L’Air Force One decolla per il primo viaggio di Trump all’estero, che qualcuno vorrebbe già essere l’ultimo. La Casa Bianca è nella bufera per l’interferenza nell’indagine sulla collusione della Russia nella passata campagna elettorale. E’ l’ombra di uno scandalo che potrebbe trasformarsi in una futura Trumpexit: morbida con le dimissioni o forzata con la rimozione, tramite impeachment. Le turbolenze del Russiagate non si placheranno e accompagneranno, in parte condizionando, questo “pellegrinaggio” nel triangolo delle tre religioni monoteistiche. Prima tappa Arabia Saudita, poi la Terra Santa e la full immersion nel conflitto israelopalestinese. Un viaggio nella culla della fede con obiettivi che ovviamente poco hanno a che fare con la religione: sul tavolo affari e contratti per circa 200 miliardi di dollari. Nella valigia del “mercante” Trump un catalogo bellico con una vasta gamma di scintillanti armamenti, dalle novità del sistema di difesa missilistico alle più ingombranti fregate. La visita del presidente americano avviene in un momento particolarmente complesso per la penisola araba, con l’indebolimento dell’immagine della casata wahhabita dei Saud, custodi dei siti santi della Mecca e di Medina. E con un Trump “a testa bassa” all’assalto dei vertici dell’apparato di sicurezza americano, in un susseguirsi surreale di “gaffe”, “gole profonde”, smentite e rilancio di accuse, frutto tanto dell’incompetenza quanto dell’impulsività dell’incontrollabile personaggio. In Arabia, i signori delle tribù del deserto e dei pozzi di petrolio, tramandano con continuità l’oscurantismo, l’esclusione e separazione della donna, il controllo assoluto su costumi sociali e istruzione. Pregiudicano la libertà imponendo una dura privazione dei diritti umani: un tweet contro il Ministro di Giustizia è costato 8 anni di carcere a tre avvocati; il blogger Raif Badawi è stato condannato a 1000 frustate e 10 anni di prigione; il minorenne, Ali Mohammed Al-Nimr, reo di aver preso parte alle proteste di piazza della Primavera Araba, attende di essere decapitato. Il regime di Riyad inculca ancora una versione ideologica e intollerante dell’islam che di fatto alimenta il fanatismo e la sua emanazione terroristica. Il Pentagono considera vitale l’alleanza con l’unione arabo sunnita dei paesi del Golfo. Per mantenere il loro ruolo egemonico i Saud devono far fronte a due incombenze: le riforme economiche e la rivalità con l’Iran. La prima è dettata dall’esigenza di emanciparsi dal petrolio come fonte di crescita, mettere fine al petrostato modernizzando l’economia sia in termini di trasparenza che di investimenti privati. La contrapposizione tra khomeinisti e sauditi, sciiti e sunniti è destinata a durare, espandendosi in altri teatri geografici con il rischio finale di degenerare in uno scontro aperto. Le prime avvisaglie della deflagrazione sono le azioni militari nello Yemen dove le due potenze sono coinvolte su fronti contrapposti. L’Arabia Saudita è stata costretta ad accettare la crescente presenza iraniana, perdendo influenza in Iraq, Libano e Siria. L’asse strategico di Riyad con la Turchia di Erdogan è messo in discussione dall’avvicinamento del sultano allo zar di Russia, storicamente filo Ayatollah. Arretrando in Medioriente i sauditi hanno rivolto lo sguardo, e gli interessi, al nord Africa, materializzando intense sinergie con Egitto e Tunisia, prendendo posizione nel caos libico. Resta difficile il rapporto con Israele. Ad unire Netanyahu e i Saud il comune nemico iraniano e l’alleato Trump, a dividere ancora la questione palestinese. Il Trump d’Arabia, tra mille incognite, ha l’obiettivo di avviare il disgelo tra Israele e i vicini stati Arabi. Mr President vuole riportare alla “normalità” le relazioni con l’alleato saudita dopo l’intervallo obamiano, anche se tra Washington e Riyad le distanze restano profonde. Come spiegherà il chiomato presidente i suoi reiterati atteggiamenti islamofobici ad una casta che dipende interamente dall’appoggio del clero degli imam?