La May alla prova della Brexit

Sono giornate intense per Theresa May impegnata in parlamento a definire, facendo chiarezza in una palude di indecisione, le modalità da seguire nella Brexit. Nelle aule di Westminster è battaglia, tra le diverse visioni, per autorizzare il cambiamento della legislazione vigente in materia di subalternità alla normativa europea. Le  prossime quattro settimane saranno decisive e segneranno il passo verso il distacco definitivo. Giorni infuocati resi ancora più incandescenti dalla ridda di accuse – rivolte dalla stessa May verso i servizi segreti del Cremlino – e smentite, relative alla presunta interferenza della Russia nel referendum che ha sancito il divorzio britannico dall’Unione Europea lo scorso anno. In questo contesto, il fronte anti hard Brexit sta crescendo in modo trasversale e pare sempre di più in grado di smontare l’indirizzo del governo, o comunque di ridimensionare molto l’impatto. In ogni caso la premier britannica è consapevole che nei prossimi giorni sarà definito il percorso politico del suo governo e la definitiva rottura interna al partito, dove 40 dei suoi deputati preparano la sfiducia. Una spaccatura difficilmente ricomponibile tra anime e correnti in aperta antitesi. Che l’esecutivo traballi è apparso evidente a tutti dopo che, in appena una settimana, due ministri sono stati costretti alle dimissioni. Il malessere del governo della May è cronico. Ad acutizzare il caos regnante anche scandali finanziari e accuse di molestie sessuali. C’è stato persino qualche inciampo di diplomazia internazionale, dopo la visita ufficiale della ministra allo sviluppo ad una base militare israeliana nel Golan, zona che la Comunità internazionale considera occupata illegalmente. Consigliata, in molti ritengono che in realtà sia “segretamente” obbligata, dal collega Boris Johnson ad intraprendere un’uscita netta, la premier ha annunciato, con un certo clamore, il momento esatto del fatidico distacco dall’Europa: il 29 marzo 2018, quando le lancette del Big Ben scoccheranno le 23. Una mossa puramente propagandistica, visto che al momento tra UK e Ue non c’è convergenza su nulla, nemmeno sulle fasi del processo di transizione. La notizia è stata commentata da Michel Barnier, il capo negoziatore per l’Unione, con l’ennesimo ultimatum a Londra: “Due settimane per trovare soluzioni. Altrimenti il rendez-vous verrà posticipato se non ci saranno progressi”. Quello che si profila è un possibile crollo dei negoziati. Intanto nel regno dei Windsor prende forma e forza la richiesta di un secondo passaggio referendario, legato in questo caso alla scelta di tipologia da attuare per la Brexit. Ad indicare questa via è stato l’ex primo ministro laburista Tony Blair, ormai emarginato dal partito di cui è stato una figura storica, che in questi giorni è tornato ad attaccare pesantemente la strategia dei seguaci della Brexit invocando una nuova consultazione nel momento in cui saranno resi noti i termini del divorzio: “Con una tornata elettorale oppure con un secondo referendum”. La regia di Blair è finalizzata a dimostrare che “tecnicamente” la Brexit è ancora revocabile, opinione condivisa anche dal Leader liberaldemocratico Sir Vince Cable, che chiede: “un referendum sui fatti”. Nella trincea pro Ue oltre ai laburisti di Corbyn, che ha ripudiato le idee euroscettiche, anche un gruppo di Tories ribelli. La proposta di Blair infatti ha trovato un seguito tra le fila dei conservatori, in particolare coloro che hanno il proprio seggio nelle contee della Scozia. A questo punto l’ago della bilancia sono i nord-irlandesi del DUP che appoggiano il governo. Secondo un recente sondaggio il 76% dei britannici crede che le trattative con l’Europa hanno preso una cattiva piega, un risicato 12% è invece convinto che il processo di negoziazione stia procedendo bene, o molto bene. Una sottile linea separa l’accordo con Bruxelles da nessuna intesa. Pare chiaro che un eventuale “ripensamento” del Regno Unito potrebbe avvenire solo dopo il trasloco della May da Downing street.