I DISCOLI DI VISEGRAD

Le prossime scadenze per l’approvazione del bilancio 2021-2027 sono la prova della tenuta dell’Europa. In un contesto di complessità “caratteriali” che sembrano inconciliabili emergono problematiche accantonate, mettendo a nudo il disallineamento, le contrapposizioni, che provocano il cortocircuito dei meccanismi salvastati. Con conseguente ritardo nell’erogazione del Recovery Fund e la limitazione delle possibilità di spesa per ciascun stato. Il rischio è di far scattare, per la prima volta, l’esercizio provvisorio: tetto degli stanziamenti in dodicesimi mensili calcolati sull’esercizio precedente. Conti alla mano danni per miliardi di euro. Meno soldi per innovazione, ricerca e sviluppo.
In queste delicatissime ore di trattativa diplomatica a tenere in bilico le spese condominiali dell’Ue è il veto della triade Ungheria, Polonia e Slovenia. Ovvero, il nerbo del patto di Visegrád, l’asse tra i paesi ex comunisti ed oggi inclini al populismo. Guidati da partiti d’ispirazione clerico-nazionalista e da leader autocratici: giudeofobici e islamofobici, razzisti. Intolleranti e illiberali, ostili alla stampa indipendente, agli oppositori e all’accoglienza. Per consonanza assimilabili, purtroppo, ai regimi di Putin, Erdogan o Aliyev. Ricattano sfrontatamente, vanno contro gli interessi dei cittadini. Tuttavia, le spinte primatiste dell’Est differiscono da movimenti secessionisti come i pro Brexit di Nigel Farage perchè non manifestano nessun interesse ad uscire dall’Unione. Al contrario spingono per tenere il piede dentro, non fosse altro perché economicamente hanno maggiormente da perdere auto escludendosi.
In linea di principio non si oppongono al piatto offerto dalla Commissione per il rilancio (Varsavia ottiene oltre 60 miliardi di € mentre Budapest 15, la metà in aiuti a fondo perduto), ma alla clausola di “condizionalità” che il bilancio prevede d’introdurre. Un vincolo che legherebbe l’accesso agli strumenti comunitari al grado di salute dello stato di diritto del richiedente. È il perimetro geografico e culturale a cui l’Europa di domani vuole obbligare i suoi attuali condomini, con un formale contratto locativo valido 6 anni.
Inquilino insoddisfatto, indisponente e da non prendere a modello è il premier ungherese Viktor Orbán. Stella della destra sovranista internazionale. Architetto della nuova Budapest quale futura Aquisgrana, da erigere sulle ceneri di Bruxelles. Orbán il ribelle antieuropeista, su cui solo i richiami della Merkel sembrano avere qualche minimo effetto. Proprio Berlino si sta adoperando per trovare soluzioni per svicolare lo stop all’approvazione del bilancio con un piano alternativo. Intervenire direttamente tramite un meccanismo-ponte che consenta l’emissione di obbligazioni, garantite da tutti, tranne i succitati stati indisciplinati. Un mezzo per rispettare l’avvio di sovvenzioni e prestiti, urgenti e curativi. Resta da capire se è un avviso di sfratto ai condomini per atteggiamento irriguardoso.

L’ULTIMO VIAGGIO DEL TRUMPISMO

Il viaggio del segretario di stato statunitense Mike Pompeo in Israele è probabilmente una delle ultime pagine della politica estera di Trump in Medioriente. L’ormai pro tempore presidente, prima del commiato, ha voluto ringraziare, e rassicurare, pubblicamente gli alleati. Dedicandogli il tour finale delle visite ufficiali di stato. Ha inviato, il fedelissimo Pompeo a manifestare sentita amicizia a Netanyahu e profonda solidarietà alla destra nazionalista israeliana. In Terrasanta, in un mix di gesti simbolici, retorica e propaganda, l’ex direttore della CIA ha ripercorso il cammino dell’amministrazione Trump in questo quadriennio. Rendendo omaggio alle decisioni più significative del mandato presidenziale: dal riconoscimento ad Israele del Golan, a quello dei prodotti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. La visione di pace di Trump lungimirante o meno, ha indubbiamente introdotto una svolta di approccio significativo. Senza rimuovere gli ostacoli alla trattativa israelopalestinese, ha nascosto le criticità del contesto offrendo un’unica non concordabile soluzione. Gelando le attese dei palestinesi e allargando lo spiraglio di normalizzazione tra Israele e il mondo arabo. Fardello che viene lasciato in eredità a Biden. Investito a questo punto del compito di riportare al tavolo la controparte palestinese, ormai, dopo la recente scomparsa di Saeb Erekat, priva di una classe di credibili negoziatori. Orfana di figure di spessore che non siano riconducibili alla casta di Fatah o all’organizzazione terroristica di Hamas. Non è escluso che Biden valuti attentamente l’opzione di una terza via. Quella dell’élite palestinese con passaporto americano, imprenditori di successo o intellettuali vicini al partito democratico. Se Arafat portò ad impiantarsi alla Muqata di Ramallah la corte di Tunisi, Biden potrebbe fare altrettanto con una nuova generazione di governanti. Sul versante israeliano Netanyahu, con il cambio nei palazzi di Washington, ha effettivamente il rischio di vedersi obbligato ad accettare qualche compromesso, mostrando segnali distensivi che ne minerebbero l’indiscussa leadership nel proprio campo politico. Nel 1953 con l’uscita di scena del democratico Truman e l’elezione del repubblicano Eisenhower vi fu un repentino capovolgimento, e deterioramento, delle relazioni tra USA e Israele. Fu la prima storica rottura. L’entratura con il potente protettore traballava, e l’allora premier Ben Gurion per evitare l’isolamento incominciò a guardare con interesse a Londra e Parigi. Strategia che irritò sicuramente Eisenhower. Poi Israele, preso atto della debolezza del vecchio imperialismo, tornò mestamente sotto l’ala di Washington. Oggi, Netanyahu si trova nella medesima condizione affrontata da Ben Gurion, avendo perso le influenze che aveva sulla Casa Bianca a marchio Trump. Per il “falco” della destra l’eventuale ricerca di uno spazio di manovra alternativo è assai limitato, la manifesta idiosincrasia per l’Europa lascia aperta la porta di Mosca. E l’abbraccio non proprio affidabile di Putin.

IL NEGOZIATORE

C’è un antico proverbio arabo che recita: un uomo che non possiede neppure un pezzetto di terra non è un uomo. Lo si sente ripetere spesso in Palestina. In un lembo di terra che non è ancora uno stato. E qualcuno forse pensa non lo diventerà mai. Tra coloro che hanno continuato a credere nella soluzione di due popoli, palestinesi ed israeliani, per due stati, merita essere annoverato Saeb Erekat: politico e negoziatore palestinese, spentosi all’età di 65 anni all’ospedale Hadassah di Gerusalemme. Dove era giunto in condizioni critiche a causa del Covid. Ci lascia una figura chiave del Medioriente contemporaneo. Prominente esponente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Se ad Arafat è stato affibbiato il soprannome di Mr Palestine non c’è dubbio che Erekat passasse per Mr Gerico, città e governatorato dove viveva e ha incarnato il ruolo di rais. In quella antica oasi e città biblica sulle sponde del Mar Morto in giovane età aveva frequentato la scuola francescana imparando qualche parola d’italiano. Anni fa ci disse che era fiero che anche i figli andavano in quello stesso istituto.

Poco distante dall’antico palazzo dei califfi e dalle pendici del Monte delle Tentazioni si ergeva la sua Muqata, una miniatura di quella di Ramallah. Lì era solito incontrare le delegazioni e rilasciare interminabili interviste, accompagnate da ettolitri di caffè e montagne di datteri. Tra le sue doti non aveva la puntualità. È stato una costante presenza nei media anglosassoni, vuoi per la perfetta grammatica inglese o per la qualità dei commenti. Aveva costruito il proprio riconoscimento partecipando all’accordo di pace di Oslo. Dietro alla firma in calce che incornicia insieme i tre leader Rabin-Peres-Arafat c’è il lavoro oscuro delle seconde file, i negoziatori della trattativa, un pò diplomatici e un pò cacciatori di teste. Nomi meno noti. Come quello dell’attivista israeliano Ron Pundak, scomparso prematuramente nel 2014, che di quell’evento storico è una delle colonne portanti. Furono proprio Pundak, fiduciario di Shimon Peres, ed Erekat, insignito plenipotenziario di Arafat, i primi a sedersi al tavolo e capirsi. Poi qualche tempo dopo quell’architrave cominciò a rotolare, ma la colpa della violenza che si generò non fu certo loro, al contrario. In quanto colombe e difensori del processo di dialogo si trovarono ben presto in una situazione assai scomoda. Pundak è stato tacciato di essere un filopalestinese, e quindi un traditore. Erekat non se la passò meglio con Arafat, che rivolgendosi a lui era solito apostrofarlo: “l’amico degli israeliani”. C’è addirittura chi gli rimproverava che Gerico non avesse mai dato un martire alla causa. Di lui non si è mai parlato come di un possibile erede ad Abu Mazen. Hanno sicuramente pesato le critiche che gli sono piovute addosso anche dentro Fatah. Nel corso degli anni ha sposato la dottrina del pessimismo. Non vedeva nulla di buono per il futuro dei palestinesi e nella visione di Trump per risolvere il conflitto. Restano, oggi, le sue promesse di pace che l’ex inquilino della Casa Bianca non ha però nemmeno voluto ascoltare.

LA LAICITE’ DELLO STATO

L’autunno nero. Dall’Austria alla Francia con la paura del Covid e quella del terrorismo. La peste degli attentati dalla matrice politica e dai profondi risvolti religiosi ritorna inesorabilmente alla cronaca, anche nell’era della pandemia. Da un lato gli eccessi del confronto tra Macron ed Erdogan: le tensioni nel Mediterraneo dall’Egeo alla Libia, lo scambio di aspre accuse, la fine della diplomazia e l’insorgere, nel mondo islamico, della protesta nelle piazze, con insulti e minacce rivolte a Parigi. Dall’altro lato corre in parallelo, anche se meno partecipata, la jihad, la “guerra santa” organizzata o improvvisata ma pur sempre violenta, distruttiva. Difficilmente prevedibile. Colpisce isolatamente, in simultanea o a catena, con macabra ritualità. Indirizzata tanto contro il singolo individuo, l’insegnante di provincia Samuel Paty, quanto contro i luoghi di culto, la cattedrale di Nizza. Assale in modo casuale gli spettatori di uno spettacolo o i passanti in strada, come avvenuto a Vienna. Il fondamentalismo islamico, alimentato da fondi di stati internazionali, striscia all’interno di una comunità, la umma musulmana, priva di confini, frontiere. Una comunità deterritorializzata e spesso emarginata. Danneggiata e sfruttata dalle geopolitiche del neocolonialismo; discriminata e osteggiata quotidianamente dalle forme di razzismo presenti nella società; offesa dall’islamofobia. Il fanatismo fa leva proprio sul messaggio di rivalsa, di vendetta, contro gli aggressori giudaico-cristiani, sull’esposizione propagandista dell’islam a modello alternativo all’Occidente. Nel mezzo al campo di questa epocale battaglia di civiltà c’è la difesa della laicità dello stato francese. Bastione che trova, almeno a parole, la solidarietà delle istituzioni europee.

In Francia, la lunga lotta tra laicità e cristianesimo è culminata nella rivoluzione, con la caduta del re, quale espressione di Dio in terra, e l’ascesa del popolo sovrano. Queste sono state le premesse alla separazione tra il potere temporale e quello spirituale, la divisione tra Chiesa e Stato. A sancire formalmente questo storico passaggio il concordato di Napoleone con la Santa Sede di Pio VII. Un secolo dopo, nel 1905, a Parigi il processo è reso irreversibile con l’emanazione di una specifica legge. Norme che nel corso degli anni sono state abrogate o modificate anche cospicuamente, non però nell’essenza del testo. Allora, l’islam era marginale. Oggi, che in Francia in percentuale la partecipazione religiosa della componente musulmana è maggiore rispetto a quella cristiana, è percepito il bisogno di reimpostare i canoni del rapporto tra cittadino e religione. Macron ha recentemente varato un programma di stop al “separatismo islamico”, si è dato il compito di definire un nuovo “contratto” per un “islam repubblicano”, slegato dalle influenze di forze esterne, per una maggiore integrazione. Nella sostanza l’Eliseo vuole impedire che il potere della religione sia anche politico e che Erdogan si erga a profeta.

BOJO IL POCO SERIO

“La vita non può tornare alla normalità”, almeno per ora. Ha ammesso il primo ministro britannico Boris Johnson. Eccentrico ed istrionico politico anglosassone. Crociato della hard Brexit. Populista e sodale di Trump. Ha prima sconfessato la pericolosità del virus per poi convertirsi, dopo essere finito in terapia al Saints Thomas’s Hospital a Londra in condizioni cliniche realmente serie. Duro con Bruxelles e debole nel prendere decisioni nella lotta al coronavirus. Sulla cui questione ha demandato pieni poteri al segretario alla sanità Matt Hancock.
Lentezze nella definizione della strategia di contrasto alla pandemia sono valse non poche critiche all’operato di governo. Lontano il successo elettorale del 2019, dovuto indubbiamente alla sua trascinante personalità. Oggi, ha perso appeal sul pubblico. L‘esecutivo da lui presieduto ha iniziato ad oscillare pericolosamente, mettendo in bilico la sua poltrona.
Il nome insistentemente invocato per sostituirlo è quello del giovane ministro delle finanze, e cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, che, tuttavia, nega di essere il predestinato alla successione. Avere in mano in questo momento specifico il cordone della borsa, le armi per affrontare la crisi economica, è un punto, se giocato bene, a suo vantaggio per il dopo Johnson.
Intanto, in aula del parlamento a spingere per defenestrare l’attuale premier sono il laburista Sir Keir Starmer, successore dello sbiadito Corbyn e impegnato a ricostruire la credibilità del movimento, ma anche una parte del partito conservatore. Quella referente all’ala più moderata e conciliante nella trattativa da tenere con l’Unione europea sulle clausole di distacco.
La ribellione interna ai Tories è montata parallelamente al diffondersi dei contagi. L’accusa principale è di aver perso il controllo in un momento drammatico per il Paese. Sbeffeggiato dai tanti casi di “covidioti”. Screditato nei sondaggi. Stretto tra le richieste di un’azione meno confusa e dalle pretese dei ferventi libertari a non accettare l’introduzione di misure di restrizione “coercitive”, considerate assurde e troppo severe.
L’ex sindaco di Londra viene annoverato insieme ai sovranisti, Trump e Bolsonaro, tra gli scettici al virus. È stato il primo esponente della lista dei negazionisti a risultare positivo alla malattia. Ha inizialmente indicato la strada dell’immunità di gregge per uscire dall’epidemia. Per ripensarci ed affidarsi al futuro vaccino di Oxford. Potrebbe non mangiare il panettone a Downing street a Natale. Se invece calma le acque lo scoglio è spostato a primavera con le amministrative, dal quel risultato dipende il suo futuro.
D’altronde l’unico assolutamente certo della propria permanenza in carica è il presidente brasiliano. Mentre, Trump alla Casa Bianca e Johnson al Numero 10, tra voto presidenziale e maggioranza a Westminster sono ad un passo dal flop. Colpa del Covid e delle loro megalomani e strambe idee.

GUERRA NEL CAUCASO

Erdogan e Putin sono i classici due galli in un pollaio. Due leader arroganti e dispotici. Che prima o poi si troveranno a battibeccare l’uno con l’altro, contendendosi lo spazio vitale oramai entrato in aperta sovrapposizione. Hanno evitato di scontrarsi in Siria, grazie ad un accordo di collaborazione nel segno della pax di Mosca: affari a saldare le relazioni. Si sono tenuti a debita distanza di fuoco in Libia, dove sono schierati su fronti contrapposti, ciascuno con un proprio uomo: il generale Haftar per la Russia, l’architetto al Serraj per la Turchia. Ma nel Caucaso, nella guerra trentennale tra Baku e Yerevan uno dei due player internazionali è effettivamente di troppo.
In questi anni gli eccessi del Sultano sono stati sia interni, con la repressione alla libertà di stampa e l’avvio di un sistema di governo sempre più autocratico, che esterni: le invasioni militari nel Kurdistan siriano alla caccia dei “terroristi” indipendentisti. Mercenari e droni per coprire l’avanzata del governo islamico di Tripoli nel Sahel libico. Le truppe in Qatar. L’appoggio ad Hamas a Gaza. La flotta schierata nell’Egeo in assetto di guerra. Dove rivendica diritto e interessi allo sfruttamento nelle acque di Grecia e Cipro. Pattugliate in via precauzionale dalla marina greca, francese ed italiana. Parte di una larga alleanza geopolitica insieme ad Egitto ed Israele, cuscino alle mire di espansione imperialistica di Ankara nel Mediterraneo. La controversia con Atene è frutto anche di un deliberato calcolo politico di Erdogan. Il sultano di Istanbul, archiviato il golpe, appare oggi debole nei consensi, nel bel mezzo di una doppia crisi: quella finanziaria e quella della pandemia. Non potendo risolvere nessuna delle due guarda fuori dal Bosforo alla ricerca di riconoscimenti e di nuove aree di influenza. Trump gli ha lasciato mano libera nella regione avvisandolo di non esagerare troppo. Biden, in caso di vittoria, potrebbe correggere l’approccio della Casa Bianca.
Erdogan non perde occasione per proclamarsi condottiero dell’islam, arrivando persino a invocare la liberazione dei luoghi santi di Gerusalemme. Lo zar Putin invece è in campagna per legittimare la sua autorità quale difensore della chiesa ortodossa e degli slavi. La vicenda delle ostilità per la contesa della regione del Nagorno-Karabakh tra Azerbaijan e Armenia, tra musulmani e cristiani, è un punto di rottura diplomatico che rischia di incrinare l’amicizia tra Putin ed Erdogan. In un conflitto latente che il Cremlino nel nome della realpolitik ha storicamente fomentato e giostrato con astuzia. Tradizionalmente sostenendo l’Armenia, pur vendendo sotto banco armi ai suoi nemici.
Strategia a senso unico per il leader del partito turco AKP, non può avanzare nel Mediterraneo orientale senza adirare l’Europa e tantomeno può sfondare nei Balcani o nel Caucaso meridionale, dove il protettore di serbi e armeni non è un santo ma Mosca. E ora Ankara deve decidere se restare nel pollaio o tornare sotto l’ala protettiva di Washington.

IL COMANDANTE VI AUGURA BUON VIAGGIO

A fine agosto, a bordo del boing El Al 971, tra i passeggeri del volo inaugurale decollato da Tel Aviv con destinazione Abu Dhabi, oltre al genero di Trump Jared Kushner – “plenipotenziario” della Casa Bianca per la pace tra palestinesi ed israeliani – ha viaggiato in missione la prima delegazione israeliana, ricevuta con gli onori negli Emirati Arabi Uniti. Con questo evento i due stati del Medioriente hanno aperto un canale di comunicazione bilaterale. Il riconoscimento di Israele da parte delle monarchie del Golfo è parte integrante di un disegno geopolitico, sponsorizzato da Trump, che crea nuove alleanze rompendo schemi precostituiti: passa di fatto in secondo piano la questione dello stato palestinese quale pregiudiziale alle libere relazioni nella regione. L’intesa di “normalizzazione” araba verso Israele è multiforme nella sostanza, abbracciando la cooperazione in diversi settori commerciali, strategici: energetico, militare, scientifico e sanitario. Contestano il trattato la Turchia di Erdogan impegnata a far risorgere l’impero ottomano e a difendere le rivendicazioni sulla “liberazione” di Gerusalemme e dei suoi luoghi simbolo, a partire dalla moschea di al-Aqsa. Inserita nel complesso della Spianata delle moschee, affidato in custodia alla casata hascemita giordana, che gestisce attraverso una fondazione il terzo sito religioso per importanza dell’islam, dopo Medina e la Mecca. Da Amman, dove si sono alzate voci di tradimento nei confronti degli emiri, sono mesi che si invita a fare quadrato intorno ad Abu Mazen, presidente della Palestina da illo tempore. La Muqata di Ramallah è un fortino oramai assediato, deluso da Trump. L’ultimo palazzo del potere dell’élite palestinese, che subisce, a malincuore, il dominio di Hamas nella Striscia di Gaza. E vede riacutizzarsi la faida interna al partito Fatah per l’eredità di Arafat. L’ex rais Mohammed Dahlan è intenzionato ad appropriarsi della leadership del movimento, grazie all’appoggio di Washington e a questo punto dei petroldollari con cui potrebbe essere ricoperto per la sua posizione favorevole alla negoziazione israeliana. Ad intralciare l’ascesa di questo discusso personaggio è ancora Abu Mazen: isolato e logorato ma determinato a non cedere. Mantengono invece una posizione distaccata sull’accordo Israele-EAU, seppur da osservatori privilegiati, sauditi e qatarini. Infine, l’ira dell’Iran che vede nel patto sunnita-sionista un contrappeso alla rete di espansione sciita. Beneficia del nuovo corso diplomatico il faraone Al Sisi, gli egiziani sono precursori del processo di pace e attualmente mediatori nelle controversie tra Gaza e Israele, tra Hamas e Netanyahu.

Nella dichiarazione d’indipendenza israeliana promulgata dai padri fondatori è scritto: “lo Stato d’Israele è pronto a fare la sua parte in uno sforzo comune per il progresso dell’intero Medio Oriente”. Il progresso per la costruzione di una diga all’imperialismo di Erdogan e ridimensionare le minacce dell’Ayatollah.

DEM O REP, LO SHOW DELLE CONVETION

Pochi giorni fa alla convention democratica 2020 uno dei commenti amareggiati era rivolto al fatto che nella chiusura mancava il classico lancio di palloncini in aria a salutare la sfida di Joe Biden. Donald Trump, invece, ha fortemente voluto una coreografia solenne e la standing ovation della folla (largamente senza mascherina) per la sua incoronazione. Lo show della politica a stelle e strisce ha dovuto adeguarsi alla pandemia, rinunciando ad alcuni tradizionali cliché. In un paese che oltre all’esponenziale contagio da Covid19 è infettato dal razzismo, attraversato da violente tensioni sociali, spazzato ripetutamente da devastanti uragani. Tra il sipario abbassato all’evento democratico di Milwaukee e la serata finale della nomination repubblicana, decentrata per protagonismo ed effetto televisivo nei giardini della Casa Bianca, è trascorsa una settimana. Se la kermesse di Biden ha avuto come filo conduttore l’incapacità di Trump, il presidente ha contrattaccato con lo spauracchio del voto postale truccato ed il pericolo socialista. Ai principi di giustizia e uguaglianza invocati dalla Harris, che affianca Biden, ha replicato il vicepresidente Pence richiamando i valori di legge e ordine. In uno scontro dove la retorica della sanità pubblica obamiana e lo slogan del taglio alle tasse reaganiano sono oramai riconosciuti brand di fabbrica delle due forze politiche. Ciascuna con un proprio linguaggio: la sottile satira dell’attrice democratica Julia Louis-Dreyfus contrapposta alle urla incendiarie di Kimberly Guilfoyle, ex presentatrice di Fox News e partner di Trump junior. Immancabili le luci sulle due first lady, Jill che parla tra i banchi vuoti della scuola di Wilmington, Melania tra le rose della residenza presidenziale. Due format distinti nell’immagine proiettata al pubblico, quella sobria che ruota intorno all’unità nel partito e quella più appariscente che esalta il capofamiglia della dinastia. Nel 2016 il tycoon, reduce dalla conduzione di un fortunatissimo reality, era riuscito a catalizzare anime differenti sotto la bandiera dell’elefantino statunitense: establishment conservatore, evangelici e cattolici antiabortisti, classe media e destra alternativa, coacervo di suprematisti e paranoici cospirazionisti. In questi quattro anni l’irrequieto e irascibile miliardario ha licenziato una moltitudine di consiglieri, a partire dallo stratega della vittoria elettorale Steve Bannon, bandito da corte, esiliato in Italia e recentemente arrestato per frode. Hanno “congiurato” per impedirne la rielezione un gruppo di dirigenti repubblicani, denominati Lincoln project. Ha rotto con i potentati dei Bush e dei McCain, con personalità come Colin Powell e John Kasich. Ciononostante, oggi l’immobiliarista newyorchese non è ancora fuori gioco. Se The Donald vincesse nelle urne il 3 novembre avrebbe ipotecato il dominio di un partito che non è mai stato completamente suo. Se dovesse perdere – e non abbiamo ancora capito nemmeno cosa avrebbe fatto nel caso della vittoria della Clinton – possiamo aspettarci la trumpata del secolo.

IL FUTURO CIRCOLO DELLA PACE E QUELLO DELLA GUERRA

Le comuni radici bibliche e coraniche sono solo un aspetto esteriore dell’Accordo di cooperazione bilaterale tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, formalizzato con il beneplacito della Casa Bianca. Nella tela di fili tessuta internazionalmente da Trump c’è un nodo: la Palestina. Mentre, il buco della trama trumpiana è l’Unione europea, marginalizzata e ininfluente nelle dinamiche geopolitiche.

Quando al termine di una cena di gala a Tel Aviv chiedemmo a Shimon Peres – tre anni dopo sarebbe stato eletto presidente – se pensasse che l’allargamento dell’Ue avesse dovuto abbracciare anche la costa meridionale del Mediterraneo, la risposta fu: “Why? Perchè? Sarebbe un’idea sbagliata. Questa è la nostra casa con i suoi vicini, la tranquillità arriverà, inesorabilmente”. Dalla nascita, nel ’48, fino al governo populista di Netanyahu l’impostazione della politica estera israeliana è stata di discostarsi il meno possibile dalle indicazioni di Washington. Un arco temporale in cui Israele è stato stretto tra l’incudine dell’ottusità del mondo arabo arroccato nel voler continuare a riconoscere questo piccolo stato come un’entità estranea al Medioriente. E il martello del conflitto insoluto con i palestinesi: lo status di Gerusalemme Est, l’occupazione in Giudea e Samaria, le politiche di espansione coloniale.

Gli accordi di pace con l’Egitto a Camp David, quelli di Wadi Araba con la Giordania, le collaborazioni commerciali di Tel Aviv con la Turchia e oggi il canale diretto con Abu Dhabi sono passi importanti in una regione ibrida e tribale, poco democratica e per nulla liberale. L’annunciato trattato “Abramo”, tra Israele e gli EAU, è un corollario del progetto di conciliazione lanciato in pompa magna da Trump, era pre-coronavirus, lo scorso dicembre: Pace nella prosperità. Il piano, quello che il presidente statunitense ha definito l’accordo del secolo per palestinesi ed israeliani, non è un’idea inutile, ma una scatola vuota. Fumosa e avulsa dalle “sensibilità”. Quindi, difficilmente applicabile, praticamente irrealizzabile. Innegabilmente, l’intesa con gli emiri è una vittoria diplomatica di Netanyahu, pagata al prezzo di congelare l’annessione di parti della Cisgiordania. Rappresenta, al tempo stesso, l’ultima sconfitta politica della classe dirigente palestinese post Arafat. Dimostra che l’approccio della Lega araba nei confronti di Israele è in una fase di rapido cambiamento, irreversibile. Il cerchio della pace è in espansione, altri stati, dall’Oman al Sudan, muovono verso la normalizzazione dei rapporti, attraverso trattative più o meno segrete che Netanyahu ha affidato, non a caso, al Mossad. L’evoluzione dello scenario è dovuto a l’impellente necessità delle monarchie sunnite del Golfo di stringere una doppia alleanza strategica: contro l’accerchiamento dell’Iran sciita e di contenimento delle ambizioni imperialiste di Erdogan. Due vulcani attivi. In questo quadro la chiamata del principe Mohammed bin Zayed all’ex nemico sionista è eloquente.

HOMELAND PRESIDENZIALI 2020

Nelle presidenziali USA è tempo di convention. Al via nei prossimi giorni le tradizionali kermesse, prima il 17 agosto i Democratici, subito dopo i Repubblicani. Intanto vengono ufficializzati i vice, che affiancheranno nella corsa Trump e Biden. Per il repubblicano lo scontato Mike Pence, una vera novità per il democratico, Kamala Harris. Causa pandemia – primo paese al mondo per numero di contagiati da Coronavirus – il comitato nazionale democratico ha sconsigliato ai delegati di presenziare personalmente all’evento di Milwaukee, invitandoli a partecipare in remoto. Virtuale anche la presenza dell’anti Trump, Joe Biden è sigillato da settimane tra le mura domestiche. Nell’altra sponda politica il virus ha ridimensionato il programma dei repubblicani: scartata la Florida la scelta più plausibile è la Nord Carolina, mentre dall’Ufficio Ovale si preferirebbe la Casa Bianca o Gettysburg. Luogo in cui si svolse la celebre battaglia, il primo luglio del 1863, decisiva per le sorti della guerra civile americana. Il mito di Gettysburg è onnipresente nell’immaginario collettivo statunitense. Tanto che gli autori della famosa serie Homeland fecero di quella location simbolica lo sfondo alla tormentata scelta del marines Brody di schierarsi contro le proprie istituzioni: tradire per mantenere fede ai propri ideali, sbagliati o meno. Combattuti sotto la bandiera confederata o nordista. Gli ultimi sondaggi elettorali sono impietosamente a favore dell’ex vice di Obama: la forbice pronosticata varia tra 15 e 8 punti di differenza, a seconda dell’emittente che ha commissionato la ricerca. Ma come ci insegna l’esperienza del 2016 la vittoria di Donald fu soprattutto “uno smacco umiliante per i mezzi d’informazione e per gli istituti di sondaggi”. Il partito democratico non è lo stesso di 4 anni fa, quando il gruppo dirigente era fortemente influenzato dai Clinton. Oggi, prevale la linea di Obama. La nuova era è legata al prestigio di Kamala Harris e alla moderazione di Biden, entrambi espressione obamiana. La Harris, che si definisce battista e il cattolico ex governatore del Delaware, hanno tuttavia da recuperare lo svantaggiato ai blocchi di partenza della fascia del Bible Belt, le regioni dove sono culturalmente dominanti i protestanti, bianchi e fondamentalisti. Un elettorato che propende ideologicamente a destra, che però potrebbe “inaspettatamente” rivoltarsi contro il candidato naturale. L’amministrazione Trump è imbrigliata tra la combinazione negativa dell’economia, nel breve e lungo periodo, e la pressione mediatica degli scandali, interni ed esterni. Con il 2020 Trump ha deragliato consensi sia sulla questione della protesta sociale della componente afroamericana che sulla gestione dell’emergenza covid. Henry Kissinger era solito dire: “un leader non è tenuto a correre dietro ai sondaggi d’opinione, ma a preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni”. A condizionare l’esito, a questo punto, sono solo il voto postale e la scoperta, eventuale, del vaccino.

Fauda e Balagan. Un blog di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi