2025 L’ANNO DEL NUCLEARE

La caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria ha innescato profondi cambiamenti in tutto il Medio Oriente, di cui al momento si vede solo la punta dell’iceberg. Il primo effetto diretto è che Israele ha avuto mano libera per portare avanti due obiettivi altamente strategici: invadere e occupare interamente le alture del Golan; ridurre l’arsenale nemico ad un cumulo di macerie fumanti. Scattata in simultanea, la doppia offensiva di Netanyahu, è proseguita spedita. Via terra, avanzando e posizionandosi in punti geografici chiave. Dal cielo, colpendo praticamente la quasi totalità delle basi del regime siriano. Indisturbati e senza colpo ferire i soldati dell’IDF hanno scalato la vetta innevata del monte Hermon, che sovrasta la parte meridionale della Siria. Dove adesso stazionano, sventola al vento la bandiera con la stella di Davide e Netanyahu passeggia tranquillamente. Annunciando che le truppe israeliane sono lì e ci resteranno. Sostanzialmente per un motivo molto banale, chi ha la forza per imporre un ritiro ai confini stabiliti in precedenza dalle risoluzioni ONU? Nessuno, tranne gli USA. Se non fosse che di Biden abbiamo perso ogni traccia. Smarrito a chiudere un capitolo, che non è solo politico, della sua carriera. Il presidente, ormai agli ultimi giorni del suo mandato, è entrato in modalità “disbrigo affari correnti ed elargizione clemenza”, passando mestamente il testimone della diplomazia al successore. Niente di meglio per Bibi, il Conquistatore. Che può vantare di aver reso la capacità della difesa siriana, privata dell’appoggio di Mosca, limitata e ininfluente. Un vuoto che rende appetibile, e fattibile, un eventuale salto in avanti, l’attacco di Israele alle strutture nucleari iraniane. Più esposte che mai a raid aerei di lungo raggio dell’aviazione israeliana. Lo sgretolamento dell’asse del male, o della resistenza iraniana, per certi versi ricorda quello dell’Unione sovietica. Inaspettato per tempistica. Frutto di una implosione a catena le cui cause sono riconducibili alla campagna a tenaglia di Israele e Ankara, e in parte al coinvolgimento degli USA, con un ruolo costante della CIA e delle monarchie del Golfo. Ma tale successo è strettamente correlato alle criticità di manovra della Russia, impegnata in altri fronti. Al fatto che Hezbollah in Libano è sulla difensiva e nel mezzo ad una riorganizzazione di vertici e quadri intermedi. Che a Gaza Hamas è in una situazione persino peggiore e al momento non ha altro da sfruttare se non la trattativa sugli ostaggi. E che con la presa di Damasco è venuta meno la campata del ponte tra Teheran e Beirut. L’Iraq è invece un microcosmo di interessi sovrapposti, nel senso che gravita nella sfera iraniana ma persegue una larga autonomia di trattativa. E infine, l’unica “potenza”, gli Houthi in Yemen, piccola ma sin qui agguerrita e strutturata, che agita le acque in nome dell’alleanza sciita e della fratellanza alla lotta palestinese, sono poca roba per impensierire, ma non per provocare la reazione di Israele. Che il problema Houthi abbia raggiunto la saturazione è convinto il ministro della difesa Israel Katz: sono “gli ultimi rimasti in piedi”. Destino segnato: “Colpiremo duramente, distruggeremo le loro infrastrutture strategiche e decapiteremo la loro leadership – proprio come abbiamo fatto a Teheran, Gaza e Libano – faremo lo stesso a Hodeidah e Sana’a”. Dello stesso avviso Benny Gantz, ex capo di stato maggiore tornato tra i banchi dell’opposizione nella Knesset, che invita a capitalizzare le opportunità del momento: “Israele deve prendere di mira direttamente l’Iran”.

La repubblica islamica degli Ayatollah ha perso nella regione mediorientale attrattività e peso specifico, a favore di quello che oggi appare il vero attore incontrastato dello scacchiere, la Turchia del sultano Erdogan. Di fronte a questa oggettiva volubilità di prestigio, e influenze, la guida suprema sciita l’ayatollah Ali Khamenei continua a negare il fallimento: “La Repubblica islamica non ha una forza per procura. Lo Yemen combatte perché ha fede. Hezbollah lotta perché il potere della fede lo spinge sul campo. Hamas e la Jihad [islamica] si battono perché le loro convinzioni li costringono a farlo. Non agiscono come nostri delegati… Se un giorno decidessimo di agire non abbiamo bisogno di farlo tramite altri”. Molti analisti ritengono che un Iran così debole esternamente, e forse internamente, possa essere spinto a prendere la decisione di dotarsi in tempi brevi dell’arma atomica.

Dopo mesi di guerra in cui l’attenzione di Israele si era concentrata su due fronti distinti, quello della Striscia di Gaza e quello del sud del Libano, siamo lentamente rientrati in un contesto pre 7 ottobre, dove la minaccia a Israele è principalmente legata al potenziale sviluppo del programma nucleare iraniano. Non è il tempo di abbassare la guardia, e per mantenere alto il livello di sicurezza il parlamento israeliano ha esteso lo stato di emergenza anche al 2025. Quando ad incombere sarà la scadenza dell’accordo nucleare JCPOA, siglato sotto egida Obama un decennio fa, stracciato da Trump e congelato da Biden. Ma proprio il suo storico affossatore nonché prossimo inquilino della Casa Bianca apparentemente sembrerebbe disposto a sedersi al tavolino per discutere un nuovo accordo. Sempre che Netanyahu non si senta forte abbastanza da anticipare i tempi e affondare il colpo. L’alternativa assai plausibile è che il longevo premier israeliano mantenga la calma, in attesa dell’insediamento dell’amministrazione Trump. Per poi seguire l’evolversi degli eventi e decidere di conseguenza. Purtroppo, sul fatto che le decisioni e l’operato dell’Europa siano marginali nella vicenda siamo tutti d’accordo.