TRUMP E IL NODO GERUSALEMME

Donald Trump è pronto a dichiarare Gerusalemme “capitale indivisibile ed eterna dello stato di Israele”. Una mossa non inaspettata, già slogan nella campagna elettorale, chiodo fisso della stretta cerchia dell’inquilino della Casa Bianca. Una decisione che susciterà un terremoto dagli effetti imprevedibili, forse distruttivi, come commentano fonti palestinesi. Sicuramente destinata a produrre una reazione a catena. Ma Trump non avrebbe ancora deciso se riconoscere come capitale di Israele l’intera Gerusalemme o solo la parte Ovest. Il “dettaglio” non è da poco. Da un lato c’è una forzatura delle relazioni internazionali, dall’altro un’opzione più bilanciata, che manterrebbe in vita la flebile possibilità, auspicata dallo stesso Trump durante la sua visita in Medioriente, di arrivare ad un “accordo definitivo” tra palestinesi ed israeliani. Sotto l’egida dell’Arabia Saudita e del blocco anti-sciita, che gradirebbero il riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale di un prossimo Stato di Palestina.

Le richieste sioniste divennero questione ascoltata dalla Casa Bianca con l’insediamento di Truman, coinvolto emotivamente dalle condizioni umanitarie dei reduci dai campi di sterminio. Il suo predecessore Roosevelt aveva instaurato con il mondo arabo un patto di non ingerenza. Nel 1945 gli USA invertono l’approccio e delineano un nuovo corso per il Medioriente. Senza avere un progetto preciso da perseguire per la Terra Santa, optano per la strada delle trattative. In meno di due anni di fallimentari negoziati e con l’inasprirsi delle violenze nella regione, gli americani, insieme ai britannici, gettano la spugna e chiamano in aiuto le Nazioni Unite. I lavori della commissione d’inchiesta Unscop (United Special Committee on Palestine) producono una carta geografica che suddivide il territorio in due stati, uno arabo e l’altro ebraico. Per Gerusalemme si suggerisce l’internazionalizzazione. Il documento è votato dall’Assemblea generale il 29 novembre 1947. Approvato con 33 voti a favore. Il rifiuto arabo è immediato. Il clima è incandescente, siamo al preludio alla prima guerra araboisraeliana. Nasce Israele e dopo 11 minuti il neonato stato è “battezzato” da Washington. La Cisgiordania è invasa, e annessa, dal regno hascemita. Sino al 1967, quando il 7 giugno le truppe del generale Dayan conquistano la città Vecchia con i suoi simboli. E’ la Guerra dei Sei giorni che si concluderà il 10 giugno con una vittoria schiacciante di Israele, guastata dall’attacco alla nave americana Liberty, un errore militare che segnò i rapporti con la presidenza Johnson. A fine giugno alla Knesset passano una serie di leggi per estendere il diritto e l’amministrazione della parte Est di Gerusalemme. Il 4 luglio l’ONU condanna l’azione giuridica israeliana. La fredda vendetta di Johnson arriva a novembre, il Palazzo di Vetro partorisce la risoluzione che diventerà il fondamento di tutti i successivi processi per un accordo di pace, la 242: terra in cambio di pace, ritiro dai territori occupati, riconoscimento per Israele e soluzione al tema dei profughi palestinesi. Da allora è un pantano diplomatico, di veti incrociati e risoluzioni inapplicate, gettate al vento.

Nell’ottobre del 1995 al Congresso passa il provvedimento per spostare l’ambasciata a stelle e strisce a Gerusalemme. Clinton non pone il veto, la legge entra in vigore a novembre. E prevede che a partire dal giugno 1999 la sede diplomatica accreditata avrebbe dovuto trasferirsi da Tel Aviv a Gerusalemme. Tuttavia, la normativa lasciava un margine di movimento al presidente, che per ragioni di sicurezza nazionale, avrebbe avuto facoltà di posticipare di sei mesi in sei mesi il “trasloco”, prassi utilizzata da tutti i suoi successori ma che l’avvento dell’imprevedibile Trump, amico fraterno di Netanyahu, vuole terminare.

Il paradosso del Medioriente è il gioco geopolitico che alimenta la frammentazione. Per portare pace e stabilità in un’area lacerata dai conflitti occorrono compromessi, piccoli e grandi. Sensibilità e ascolto. Doti che Trump ignora.