CONTENERE L’INCONTENIBILE

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu fa orecchie da mercante al richiamo di Joe Biden e non ferma la rappresaglia su Gaza. Seconda settimana di guerra. Respinto l’appello al cessate il fuoco del successore di Trump, apparso tardivo nella tempistica. Puntuale invece la consuetudine della Casa Bianca nel calare sul tavolo internazionale il diritto di veto a risoluzioni marcatamente anti-israeliane. In una guerra regionale intrappolata nella spirale di ideologie disfunzionali, dove si mescolano dottrine rigide, farcite di nazionalismo, fondamentalismo ed antisionismo. Di cui è impregnata la propaganda di Erdogan, autoproclamatosi difensore dei palestinesi per evidente tornaconto personale: risalire di popolarità e difendere Hamas. Che di alleati nello scacchiere ne conta parecchi. A partire dal legame di appartenenza alla famiglia della “Fratellanza musulmana”, di cui Hamas stessa è figlia. Rete che permette rapporti politici stretti con la Turchia ed aiuti economici dal Qatar, che offre anche asilo sicuro ai suoi vertici. Chi cerca maggior spazio operativo nella Striscia è l’Iran, che fornisce al regime di Gaza e ai jihadisti tecnologia militare, in cambio vorrebbe imporre strategia e obiettivi da colpire. In Libano Hezbollah ha messo mano alle armi, infiammando il confine con Israele. Il patto tra il partito di Dio di Nasrallah e il movimento terroristico fondato dallo sceicco Yassin è saldato nel nome della umma musulmana, sintesi della congiuntura tra sunniti palestinesi e sciiti libanesi. Improntato alla moderazione l’approccio della Giordania, non basta un drone abbattuto sui cieli israeliani a far precipitare le ottime relazioni. Re Abdullah, volente o dolente, il piede dentro la questione israelo-palestinese deve tenerlo ben piantato. Non fosse altro perchè i palestinesi sono la maggioranza della popolazione del Regno. E la famiglia hascemita degli Hussein ha la custodia a Gerusalemme della Spianata delle Moschee. Generalmente, la corte anglofona di Amman non va oltre le proteste formali, mantenendo una stretta “cooperazione” col Mossad. Infine, l’Egitto che nella crisi di Gaza ha la funzione del mediatore certificato, a negoziare il cessate il fuoco sono le sue delegazioni. L’indirizzo diplomatico egiziano è improntato ad arginare influenze ostili, turche e iraniane, e promuovere il rafforzamento del blocco all’ombra degli Accordi di Abramo: monarchie del Golfo + Israele. Sulle sponde del Nilo prevale ancora la convinzione che un equilibrio tra palestinesi (riconciliati) ed israeliani possa essere trovato più facilmente responsabilizzando il “realista” Netanyahu ed accelerando il passaggio di potere da Abu Mazen a Mohammed Dahlan. Riuscire a far incastrare contemporaneamente questi due tetramini è però al momento assai complicato. Biden, al contrario, probabilmente preferirebbe non avere Netanyahu e mantenere Abu Mazen come interlocutore, ma dovrà attendere, il falco della destra è saldamente al comando delle operazioni e non pare intenzionato a cedere il posto.

RAZZI E MISSILI, GUERRA TRA GAZA E ISRAELE

Si incendia il conflitto israelo-palestinese. Il prologo pochi giorni fa a Gerusalemme. Quando alla Porta di Damasco scoppia la protesta dei gerosolimitani palestinesi per le limitazioni imposte dalle autorità israeliane durante il Ramadan, e poi revocate. Notti di scontri tra polizia e giovani palestinesi.
Arresti e feriti. L’aggressione, virale, di un ragazzo palestinese ad un religioso ebreo sulla metropolitana; gruppi di israeliani di estrema destra che scendono in strada al grido di morte agli arabi; bande di palestinesi che assalgono a sassate civili inermi.
Disordini che si propagano, ed infine investono la Spianata delle Moschee, simbolo sacro all’islam. E a quel punto tutto assume un altro significato. Le rimostranze della Giordania. La condanna della Lega araba. La comunità internazionale che invita alla calma. L’intensificarsi delle violenze nelle ultime ore cade in un momento cruciale per la politica israeliana.
Il duo Lapid-Bennett, il primo alla guida del partito di centro Yesh Atid, il secondo leader dei coloni con Yamina, il partito della destra nazional religiosa, appoggiato alla Knesset da un raggruppamento ampio e disomogeneo, e con l’incredibile partecipazione del partito islamista Ra’am, aveva appena annunciato di aver trovato, dopo due anni e quattro elezioni, la quadratura per uscire dallo stallo, formare un nuovo governo e mettere alla porta definitivamente Netanyahu.
Gli eventi hanno ribaltato la situazione a favore di un leader messo si politicamente all’angolo, ma che sul piano militare sa come e quando usare la forza. A sua eterna difesa Netanyahu potrà sempre dire che non è la prima volta che in quella porzione del mondo scoppia la guerra, fregiandosi di essere ancora il miglior vaccino sul mercato nella lotta al virus palestinese.
Insomma, nulla di nuovo in Medioriente. Per un conflitto che si alimenta di dispute quotidiane, per la terra, l’acqua e il diritto alla casa. Nel quartiere di Sheikh Jarrah, sempre a Gerusalemme, alcune famiglie palestinesi hanno ricevuto lo sfratto dalle loro abitazioni, edificate su terreno che legalmente non gli appartiene. Anche se in quelle case si erano lecitamente stabilite decenni prima.
Quella che potrebbe sembrare una pura controversia immobiliare assume invece aspetti non prettamente giuridici, ma di ordine politico e sociale. Ad esempio la gentrificazione dei quartieri arabi, che i palestinesi accusano essere una strategia di colonizzazione etnografica, mentre Israele motiva sulla base dell’imprescindibile indivisibilità di Gerusalemme.
Per legge lo Stato fondato da Ben Gurion riconosce nell’abbandono, “l’assenza”, la modalità di perdita di diritto di proprietà. Normativa che ha permesso a migliaia di israeliani di appropriarsi tacitamente di quanto i palestinesi lasciarono durante la prima guerra arabo-israeliana e in quella vent’anni dopo del ’67. Dramma di profughi pari a quello degli ebrei scacciati dagli Stati arabi negli stessi anni. E mai risarciti.

L’ARMENIA, IL NEMICO TURCO E L’AMICO AMERICANO

Armeni e Turchia ancora divisi da una guerra e dalla storia. Ferite lontane dall’essere ricucite se prima non si mette da parte l’ottusità, per l’indifendibile. Il castello di sabbia del negazionismo turco sul genocidio armeno, che per oltre un secolo ha imperversato, incomincia a franare, ormai messo sotto accusa da più lati. Le ripetute stoccate di papa Francesco, rasoiate diplomatiche al vetriolo, sono culminate con la lezione di moralità del richiamo al “grido soffocato dei cristiani”, non gradita da Erdogan.
Cade il velo della propaganda di stato, smentita dalla ricostruzione storica dell’intellettuale Taner Akçam, perseguitato in patria e rifugiato negli Stati Uniti, i cui studi portano alla luce particolari inediti, oggi di dominio pubblico. Prezioso e coraggioso lavoro alla scoperta dei veri colpevoli, prove del diretto coinvolgimento dei vertici al potere: messaggi del gran visir Talat Pasha – riconosciuto architetto del Metz Yeghern, il Grande Crimine – in cui ordina di massacrare. Telegrammi, che ovviamente Ankara bolla non autentici, dove ai funzionari delle province viene intimato di procedere allo sterminio di massa, in cambio della promessa di un rapido avanzamento di carriera: “Nessuno deve essere risparmiato, nemmeno i bambini nella culla”.
Appelli ai fanatici perchè sollevino la folla, spingendola al saccheggio. Testimonianze inequivocabili della premeditazione, fredda e organizzata, nell’eliminazione di circa 1,5 milioni di armeni. Mentre, a rompere il tabù internazionale sulla parola genocidio è stato il presidente Usa Joe Biden. Non è la prima volta che la Casa Bianca esprime un giudizio critico nei confronti della Turchia per quei fatti drammatici. Ma mai nessun presidente si era spinto a tanto. Nel 2008 Obama si impegnava pubblicamente a riconoscere l’olocausto armeno. Non lo fece. A prevalere allora fu invece la logica della realpolitik. Ad imporsi furono le ragioni espresse dal Dipartimento di Stato, che riteneva strategico il ruolo della Turchia, nel Medioriente e nella lotta all’Isis. Obama passò la mano e la questione venne “insabbiata” nel tempo, lasciando ad altri il gravoso compito di dire la verità su quegli eventi.
C’è voluto Biden a riaprire il fascicolo. La sua decisione sarà molto utile, anche sul piano giudiziario visto permetterà ai familiari delle vittime di chiedere risarcimenti. E adottando il termine genocidio non ha solo espresso un giudizio, ha ricambiato il favore agli elettori della lobby della diaspora armena che lo hanno votato, e allo stesso tempo presenta la candidatura a sostituire Putin quale protettore della cristianità nella crisi in Nagorno Karabakh, tra azeri (“fratello” che la Turchia sostiene con ogni mezzo militare) e armeni (“culturalmente” con un forte ascendente su Mosca). Il messaggio di Washington è un chiaro segnale di stanchezza nei confronti degli atteggiamenti di Erdogan, che avrebbe passato il limite acconsentito. Joe Biden sposa pienamente la linea espressa da Mario Draghi sul “dittatore necessario”. E pone così limiti invalicabili.