Nell’autunno del 1991 i tre giorni di colloqui diplomatici di Madrid avviarono ufficialmente i negoziati israelo-palestinesi, rendendo possibile che si arrivasse poco tempo dopo agli accordi di Oslo. La “pace di Oslo”, due popoli per due stati, era però concepita come un’intesa transitoria. E i successivi tentativi del presidente Clinton di dare concretezza a questa cornice si dimostreranno un buco nell’acqua, tra protocolli e memorandum aleatori. Gli sforzi dell’amministrazione democratica furono focalizzati ad aspetti quali la piena sovranità palestinese su alcune aree di Gerusalemme est, parte araba della città; la creazione dello stato di Palestina con il controllo del 100% della Striscia di Gaza e circa il 95% della Cisgiordania, per il restante 5% Israele avrebbe dovuto compensare trasferendo in cambio suoi territori ai palestinesi. La condizione era che con la fine del conflitto nessuna delle due parti avrebbe potuto avanzare altre richieste. Nel 2000 il primo ministro israeliano il laburista Ehud Barak era disponibile ad accettare il piano di Clinton, il leader palestinese Yasser Arafat si dimostrò irremovibile. Dopo il fallimento di Camp David, l’ascesa di Sharon da un lato e Hamas dall’altro, l’acutizzarsi della Seconda Intifada, crearono le condizioni per il congelamento del processo di pace. Con l’insediamento di Bush junior alla Casa Bianca prende strada l’idea della “road map”, formulata a partire dal 2002 e culminata alla Conferenza di Annapolis del 2007 con l’incontro tra Olmert e Abu Mazen, prima del ritorno al potere di Netanyahu. Anche questa volta si sceglie di progredire per fasi: l’immediata cessazione del terrorismo di matrice palestinese; l’avvio di una serie di riforme; lo smantellamento degli insediamenti israeliani costruiti dopo il 2001. Poi la nascita di uno stato palestinese indipendente. E infine la soluzione allo status di Gerusalemme. Una tabella di marcia che non sarà mai implementata ma unilateralmente imposta da Trump a partire dall’ultimo punto. Non rinnegata invece da Obama, che fu costretto ad alzare bandiera bianca e riconoscere affossato ogni possibile negoziato. Rispetto al passato le novità “dell’accordo del secolo” lanciato dal presidente statunitense sono sostanzialmente sei: confini tracciati che non collimano assolutamente con la linea verde del ’67 internazionalmente riconosciuta; la smilitarizzazione di Gaza; il coinvolgimento diretto dei Paesi del Golfo; la luce verde immediata alle annessioni di porzioni di terra della Palestina ad Israele; Gerusalemme capitale indivisibile dello stato di Israele e il rifiuto palestinese di sedersi al tavolo. Per i vertici dell’Autorità Nazionale palestinese l’evento di Washington è una farsa orchestrata da una “cospirazione”. La proposta di Trump al contrario piace a Netanyahu, fervente oppositore di Oslo, che incassa l’ennesimo endorsement del potente amico alla vigilia del voto di marzo per il rinnovo della Knesset. Credibile, o meno, questa è la dottrina geopolitica di Trump in Medioriente. Pacifista? Non proprio.
Archivi del mese: gennaio 2020
SALVINI A ROMA, BIBI A GERUSALEMME
Nel dicembre 2018 l’allora ministro degli Interni Salvini si recava in visita ufficiale in Israele. Di quel viaggio poco “diplomatico” ma molto “politico” sono cronaca due episodi: il breve incontro con il primo ministro Netanyahu e il mancato ricevimento del presidente Rivlin, giustificatosi con la scusa dello stretto programma dell’agenda presidenziale. Non fece notizia la protesta inscenata da attivisti di sinistra israeliani mentre Salvini si trovava allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme. Qualche motivo di tensione invece lo crearono le foto scattate dalle alture del Golan, illegalmente occupato per la Comunità internazionale ma riconosciuto da Trump, mentre ispezionava una postazione militare israeliana. Binocolo e selfie a poca distanza dalle vicine truppe d’interposizione della missione italiana in Libano. Ovviamente Salvini, che non era il reggente della politica estera, non si sbilanciò in dichiarazioni troppo forti. Allora evitò di entrare nella questione, complessa, di Gerusalemme e di un conflitto apparentemente irrisolvibile tra palestinesi ed israeliani. Dimostrò, tuttavia, una propensione filo-israeliana, che ha confermato in queste ore quando in un’intervista al giornale Israel Ha-Yom, ha affermato, senza più indugi, che riconoscerà Gerusalemme capitale d’Israele, appena diventerà premier. Un’atteggiamento chiaramente riconducibile all’alleanza stretta con l’inossidabile primo ministro e leader del Likud, Benjamin Netanyahu. Statista ed ormai punto di riferimento del sovranismo. Un falco della politica ed un abile populista. Ma sopratutto un fine diplomatico capace di ottenere dall’amico Trump l’impossibile, due riconoscimenti di sovranità su territori contesi da anni, appunto il Golan e Gerusalemme, quale capitale dello stato. Scatenando la reazione internazionale, ma scardinando di fatto le fondamenta dello status della città e disegnando una nuova mappa geografica della regione.
“Quando gli accordi sono difficili, prevale sempre la pratica delle scelte non negoziate: la quale peraltro si basa purtroppo sulla forza e sull’unilateralismo del più forte”. Scrive il professor Cardini in un bellissimo saggio dedicato alla “Santa”. Una città che racchiude unicità e criticità, e il cui futuro, come il suo passato, dipendono dalle profonde dinamiche che ruotano intorno a ideologie e religioni. Che come ci ricordò in un colloquio il Patriarca latino Pizzaballa “in Terra Santa politica e religione sono come benzina e fuoco”. Un luogo dove errori si sommano ad errori. Dove lo spirito di pace è sopraffatto dalla doppiezza degli estremismi e del fanatismo; dall’ambiguità dei palestinesi sul riconoscimento di Israele. E quella del mancato rispetto delle, tante, risoluzioni dell’ONU. Gerusalemme è una città che tende a deformare tanto la realtà quanto l’immagine che riflette, difficile da conoscere, da interpretare. Un libro aperto da cui superficialmente si tende a prendere, non a caso, solo le pagine che fanno più comodo al proprio tornaconto. Abraham Yehoshua in un lunga intervista rilasciata a Wlodek Goldkorn disse che con la fine della prima guerra arabo-israeliana: “la Gerusalemme araba era diventata per gli israeliani la faccia nascosta della Luna, e così la parte ebraica per gli arabi”. Quella frattura oggi non si è ancora ricomposta.
VIGILIA DI GUERRA PERSICA
La morte di Qassem Soleimani infuoca il Golfo e tutto il Medioriente. L’assassinio a Baghdad, autorizzato dal presidente Trump, del generale pasdaran è l’alba di un conflitto aperto tra gli Usa e l’Iran. È presto per parlare di operazioni convenzionali o campagna di terra, tuttavia, sono queste le probabili evoluzioni di questa escalation senza precedenti tra i due Stati. Con il rischio del coinvolgimento di altri attori. In Israele, che non ha mai nascosto di avere tra i suoi piani l’eliminazione del capo della Brigata Gerusalemme, è scattata l’allerta sicurezza. Ora si guarda con attenzione e apprensione ai vicini teatri dove Soleimani ha ramificato una rete di guerriglieri e fanatici terroristi: Libano, Siria e Gaza. Opposto il caso della Turchia, c’è la quasi certezza della neutralità del sultano Erdogan, l’affidabilità della base logistica statunitense sul Bosforo è alla prova. Ankara si troverà definitivamente a scegliere se confermare il patto con la Nato o l’asse con Mosca e Teheran.
Soleimani è stato una figura chiave dell’espansione iraniana in Medioriente. L’influente ufficiale per anni ha lavorato nell’ombra organizzando milizie paramilitari e appoggiando azioni terroristiche nella regione. Figlio di poveri contadini, la sua ascesa al vertice delle guardie rivoluzionarie è voluta, e “benedetta”, personalmente dall’ayatollah Khomeyni. Ha rivestito un ruolo strategico nella repressione delle proteste interne e nel consolidamento della dittatura. Riservato, parlava poco e quando lo faceva aveva una voce tenue, ha rilasciato pochissime interviste ma la sua fama nel Paese era diffusa, godeva di grande popolarità, elevato ad una sorta di eroe nazionale. Una primula, scampato a diversi attentati, più volte dato per morto e poi “miracolosamente” ricomparso. Grazie ai suoi servigi diplomatici e alle mosse militari, l’Iran ha realizzato una “continuità” territoriale che sbocca nel Mediterraneo: un cordone di alleanze segnate da una lunga scia di sangue. Soleimani è l’artefice di questo piano geopolitico. Non è stato solo la lunga mano del regime iraniano all’estero, è l’architetto dell’attuale potenza bellica. Avversario dell’Arabia Saudita. Protettore nella Damasco di Assad, ha coperto e partecipato alle brutali violenze della guerra civile. Amico fraterno a Beirut di Nasrallah, offre armi e addestramento alle milizie sciite di Hezbollah. Ha ripetutamente “sollecitato” Israele sulle alture del Golan e condotto vittoriosamente la crociata contro l’Isis lungo l’Eufrate. Molto probabilmente aveva ordinato, sicuramente sostenuto, il recente assedio dell’ambasciata americana a Baghdad da parte di manifestanti sciiti. Provocando la fatale reazione della Casa Bianca. Con la morte di questa controversa personalità Teheran perde un brillante ed efficiente generale, il Medioriente invece vede uscire di scena un orchestratore astuto e pericoloso. Per taluni è un martire, per altri un ingiustificabile criminale assassino. La vendetta in suo nome è l’ultimo capitolo della sua storia, e purtroppo ce ne ricorderemo a lungo.