Giusto tra le Nazioni, Che Guevara della Chiesa: addio a don Paoli

“Vi chiedo di non cedere ad un modello economico idolatrico che abbia bisogno di sacrificare vite umane sull’altare del denaro e del profitto.” Sono le parole pronunciate da Papa Francesco ad Asuncion in Paraguay pochi giorni fa. In un viaggio in cui il Pontefice ha rimarcato l’importanza di: “Rispettare il povero. Non usarlo come oggetto per lavare le nostre colpe.” È la conferma che il mandato di Francesco guarda apertamente all’esperienza dei movimenti teologi della liberazione, apre alle loro teorie nel nome della “lotta” alla diseguaglianza globale. Un indirizzo che trovava in padre Arturo Paoli e nella sua storia uno dei principali esponenti. Fratel Arturo e’ morto lunedì scorso all’età di 102 anni nella canonica che l’ospitava ormai da qualche anno, a San Martino in Vignale, nella sua Lucca. Dire oggi quanto di Fratel Arturo Paoli e delle sue tesi ci sia nel messaggio apostolico di Papa Francesco è materia per i vaticanisti ma soprattutto rientra nella sfera di un legame sincero, un’amicizia profonda. Paoli e Bergoglio si conoscevano bene da lungo tempo. Il primo ha rappresentato per i popoli latinoamericani un profeta, predicando dal Cile alle favelas del Brasile in favore delle popolazioni più diseredate e delle loro lotte, pronunciandosi per una chiesa popolare e socialmente attiva. Ricercato e condannato a morte nell’Argentina della dittatura, in fuga tra i poveri, ha messo più volte a repentaglio la propria vita. Personaggio scomodo, che non accettava bavagli: “Finché non capiremo che la solidarietà con i poveri non è buon cuore, ma un modo di uscire dalla colpa, di rendere giustizia, tutti i nostri discorsi politici non serviranno a niente.” L’esempio di don Paoli è nei gesti di un’icona della resistenza all’ingiustizia, dell’antifascismo, contro le dittature militari e i regimi repressivi. Il Che Guevara della Chiesa. Lui che ha scolpito il suo nome tra i “Giusti delle Nazioni” nel memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme. Nel luogo simbolo della tragedia della Shoah, dove oltre alle sei milioni di vittime sono ricordati anche coloro, non ebrei, che rischiarono le loro vite per aiutare gli ebrei dall’Olocausto. “Ricordo la giovane coppia venuta dal nord d’Europa portando il ricordo della famiglia distrutta nei forni crematori, dopo un lungo viaggio in vagoni piombati, ammassati come oggetti senza valore. La donna portava nel suo ventre la vittoria sulla furia devastatrice e cercammo di mettere al sicuro questo piccolo seme che conteneva la forza della vita, la speranza sicura della sua vittoria sulla morte.” Fratel Arturo Paoli ha contribuito a salvare centinaia di ebrei dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti. Con Giorgio Nissim, responsabile dell’organizzazione ebraica che assisteva i perseguitati, il Delasem, don Paoli e i suoi confratelli dettero rifugio a profughi e ricercati creando una capillare rete di protezione agli ebrei in Toscana. Per mantenere la segretezza Nissim inviava gli ebrei in fuga da don Paoli, le persone mostravano mezza banconota da 5 lire che combaciava con il numero seriale che Paoli possedeva. Era una catena di solidarietà, coraggio e altruismo. In uno dei momenti più bui della storia: “Quelli che avevano tentato di affascinarci nel sogno di essere portatori di civiltà nel mondo, apparvero improvvisamente invasori venuti da terre lontane, esseri che venivano da epoche a noi sconosciute, esseri predatori, distruttori assetati di sangue e di vendetta.” Nell’arco della sua centenaria vita don Arturo ha continuato a rappresentare un punto di riferimento morale, spirituale e critico. Vivendo a pieno la religione come atto di generosità assoluta, guardando sempre in basso: “Oggi noi predichiamo le stesse cose da Wall Street, dal nostro comodo benessere; predichiamo principi, idee, senza mai mettere i piedi per terra. Sono secoli che pensando di amare opprimiamo.” Questo è stato Fratel Arturo Paoli.