L’ASTENSIONE FRENA I MURI DI ORBAN

Il vento dell’illusione populista soffia sulla crisi internazionale ma con meno intensità, anche se le isterie xenofobe evidenziano il doloroso vuoto dell’azione degli stati membri dell’Ue nell’affrontare l’emergenza migranti: ancora una volta gli interessi dei singoli prevalgono sulle scelte d’indirizzo comunitario, sul diritto umano e la solidarietà. In un quadro politico disgregato e febbricitante i valori che hanno portato alla costruzione della casa comune si sfaldano difronte a piccoli numeri: le quote dei migranti da distribuire tra i paesi diventano strumentalmente oggetto di una diatriba apparentemente irrisolvibile. L’Ungheria per “fermare” il piano di accoglienza di Bruxelles ha scelto il passaggio referendario, chiedendo ad oltre 8milioni di elettori di esprimersi: “Vuoi che l’Unione europea possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento?”. Promotore del NO il governo di matrice nazionalista guidato da Viktor Orbàn. L’opposizione ha preferito, invece di appoggiare il SI, invitare gli elettori a disertare le urne per non raggiungere il quorum. Giocando la partita, per invalidarlo, della soglia d’affluenza inferiore al 50%. I dati, poco sopra il 43%, hanno punito Orbàn e il risultato finale ha ribaltato l’esito scontato iniziale. Tuttavia, il referendum nasceva con un doppio vizio di forma: la possibilità per ciascun stato di ritagliarsi uno spazio esterno rispetto alle decisioni di Bruxelles e la facoltà arbitraria di lasciare alla porta chi chiede aiuto. In Ungheria, i contrari alla convocazione popolare hanno sostenuto la tesi che si è trattato di una mossa politica del governo per “distrarre” l’opinione pubblica dai fallimenti e dal perdurare della crisi economica. La schiacciante vittoria, seppur non plebiscitaria, del fronte del NO pone Viktor Orbàn come punto di riferimento nel campo dell’estrema destra europea ma lo ridimensiona agli occhi della sua gente. Il primo ministro ungherese a differenza del britannico Nigel Farage non ha nessuna intenzione di uscire dall’UE o cavalcare l’ondata secessionista, gode di maggiore popolarità del collega e, al contrario del fondatore dell’Ukip, mira a rafforzare il suo peso negli assetti del Vecchio Continente. Orbàn propone la costruzione di una nuova Europa salvando i simboli peggiori della vecchia, propaganda l’alternativa illusoria dell’isolamento, aspira a sostituire la democrazia liberale di Roma, Atene, Parigi e Berlino con la politica reazionaria di Budapest. Teorizza un rigido e antistorico processo di “controrivoluzione culturale” del continente, introducendo un modello che prediliga l’avvento dell’uomo forte al potere. Segue l’esempio della deriva antidemocratica di Vladimir Putin in Russia e di Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. E ovviamente ammira Donald Trump, icona di un futuro attraversato da deprimenti muri in stile Legoland con l’aggiunta di filo spinato e sorveglianza armata. «La politica estera sostenuta dal candidato repubblicano Trump è un bene per l’Europa e vitale per l’Ungheria». Quella di Orbàn è la più classica, e scontata, recrudescenza populista: “i migranti sono un veleno di cui non abbiamo bisogno”. Purtroppo un sentimento razzista illogico che in questi tempi si diffonde rapidamente e trasversalmente nei paesi sviluppati e democratici, infuocando le campagne elettorali. La destra europea più estrema si innamora, inebriata dalla retorica antica e dalle politiche visionarie, di questo leader autoproclamatosi “custode delle frontiere” della cristianità. Fautore di una disciplina organica per il respingimento dei flussi migratori, distruttore della sinistra e catalizzatore della destra. Una luce effimera che non ha, per fortuna, raggiunto il quorum. I cittadini ungheresi si sono svegliati dal torpore ed hanno fermato una deriva dannosa, accendendo il semaforo rosso per i Trump di mezzo mondo.