Israele e Palestina, racconti di morte e guerra

Israele è un paese che convive con l’anormalità, quella del conflitto perenne, del terrorismo, dell’occupazione e dell’odio. Eppure, nel 2023 è diventato il quarto luogo più felice al mondo dove vivere, almeno secondo la classifica del World Happiness delle Nazioni Unite. L’indice di felicità globale tuttavia non tiene conto di Sapir Livnat Green, la giovane ventiseienne ebrea israeliana che il 9 maggio ad un checkpoint vicino a Hebron ha deliberatamente deciso di farsi uccidere, facendosi sparare dai militari in un presunto suicidio orchestrato con lucida follia. Alle spalle aveva una vita complicata. Cresciuta in un contesto familiare segnato dalla malattia mentale della madre e dalla morte del padre. Un trascorso da senzatetto, ospedali e casa famiglia. Al termine del servizio militare gli era stata diagnosticata una seria forma di stress post traumatico. Problemi di depressione acutizzati con la scomparsa della migliore amica, causata da un’overdose di barbiturici. Livnat Green è andata incontro alla morte con premeditazione. Ha annunciato il gesto via social, con tanto di emoji di scrollata di spalle a chi gli chiedeva se intendeva farlo. Ha indossato comuni abiti da donna araba, coprendosi il volto con il velo, preso una pistola ad aria compressa e si è fatta un ultimo selfie. Poi ha raggiunto il posto di blocco e si è lanciata contro un soldato gridando “Allahu Akbar”. La tragedia di Livnat è un caso angosciante che fa riflettere. La modalità di azione che ha scelto per mettere fine alla propria vita è del tutto inusuale. In Israele nel 2019 ci hanno provato in quasi sette mila, uno ogni 1300 abitanti. Nel corso del 2022 i soldati israeliani che si sono tolti la vita sono aumentati rispetto all’anno precedente. “Abbandonati dallo stato e senza l’aiuto della famiglia”, hanno dichiarato i vertici dell’IDF nel presentare le statistiche. Qualche colpa ce l’ha chi governa (e la politica), chi non offre servizi di livello ai cittadini, a partire da quelli ai più bisognosi e deboli, chi non lavora per costruire un futuro migliore, di pace, tranquillità e benessere sostenibile. Livnat è vittima indiretta del conflitto. Lo sbaglio non è del soldato che ha premuto il grilletto, non è una questione di errore umano ma di agire come ti è stato impartito di fare, in quella determinata situazione. Una guerra, come scrivo da anni, che è logorante e assurda. Come si può vivere felici in un paese appeso al suono delle sirene che avvisano l’arrivo delle bombe? Andate a chiederlo ai cittadini di Sderot, che convivono con questo incubo quotidianamente. A chi invece non lo potete domandare sono Dania Adas, 19 anni, e la sorellina Iman, erano palestinesi di Gaza. La loro “sfortuna” è stata di avere come vicino di casa un leader della jihad islamica, che un missile israeliano teleguidato ha fatto saltare in aria. Dania si era appena fidanzata e stava facendo i preparativi per il matrimonio. Raccontano che pochi istanti prima di essere sepolta dai detriti era raggiante al telefono. Come si può vivere serenamente in una striscia di terra succube di una dittatura fondamentalista e in guerra con Israele? A Gaza tornerà la calma, ci sarà una nuova tregua che non durerà, e il disco rotto della violenza riprenderà a suonare. È il fil rouge dell’infelicità di due popoli, troppo distanti per essere vicini. Ma non per morire insieme.

Enrico Catassi

IL SULTANO E LA SFIDA DELLE URNE

È quanto mai incerto l’esito delle prossime elezioni parlamentari e presidenziali in Turchia. Occhi puntati su cosa accadrà il 14 maggio. Manca veramente poco all’apertura delle urne e la partita elettorale è entrata nel vivo. La sfida tra Erdoğan e il leader del Partito Repubblicano del Popolo (CHP) Kemal Kılıçdaroğlu è aperta, lo scarto tra i due, secondo gli ultimi sondaggi, è minimo.
Molto potrebbe dipendere da due fattori, a chi andranno le preferenze dei giovani e per chi voteranno i curdi (circa il 20% della popolazione). Se i secondi da tempo non rappresentano una base di consenso da cui pesca il presidente, i primi invece sembrano fluidi nell’indicazione di voto. Comunque vada, per la prima volta le opposizioni hanno mostrato di avere una concreta possibilità di sconfiggere il Sultano di Istanbul e destabilizzare la sua immagine da eterno vincitore. Per l’opposizione l’aver sottoscritto un accordo di larghe intese e scelto quale candidato Kilicdaroglu, soprannominato il “Gandhi turco”, si è dimostrata una mossa competitiva, che ha mandato in tilt la macchina della propaganda di Erdoğan.
Il ventennio di potere ininterrotto, da parte del partito AKP e del suo padre padrone, rischia di essere al tramonto. Nessuna ombra di dubbio sul fatto che queste elezioni siano oramai un vero e proprio referendum nei confronti dell’attuale presidente. L’uomo forte del Bosforo è oggi probabilmente al livello più basso di popolarità. Disamore e disincanto da parte di una larga fetta del suo popolo, che gli rimprovera di non aver saputo affrontare la crisi economica e finanziaria, in cui è precipitato il paese nel 2018. E da cui non riesce a risollevarsi. In aggiunta alla lentezza nella gestione degli aiuti del recente tragico sisma, che a febbraio ha colpito Turchia e la vicina Siria, oggetto di diffuse critiche. Che hanno costretto sempre di più Erdoğan a rincorrere l’avversario nei sondaggi di gradimento, che lo danno in leggero svantaggio.
L’essersi buttato a capofitto nella campagna elettorale gli ha comportato un notevole stress. Il malore in diretta televisiva, seppure le immagini sono state tagliate dalla regia, hanno scatenato notizie sulle sue condizioni di salute. Convincendo il longevo politico turco a prendersi una breve pausa, prima di tornare in pista nel cruciale rush finale, al suono di allettanti promesse. Per farsi rieleggere punta tutto su: costruzione di 650.000 nuove case nella zona colpita del terremoto; sfruttamento del gas nel Mar Nero e transizione al nucleare con la centrale appena inaugurata; lotta all’inflazione e al terrorismo.
Con queste elezioni la Turchia è chiamata a decidere il suo futuro di potenza internazionale: partner di Bruxelles o tormento dell’Europa? Chi domani prenderà alloggio nel palazzo presidenziale di Ankara avrà il compito di chiarire definitivamente quale posizione tenere nella guerra ucraina. Il ruolo di mediazione diplomatica tra Kiev e Mosca fino ad oggi non ha prodotto molto. Se non un rafforzamento delle relazioni tra Russia, Turchia e Iran.