.
Nelle città e nei quartieri degli haredim, Covid19 cresce tre volte di più rispetto al resto di Israele. Intanto è stata sigillata dai militari Bnei Brak. In questa città con 200mila abitanti, poco distante da Tel Aviv, la cui stragrande maggioranza dei residenti osserva rispettosamente le leggi talmudiche, è stato riscontrato il più diffuso contagio: il 38% dei cittadini testati è risultato positivo a Covid19. Mentre, a pochi chilometri di distanza, nella Striscia di Gaza,la dittatura di Hamas impone di posticipare i matrimoni. E l’Autorità Nazionale palestinese, che governa in Cisgiordania, ha imposto la chiusura dei territori: Betlemme, culla della Natività, è sigillata da giorni.
In Medioriente il primo focolaio è esploso ai margini della regione, in Iran. L’epicentro del contagio è stata la città santa sciita di Qom, cuore della rivoluzione dell’Ayatollah Khomeyni. Probabile che il virus sia stato veicolato da addetti alla costruzione della moderna rete ferroviaria ad alta velocità, oppure tramesso da un pellegrino: il santuario di Fatimah al-Masumah attira fedeli musulmani da tutto il mondo, inclusa la Cina. Teheran ha ufficialmente confermato i primi decessi da coronavirus il 19 febbraio scorso. Una settimana dopo casi erano segnalati in 24 delle 31 province. L’onda del contagio si era estesa anche fuori dal territorio nazionale. Similmente anche in Bahrein, Oman, Kuwait, Qatar e Arabia Saudita gli infetti avevano trascorso un periodo in Iran.
Attualmente, in Giordania è esploso il caso delle mascherine non a norma. Mentre, in Iraq il personale medico protesta per la mancanza di medicinali e ventilatori. E in Libano, dove il primo paziente positivo è stata una donna appena rientrata da Qom, sono i camionisti a criticare il governo. Il Kuwait ha “richiamato” 17mila insegnanti egiziani che hanno lavorato nel Paese, in passato. L’Arabia Saudita ha posto in quarantena l’area di Qatif, dove gli sciiti sono la maggioranza. E il ministero della Sanità ha invitato coloro che si erano recati in Iran a dichiararlo alle autorità. Pur avendo violato la legge che vieta di visitare l’Iran, decine di persone hanno risposto fornendo le generalità, e di fatto autodenunciandosi.

LA VALIGIA DEL COOPERANTE

Alle 9.41 di lunedì 30 marzo nella mia casella di posta elettronica compare una mail, in Italia sono le 4.41. Oggetto: recapiti whatsapp per segnalazione di voli. La missiva è firmata dal corrispondente consolare in Cambogia. Che mi invita a recarmi immediatamente in capitale a Phnom Penh in attesa di un volo di rientro. È iniziata l’evacuazione anche degli italiani. La notizia che aspettavo, non solo io. Ci siamo, si torna. Quasi euforico provo a chiamare la mia compagna. Non risponde, a quest’ora di solito è in sala operatoria. Intanto, incomincio a tirare fuori le valigie. Verifico la disponibilità di un mezzo di trasporto, sei sette ore di macchina, ci separano dalla prossima meta. Avviso gli amici connazionali, la loro reazione è molto contenuta rispetto alla mia, hanno il dubbio su cosa fare. Io da parte mia no. La Cambogia potrebbe precipitare da un momento all’altro nella legge marziale. È meglio tirarsi fuori il prima possibile, prima che la finestra si chiuda definitivamente. Squilla il cellulare, finalmente è lei. Paola è medico anestesista, e lavora presso una struttura sanitaria a Battambang per un progetto di cooperazione allo sviluppo. Da due anni gestisce e istruisce il personale medico locale. Ho giusto il tempo di dirle del piano d’emergenza in corso. Mi chiede: quando? Rispondo: subito! Silenzio. Abbiamo un problema. Il collega che dovrebbe sostituirla è entrato in quarantena. Se lei partisse dovrebbero chiudere le sale operatorie. Dentro di me risuona un deprimente noooo. Lo sapevo: “Mai una gioia”. Non posso nemmeno ribattere, sarebbe di cattivo gusto. Cerchiamo di vedere il lato positivo della cosa. Non c’è. O almeno non riesco a trovarlo. Eppure ci dovrà essere. Poi, una luce. Mi torna alla memoria la limpida foto del dolce sorriso di un bambino il giorno che è stato dimesso dall’ospedale, era saltato su una mina e aveva perso l’arto inferiore sinistro. Fisso l’immagine nella mente. Paola affonda il coltello nella ferita, la bambina che venerdì è stata operata d’urgenza perchè i capelli gli si erano intrappolati in un ordigno infernale, la rudimentale macchina per spremere la canna da zucchero, è ancora sotto sedativi ma sta molto meglio: salva. Guardo la mia valigia, un breve sospiro e con lentezza la ripongo sotto il letto. Non mi servi, non oggi.

Enrico Catassi

COVID-19 E L’AFRICA

L’Africa sta iniziando a fare i conti con Covid-19. L’Organizzazione Mondiale della Sanità esprime forte preoccupazioni per il contesto più povero al mondo, con fragili sistemi sanitari e strumenti limitati. Vari governi hanno infatti chiesto di agire contro la diffusione del coronavirus attraverso la sospensione degli interessi sul debito contratto, misura caldeggiata persino dalla Banca Mondiale. Ma con l’aumento esponenziale del numero dei contagiati, che supera i 2.500 casi in 43 paesi su 54, nei confronti degli occidentali cresce la tensione. Statunitensi ed europei sono accusati di essere gli untori. Dal Kenya all’Etiopia si segnalano violenze verbali e fisiche che coinvolgono anche molti italiani. Minacce nei confronti di nostri connazionali sono state segnalate anche in Camerun, Ghana e Tanzania. Il primo stato a dichiarare la calamità e lo shutdown, è stato il Sudafrica, afflitto da centinaia di casi. Quello stesso Sudafrica, che nella sua recente storia annovera il primo trapianto al mondo di cuore eseguito dall’equipe del dottor Barnard, sul finire degli anni ’60, e una epidemia di HIV tra le più gravi di sempre, a cavallo tra i due secoli, 300mila morti. I posti letto in terapia intensiva sono circa mille, un quinto in strutture private. Covid-19 è quindi una nuova sfida in aggiunta ad altre, endemiche, che mietono vittime sopratutto nelle sterminate baraccopoli delle periferie di Città del Capo, Johannesburg e Pretoria. Malawi e Zimbabwe invece non hanno ospedali in grado di accogliere infetti da virus. In Somalia è stata istituita un’area di quarantena nell’aeroporto di Mogadiscio, diventata un’anticamera dell’Inferno. Nel Sud Sudan, devastato dalla recente lunga guerra civile, sarebbero disponibili solo 24 letti a norma. Sia l’Uganda che la Nigeria, dopo aver affrontato “l’esperienza” Ebola, hanno attivato un piano di emergenza nazionale. In Congo chiusi i parchi nazionali per proteggere dall’estinzione gli indifesi gorilla.

L’incapacità di contenere il virus, sia in Europa che negli USA, è ovviamente un messaggio negativo per i paesi in via di sviluppo. Il timore è che il Coronavirus possa accelerare la sua diffusione, moltiplicandosi con effetti devastanti sull’umanità.

L’ORA, O MEZZ’ORA, DI GANTZ

Israele tra scenari politici in evoluzione e una nuova guerra, al coronavirus. Il generale Benny Gantz è stato incaricato dal presidente Reuven Rivlin di esplorare la formazione di un governo, avrà qualche settimana a sua disposizione. Quando uscirono i primi exit poll nelle recenti elezioni l’ex capo di stato maggiore era stato dato prematuramente per sconfitto, e politicamente finito. Allo stesso modo nulla sembrava poter evitare a Benjamin Netanyahu l’udienza in tribunale per i casi di corruzione di cui è accusato, ma l’introduzione del pacchetto delle misure di emergenza alla pandemia ha automaticamente rinviato, dal 17 marzo al 24 maggio, il suo processo. L’aver riconquistato la vetta delle preferenze dei consensi nelle ultime elezioni è indubbiamente un trionfo a metà per Netanyahu, risultando uno sforzo insufficiente a garantire alla destra la maggioranza alla Knesset.

La terza elezione in meno di 12 mesi ha inesorabilmente diagnosticato un Paese debilitato dallo stallo parlamentare. Senza l’esplosione del coronavirus anche in quell’angolo di Medioriente, sponda meridionale del Mediterraneo, avremmo molto probabilmente sentito già ipotizzare la data di una quarta biblica tornata elettorale. Sarebbe stato quasi inevitabile, ma la storia può prendere strade impensabili e imprevedibili. Comunque vada le acque della palude si sono smosse non per il timore di Hamas, Hezbollah, Iran o terrorismo ma agitate da un nemico invisibile, e ancora difficilmente isolabile.

Nella nazione, eccellenza delle start-up, la ricerca per limitare l’epidemia prosegue spedita e l’uso delle moderne tecnologie fa discutere. Rimbalzava da giorni la possibilità di un esecutivo guidato da Gantz, con Kahol Lavan, ed appoggiato da tutta la Lista araba (15 seggi, determinati), terza forza del Paese. Una coalizione alquanto inusuale, sostenuta anche dal leader del centro-sinistra, del Labor-Bridge-Meretz, Amir Peretz e dai nazionalisti di Avigdor Liberman. I numeri sulla carta non difettano. Ma amalgamare così differenti anime resta un’impresa epica se non mistica. Risulta quindi sempre “credibile” l’opzione che Netanyahu, un politico con la spiccata abilità nel costruire e riparare maggioranze, alla fine riesca ad inventare qualcosa per restare nella residenza di Balfour street.

Nel caso in cui l’operazione di Gantz non raggiungesse risultati concreti, allora Netanyahu potrebbe racimolare un manipolo di parlamentari “responsabili”, necessari per arrivare ad avere la maggioranza alla Knesset. Una mossa che sicuramente non troverebbe il consenso del presidente Rivlin, che dal giorno dopo il voto è un tessitore indomito di un patto tra il Likud e Kahol Lavan, e della rotazione al vertice. Intanto, appena ricevuto il mandato,Benny Gantz ha promesso di rendere il processo di formazione il più rapido e inclusivo possibile. Il generale si è impegnato a dare ad Israele “un governo il più ampio e patriottico possibile” e a “guarire la società dal coronavirus, così come dai virus della divisione dell’odio”.

NETANYAHU E’ PRIMO

Israele e la vittoria di Netanyahu, passata dai 10.631 seggi elettorali sparsi in tutto il Paese. Alle 22 di sera, le 21 in Italia, si sono chiuse le urne per il rinnovo del parlamento. In uno stato che è dovuto tornare a votare, dopo che ad aprile e settembre del 2019 non è riuscito a trovare una maggioranza chiara, quasi “italianizzatosi” alla retorica del ritorno al voto spasmodico. Tre elezioni consecutive e l’ennesimo responso: c’è un problema nel definire la maggioranza nella Knesset. E ovviamente stabilire un governo, trovare un leader, dare stabilità. I sondaggi della vigilia avevano previsto un testa a testa, con un leggero vantaggio del Likud di Netanyahu sullo sfidante Gantz e il partito “Blu e Bianco”, i colori della nazione. Stando agli exit poll è il longevo primo ministro ad imporsi e la coalizione che l’appoggia ad un passo dalla maggioranza assoluta. Alta l’affluenza. Per una campagna dai toni moderati, rispetto alle due precedenti. Lo stesso presidente Rivlin non ha mancato di lanciare qualche stoccata alla politica: “Questo è normalmente un giorno di festa, ma la verità è che non ho voglia di festeggiare. Meritiamo un governo che lavori per noi”. Ed ha lanciato un forte appello contro l’astensionismo. “Vi chiedo: andate a votare. Ogni voto è quello giusto. Ogni voto è la vostra voce. Andate e fatela sentire”. Un appello forte che è stato raccolto e che ha fatto registrare una partecipazione al voto come non si vedeva dal 2015. Il popolo d’Israele si è recato alle urne per dare una svolta, evitare un altro risultato ambiguo e il prolungamento dello stallo politico.

L’allungo finale della corsa dell’attuale premier e signore assoluto della destra israeliana è arrivato dopo aver corteggiato assiduamente la comunità etiope, quella favorevole a legalizzare le droghe leggere, il movimento dei coloni e persino la categoria dei tassisti. Il messaggio propagandistico conclusivo era stato dedicato all’elettorato religioso. Una ricerca di consensi in un’area che rappresenta una novità per Netanyahu, politico laico e di estrazione liberale. In fondo su quel lato è sempre stato ben coperto da potenti alleati, i due partiti religiosi ortodossi. Quello di tradizione sefardita, lo Shas, e quello di “famiglia” ashkenazita, lo Yahadut HaTorah. Ma il falco di Gerusalemme aveva la necessità di ottenere un voto in più dell’avversario, e quando deve cannibalizzare voti è un razziatore feroce: che non mostra pietà per nessuno, nemmeno per gli amici. Ha polarizzato nuovamente l’opinione pubblica, e ha saputo imporsi anche in questa battaglia. Distogliendo l’attenzione dagli scandali giudiziari che lo riguardano. Parziale successo per l’unione delle forze arabe. Risultato deludente invece per il centrosinistra sionista unito e allargato, sommando i seggi il totale nel precedente parlamento erano 11 seggi. Ora in blocco si fermano a 6, segno di un’inarrestabile declino. I nazionalisti di Yisrael Beytenu guidati da Avigdor Liberman restano l’ago della bilancia.

MAZEN E OLMERT RIPROPONGONO LA LORO VIA PER LA PACE

Al tavolo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU il presidente palestinese Abu Mazen, seppur con toni concilianti, ha rifiutato la mappa disegnata da Donald Trump per il processo di pace mediorientale: “È una gruviera. Legalizza ciò che è illegale e ignora molte risoluzioni delle Nazioni Unite”. Inoltre ha tenuto a precisare che il presidente statunitense “è mal consigliato”, ma nello stesso tempo il leader arabo ha però lasciato aperto uno spiraglio rassicurante: “La pace tra israeliani e palestinesi è ancora possibile”. Gelido il commento dell’ambasciatore israeliano Danny Danon: “Non ci saranno progressi finché rimarrà presidente”. Alla fine della inusuale riunione non è stata presentata nessuna risoluzione anti-accordo. Tuttavia, anche se dovesse essere proposta, l’iter al Consiglio di Sicurezza è viziato dallo scontato veto degli USA. Quanto potrebbe delinearsi è un successivo passaggio, non vincolante, all’Assemblea delle Nazioni Unite. In quel caso la credibilità del progetto di Trump in Medioriente verrebbe giudicata dai rappresentanti di 193 stati.
L’altro evento newyorchese della campagna di ostruzionismo alla visione di pace del presidente degli Stati Uniti è stata la conferenza stampa che il successore di Arafat ha tenuto in compagnia dell’ex premier israeliano Ehud Olmert. Abu Mazen e Olmert hanno pubblicamente difeso, ed elogiato, quanto raggiunto insieme: la convergenza di massima ottenuta alla conferenza di Annapolis nel 2007 e il riconoscimento di una soluzione a due Stati. A tagliare le ali delle colombe in quella stagione, archiviata da tempo, furono tre episodi: l’operazione “Piombo fuso” a Gaza l’anno seguente; le accuse di corruzione, per aver accettato tangenti quando era sindaco di Gerusalemme, all’allora primo ministro israeliano e la “rinascita” politica di Benjamin Netanyahu. Oggi Olmert, che ha scontato la pena detentiva (un anno e mezzo di carcere), si dedica alla promozione della cannabis per uso terapeutico, in qualità di consulente di una nota azienda farmaceutica israeliana. Si è ritirato dalla politica attiva dopo una lunga militanza nel Likud e l’approdo a Kadima con Sharon e Peres, esperienza antesignana di un’area centrista per certi versi affine al movimento Kahol Lavan guidato attualmente dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz. Per il quale Olmert non ha mai nascosto le proprie simpatie. In molti ritengono che è stata l’acredine per Netanyahu, fervente sostenitore della dottrina di Trump, a portarlo al fianco di Abu Mazen in questa battaglia. Altri, che l’ottantenne rais della Muqata, espressione di una classe dirigente logorata e che non riesce a rinnovarsi, con questo gesto abbia voluto dimostrare di essere disponibile a riprendere il dialogo con la controparte, chiedendo un ritorno al passato e alla trattativa diretta. Ma la risposta, in Israele, non può non arrivare prima che dalle urne del 2 marzo esca una nuova maggioranza.

FINE DI UNA “AMICIZIA”

Mentre Trump enfatizza “l’accordo del secolo”, 181 pagine di propositi, progetti e mappe geografiche, per dare una soluzione all’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi, questi ultimi replicano di aver ricevuto “uno schiaffo storico”. Due punti di vista completamente opposti. Inconciliabili. Il processo di pace in quella terra martoriata dai conflitti, ancora una volta, imbocca una strada a senso unico. Appunto, nessuna via d’uscita se non quella dell’unilaterale. Eppure, la leadership palestinese di Ramallah con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca aveva dimostrato apertamente un certo ottimismo per il nuovo corso post Obama. Appena insediatosi il neo presidente statunitense aveva ricevuto apprezzamenti dalla Muqata: Abu Mazen si era detto certo che il miliardario newyorchese “avrebbe sbalordito” e rilanciato i negoziati con un interessante approccio. Poco dopo, Jason Greenblatt inviato di Trump per il Medioriente fu ben accolto al suo arrivo nella regione, proverbiale ospitalità palestinese terminata con scambio di offese e rottura dei rapporti. Oggi Greenblatt è dimissionario da quel ruolo diplomatico immane, svolto unicamente in funzione della dottrina del suo capo, tra difficoltà insormontabili, con il crescente divario dal lato palestinese e l’avvicinamento alle posizioni della destra israeliana. A maggio del 2017, Abu Mazen e Trump si incontrano a Washington, il successore di Arafat esprime soddisfazione all’omologo per non aver trasferito l’ambasciata degli USA a Gerusalemme, come aveva promesso in campagna elettorale. Trump commentò che era un atto dovuto per riaprire lo spiraglio di dialogo, e “massimizzare le probabilità” di riuscita della futura soluzione. Secondo alcuni analisti è stata la prima e ultima volta che il presidente a stelle e strisce ha tentato “realmente” la mediazione tra le parti, da una posizione di neutralità, super partes. E allo stesso tempo con quella scelta di campo, che non durerà molto, ha offerto una finestra ai suoi più stretti collaboratori, proprio Greenblatt e il genero Jared Kushner, le due “colombe” che volavano sulla Terra Santa in suo nome.

Quando a dicembre 2017 Donald Trump annuncia al mondo di voler spostare l’ambasciata di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, contrariamente alla posizione della Comunità internazionale che su questa decisione si romperà perdendo lentamente pezzi, in poche ore si consuma la fine delle relazioni con i palestinesi e allo stesso tempo si palesa il futuro fallimento della missione di Kushner. Per l’Autorità Nazionale palestinese il percorso imboccato dall’amministrazione americana non è accettabile. Il piano di pace viene ufficialmente boicottato. Scattano le prime ritorsioni di Trump, i tagli al budget dedicato agli aiuti alla Palestina. Poi finalmente a gennaio 2020 annuncia miliardi per i palestinesi se accetteranno le sue condizioni. Intanto ha scatenato la collera e il rifiuto palestinese di continuare a collaborare. La Lega araba è con loro nella protesa, ma con qualche distinto.

Fauda e Balagan. Un blog di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi