Gerusalemme. Sabato 9 ottobre 2010, sera. Il cellulare suona. Una voce chiara e squillante pronuncia la parola di rito: shalom. Rispondere con shalom Shabbat è d’obbligo, forse bastava anche solo un semplice e cordiale shalom, ma un certo imbarazzo e riverenza nei confronti del nostro interlocutore ci lascia spiazzati e goffi, almeno durante questa prima telefonata. Dal cellulare posizionato sul vivavoce arrivano chiare le indicazioni: “Dunque, proseguite sulla Sha’arel Yerushalayim, fate attenzione al limite di velocità, ci sono gli autovelox. Quindi, arrivati all’altezza del ponte di Calatrava dovreste trovarvi sotto il tunnel e state per sbucare nella Sderot Menahem Begin, la strada diventa a tre corsie, tenetevi sulla destra, moderate la velocità se non volete prendere una multa salatissima. Seguite i cartelli per Ramat Beit Hakerem, lasciata la Begin proseguite sulla Shmuel Beyth, svol- tate a destra in Avizoha all’altezza del centro medico e ancora a destra in Moshe Kol. Non vi impressionate, non vi ho dato la mappa per uscire da un labirinto ma solo la via più facile e breve per arrivare a casa mia. Secondo i miei calcoli e visto il traffico di post shabbat ci vorranno 16 minuti, se ci mettete di più vuol dire che vi siete persi, allora chiamatemi”.
Il quartiere e tra i più moderni di Gerusalemme ovest, a metà strada tra la Knesset e il museo dello Yad Vashem, pulito e poco rumoroso, palazzine di recente costruzione, confortevoli abitazioni ad uso delle classi più agiate e meno ortodosse. Ad attenderci Sergio Minerbi, nato a Roma nel 1929, a 18 anni emigrato in Israele. Diplomatico, scrittore e giornalista, collaboratore del quotidiano Haaretz, è stato inviato della Rai e del Sole 24 Ore. Eravamo molto curiosi ed intimoriti di conoscerlo anche perché sapevamo della sua famosa verve polemica. Sergio Minerbi e sua moglie Hanna ci accolgono nella loro casa mentre stanno consumando una parca cena, sediamo dinanzi a loro a tavola con la telecamera ed il taccuino pronti, un po’ emozionati, raccogliamo la storia della loro vita.
“Presi la decisione di venire in Israele giovanissimo. Eravamo appena usciti dalla Seconda guerra mondiale, i gipponi degli americani con la grande stella bianca sui fianchi, attraversavano una Roma deserta e devastata dai bombardamenti. In una Roma senza trasporti, senza acqua e senza servizi essenziali, ho ospitato nella grande casa dei miei genitori in via Ravenna molti soldati ebrei, con i quali avevo delle lunghe conversazioni. In quel periodo frequentavo la Sinagoga di via Balbo, dove c’era un centro per giovani sionisti. Aderì all’organizzazione Halutz. E così sono arrivato in Israele, la Palestina di allora, con l’idea, già predeterminata di andare in un kibbutz e non in uno a caso, ma in uno della Hashomer Hatzair. Per fortuna avevo dei parenti a Gerusalemme dove alloggiavo, altrimenti la situazione sarebbe stata piuttosto difficile. Nessuno mi diceva in quale kibbutz andare e rimandavo la decisione di settimana in settimana. Ero solo e questo rallentava la mia collocazione. Nei kibbutzim (plurale di kibbutz) erano abituati a ricevere solo gruppi. In quegli anni era così, le autorità del kibbutz predisponevano l’ingresso di gruppi per lo più omogenei che andavano ad integrare i nuclei già presenti nel kibbutz, non il singolo. Alla fine mi hanno mandato al kibbutz Eilon, al confine con il Libano, dove ho incontrato mia moglie. Era il 1947. Finalmente appartenevo ad un gruppo, questo agognato gruppo.
Un mese dopo ci siamo trasferiti nel kibbutz di Ruhama, dove all’inizio eravamo alloggiati presso gli anziani. Notai subito che c’era una radio ad onde corte, stava lì inutilizzata. Il 29 novembre del ‘47 mi sintonizzai per seguire la trasmissione sul voto alle Nazioni Unite, scrissi i risultati su una busta che ancora conservo, contando dieci no, trentatré sì e alcuni astenuti, sono stato io a dare l’annuncio che finalmente nasceva il nostro Stato, Israele. Ricordo che dalla mezzanotte all’una abbiamo danzato, ma poco prima di andare a letto hanno distribuito i fucili, spiegandoci come inserire le pallottole e ci hanno mandato a perlustrare la zona. Per noi iniziava la guerra. E così siamo andati avanti per quei primi mesi.
Il kibbutz era il sogno della vita. Ci sono andato perché mi sembrava, soprattutto nel ‘47, che in quel momento il kibbutz avesse molti compiti da eseguire. Non solo era la realizzazione dell’ideale pionieristico di lavorare la terra, ma dal punto di vista della difesa nazionale era di strategica importanza. Se abbiamo vinto la guerra nel ‘48 è, per molti aspetti, grazie ai kibbutzim, dove le reclute sono state formate, dove c’era una dedizione assoluta alla causa. Gli ordini erano eseguiti senza che ci fossero gradi e senza che ci fossero gli orpelli del militarismo, e questo era consono ai miei gusti. Il kibbutz dal ’47 al ‘49, era un avamposto militare di primissima categoria e la mappa dei kibbutzim è stata poi quella che ha determinato in parte i confini dello Stato di Israele. Penso che il kibbutz avesse la sua raison d’être nel costituire uno Stato ante litteram, cioè un’entità israeliana, prima che esistesse un governo, perché rispondeva a una necessità immediata, assoluta, occupare il territorio. Tutte queste considerazioni oggi le devo riesumare dai miei ricordi, all’epoca erano evidenti, lapalissiane. Le peculiarità del kibbutz iniziano ad esaurirsi direi nel ‘49, con la firma degli accordi armistiziali, l’esercito si organizza come un’entità strutturata, si cristallizza. E il Palmach (forze di combattimento regolare degli insediamenti ebraici) viene sciolto. Il kibbutz sostenendolo ha permesso al Palmach di crearsi, di vivere e di svilupparsi, ne consegue che il giorno in cui il Palmach non fosse stato più la mano destra dei governanti, anche chi lo sosteneva non aveva più la stessa funzione.
Intanto nel 1949, vengo mandato in Italia, restandoci un anno. Un anno esaltante, di intenso lavoro di spionaggio: la mia missione era impedire il traffico di armi per gli stati vicini. Trovarle in tempo e giustamente eliminarle. Ci ho messo del mio e in vari episodi le armi non arrivarono mai a destinazione.
Lasciammo il kibbutz di Ruhama subito dopo la guerra del Sinai, nel ‘56. Cominciai a fare tutti i mestieri possibili e immaginabili, senza scartarne alcuno. Mi adoperavo nelle traduzioni per opuscoli turistici in italiano, poi qualcuno mi fece le scarpe e cominciò a farli lui, ma intanto io ero sopravvissuto ed era già molto. Siccome nel kibbutz avevo messo su un piccolo museo archeologico, e quindi mi sentivo ferrato in archeologia, sono andato subito a dare l’esame di guida turistica, portando a spasso parecchia gente. Allora, ho avuto l’opportunità di iniziare a scrivere su dei giornali italiani diventando dopo poco corrispondente della Rai.
La mia grande sfida è il ‘57 con la firma del trattato di Roma. A Gerusalemme, con una moglie, una figlia, e forse dieci lire in tasca, decido che sarò Mr. Common Market di Israele. Così su due piedi. Fu una decisione un po’ azzardata, oserei dire, ma lungimirante. Mi iscrissi all’università, studiavo Economia e Relazioni Internazionali. Preparai una tesi sull’esportazione degli agrumi verso il Mercato comune europeo e sulle possibili difficoltà delle nostre esportazioni. La tesi era buona. Venne pubblicata, e questo mi ha dato l’occasione di farla arrivare all’attenzione di alcuni funzionari del Ministero degli Esteri che vollero che io entrassi per un anno a collaborare con loro al Ministero. Vinco, l’anno dopo, un concorso interno. Ciò mi ha permesso di bruciare le tappe e di andare due anni dopo come numero due alla missione di Israele a Bruxelles. Tornato in Israele, ho frequentato la scuola per diplomatici, nel frattempo ho costituito presso il ministero un nuovo dipartimento sul mercato comune. Nel ‘78 vengo nominato ambasciatore, assegnato al Mercato Comune in Belgio e in Lussemburgo. Semplice no! Obiettivo centrato.
Parliamoci chiaro. La società di oggi non apprezza più il pioniere, colui che dà alla patria perché è convinto che sia giusto che ognuno contribuisca. In questa epoca si esalta il tycoon che fa i miliardi. E a me non piace. D’altra parte dove sono i veri paesi socialisti?”