LA GUERRA DEL SULTANO AI CURDI

L’offensiva turca in Siria, dopo un primo cedimento delle forze curde, sembra essere entrata nel vivo di una guerra che potrebbe ben presto trasformarsi in un conflitto di logoramento. L’operazione “Ramoscello di Ulivo” lanciata da Erdogan contro l’enclave curda di Efrin incomincia ad incontrare le prime resistenze.
Ed è destinata, prima o poi, ad allargare il fronte ad altre aree, dentro e fuori la Siria. Gruppi di curdi iracheni si appresterebbero ad attraversare il confine per correre in aiuto dei fratelli di Efrin, come fatto a Kobane. La partita militare e geopolitica è appena iniziata. Usa, GB, Germania e Francia hanno fortemente criticato l’invasione turca. Altre volte le truppe di Ankara erano entrate in suolo siriano per punire la minaccia “terroristica”, senza innescare la reazione internazionale.
E tantomeno, le incursioni avevano provocato il malcontento di Assad, che in cambio di accordi economici vantaggiosi con i vicini cugini aveva tollerato ripetuti sconfinamenti. Nel nome di una amicizia, rafforzata dagli ottimi rapporti intercorsi per anni, tra il dittatore di Damasco e il Sultano di Istanbul: incrinata solo dall’espandersi della guerra civile e dall’implosione del regime.
Oggi, dopo la certificata sconfitta del Califfato, Assad controlla circa la metà del Paese, nella restante parte l’influenza curda è sicuramente quella più significativa. Spalleggiata, organizzata e aiutata, dagli americani. Ufficialmente la linea di Trump, espressa in queste ore da Tillerson, è che dopo l’Isis il vero nemico da fermare nella regione sia l’Iran. Il segretario di stato statunitense, in una recente dichiarazione rilasciata alla Stanford University, ha tratteggiato il disegno politico e strategico a stelle e strisce nell’area: mantenere una presenza militare sul campo e non destabilizzare le conquiste fatte dai curdi.
Si tratterebbe quindi di un approccio morbido nei confronti di tutti gli attori in campo, in particolare un credito alla Russia in termini di maggiore flessibilità sui tempi della riunificazione, o spartizione, della Siria. L’obiettivo finale dichiarato da Washington resta comunque la destituzione definitiva di Assad e la sua sostituzione con democratiche elezioni. Continuando in questa fase di transizione a supportare le forze curde stanziate ad Efrin, che appartengono alle Unità di protezione del popolo (Ypg), il braccio armato delle Forze democratiche siriane (Sdf).
Il Pentagono sarebbe impegnato ad allestire un esercito curdo di 30mila uomini. Una coltellata alla schiena per Erdogan, che è passato all’azione. Dopo essersi segretamente consultato con Russia e Iran, siglando un tacito accordo che avrebbe messo in secondo piano anche la politica di de-escalation militare di Mosca in Medioriente. Putin informato delle intenzioni di Erdogan avrebbe dato il semaforo verde all’operazione, ritirando prima dell’attacco i suoi osservatori schierati nella provincia di Efrin.
Inoltre, i comandi militari turchi, in queste ore, opererebbero in stretto contatto con i colleghi dell’ex armata sovietica, per evitare il ripetersi della crisi innescata nel novembre 2015 in seguito all’abbattimento di un caccia russo. Evento che portò il gelo tra i Palazzi di Ankara e quelli della Piazza Rossa, rallentando drasticamente i lavori di costruzione del Turkish Stream (il gasdotto che dal Mar Nero arriverà in Europa meridionale). Lo scenario rispetto ad allora è molto mutato, Erdogan e Putin hanno seppellito l’ascia di guerra ed i benefici del sodalizio sono andati proprio a Gazprom. Al momento, il colosso energetico russo valuterebbe la possibilità di cambiare l’approdo finale della tubatura, preferendo alla Grecia la Bulgaria. Decisione che chiamerebbe in causa sia l’Ue che, ovviamente, la Turchia.
Ed è da molti analisti ritenuto plausibile che sul tavolo del nulla osta all’operazione “Ramoscello di Ulivo” possa esserci finita anche questa nuova scelta geografica ed economica. La pace del gas tra lo Zar e il Sultano è pagata con il silenzio della questione curda.

L’OROLOGIO DELLA RIVOLTA TUNISINA

La Tunisia è a rischio di deragliare. La collera dei giovani per il carovita da giorni infiamma le piazze delle periferie, sprigionando violenza e saccheggi. E lo stato risponde con l’esercito per reprimere, e contenere, la protesta. La scintilla che ha fatto esplodere la rivolta è stata l’introduzione di una finanziaria di sangue e dolore: imposte alzate per i beni di prima necessità, dalla benzina ai generi alimentari. Austerità che colpisce anche telefoni e internet. E c’è chi pensa che l’unica alternativa è imbarcarsi per l’Italia.
Da quando è stata “romanticamente” rovesciata la dittatura sette anni fa, la Tunisia ha attraversato un periodo travagliato e drammatico con l’acutizzarsi del terrorismo. I progressi compiuti sul piano dei diritti, introdotti sull’onda del “successo” della Rivoluzione dei Gelsomini, si sono arenati, la fase di transizione non ha scardinato il nepotismo, il sistema di corruzione e l’apparato burocratico del vecchio regime ha mantenuto saldamente il controllo del potere. Mentre, il persistere della crisi economica che attanaglia le famiglie ha minato la fiducia nell’esecutivo di Youssef Chahed, la cui popolarità è ai minimi.
Disoccupazione intorno al 15%. Un terzo dei giovani non ha sbocchi di lavoro. Per coloro che hanno un posto il problema è il basso livello del salario, la media è 150€ al mese. Il quadro macroeconomico è altrettanto debole. Inflazione che supera il 5%. Il dinaro la valuta locale in picchiata. Crescita deludente, con il deficit commerciale che sfiora i 6 miliardi di dollari. L’industria del turismo, una volta il pilastro dell’economia del Paese, a causa degli attentati è a terra e non riesce a sollevarsi.
Usa, Francia, Italia insieme a molti altri stati europei e non hanno nel corso di questi anni messo a disposizione del governo di Tunisi piani d’assistenza considerevoli, con centinaia di milioni di dollari in crediti, vendita di armi, condivisione dell’intelligence e programmi di cooperazione in vari settori chiave. Azioni insufficienti a curare una situazione endemica.
Un anno dopo la fine della dittatura di Ben Ali i sondaggi indicavano che il 70% della popolazione avrebbe preferito una democrazia ancora instabile e imperfetta piuttosto che un governo autoritario. Gli ultimi rilevamenti ribaltano completamente l’opinione della gente, la maggioranza assoluta è oggi convinta che la democrazia è un lusso che non vale la candela: più pane meno libertà, lo slogan demoralizzante che accompagna il dissenso.
Un secolo prima dell’anno zero, il grande impero di Cartagine nel Maghreb era alla vigilia della sua caduta e distruzione per mano di Roma. Un crollo che minaccia di ripetersi dopo duemila anni, con l’attuale governo assediato non dalle legioni dei centurioni romani ma da: tassi di prestiti internazionali, terrorismo, crisi economica e disfunzione politica. Se la Tunisia, in collaborazione con la Comunità Internazionale, non riuscisse a trovare una soluzione – a frammentazione e disuguaglianze sociali – il primo effetto che ci dobbiamo aspettare è una ondata di rifugiati e migranti. La destabilizzazione della Tunisia provocherebbe di riflesso un vuoto anche nell’ideologia araba. Segnando la fine della credibilità del sogno di un possibile modello di democrazia esportabile nel Medioriente, dilaniato da interminabili conflitti e orrende guerre civili. Altro caos nelle sollecitate regioni della sponda meridionale del mar Mediterraneo andrebbe inoltre, ad alimentare il diffondersi della metastasi jihadista nelle aree più povere, dove cellule terroristiche trovano terreno fertile, protezione e base organizzativa.
Le elezioni legislative e presidenziali previste per l’anno prossimo sono cruciali per verificare l’assetto democratico. Arrivare a quella data fatale senza riforme salariali e sviluppo occupazionale, con l’esercito a presidiare le strade, non è il modo migliore per mostrare che nel mondo arabo la “primavera” può ancora fiorire.

TRUMP PROVA A COMPRARE I PALESTINESI

Trump e una nuova ossessione, i palestinesi. Ad infastidire il chiomato presidente della prima potenza mondiale sono pochi milioni di palestinesi, la maggior parte dei quali vive sotto occupazione israeliana o in campi profughi sparsi per il Medioriente. L’inquilino della Casa Bianca non ha digerito il rifiuto ad accettare la sua proposta per Gerusalemme capitale di Israele ed è passato alle minacce via tweet. Dimostrando di essere un capo di stato tutt’altro che banale e innocuo. È un prepotente che aspira a edificare un ordine geopolitico irrazionale perchè centrato su contrapposizione ed esclusione. Trump nel tentativo di convincere la riluttanza, e resistenza, palestinese a sottomettersi al suo programma, ha giocato la carta bieca del ricatto dei dollari. Scoprendo che la Palestina non è in vendita e non si piega servilmente a diktat.
Un recente studio della Banca Mondiale “profetizza” un boom record per l’economia palestinese nei prossimi dieci anni, con un tasso di crescita del 6%, stimando 50mila nuovi posti di lavoro nella Cisgiordania e 60mila a Gaza. A fronte di un’attuale percentuale di disoccupazione che oscilla intorno al 30, e raggiunge punte superiori al 40% in alcune aree della Striscia di Gaza. Nel rapporto della Banca Mondiale è evidenziato come il potenziale sviluppo economico andrebbe a colmare le odierne lacune: scarsi investimenti nella formazione professionale, assenza di un catasto, carenza di riforme fiscali, incapacità di uniformare la riscossione delle imposte, insufficiente qualità dei servizi al cittadino e un maestoso esercito di statali da razionalizzare. A medio termine il quadro della Palestina presenterebbe promettenti possibilità per una crescita sostenibile, naturalmente siamo nell’ambito delle ipotesi, lontani dalla realtà. Due fattori condizionano e determinano il futuro dei palestinesi: il conflitto israelopalestinese e gli aiuti internazionali. Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), negli ultimi 25 anni sono stati investiti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza oltre 35 miliardi di dollari in aiuti. Per una media di 560 dollari pro capite all’anno. Cifra che pone il popolo palestinese tra i primi beneficiari di fondi non militari al mondo. Washington nel 2016 avrebbe erogato 616 milioni dollari a Ramallah, circa la metà convogliati nel programma dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso ai rifugiati palestinesi (UNRWA). I principali stati mondiali impegnati nelle donazioni (ufficiali) ai palestinesi sono: USA, Unione Europea, Arabia Saudita, Norvegia, Germania e Gran Bretagna. È quindi evidente come l’eventuale blocco dei contributi americani avrà una pesante ricaduta, che induce a riflettere sul funzionamento del sistema di donazioni frutto dell’impalcatura degli accordi di Oslo del 1993 e giunto sino ai giorni nostri, un metodo fatto di enormi flussi di denaro che non è riuscito ad impedire lo sgretolamento del quadro politico che l’aveva generato. I miliardi riversati nelle casse dell’Autorità Nazionale Palestinese, e nei conti privati di Arafat, non hanno accelerato la nascita di uno stato indipendente e sovrano, al contrario hanno parallelamente finito per convivere con il paradigma dell’occupazione e dell’espansione delle colonie illegali israeliane. Producendo una distorsione nel progresso dei diritti dei palestinesi. Inducendo una sorta di dipendenza da donazioni internazionali, aiuti che non sono stati in grado di portare positivi cambiamenti al livello di vita palestinese, in taluni casi hanno persino aggravato la situazione di settori chiave: sanità pubblica, agricoltura ed export. In Palestina la solidarietà internazionale ha raggiunto dimensioni industriali, senza perseguire gli obiettivi strategici fissati. Un fallimento che però non può assolutamente giustificare l’approccio dell’amministrazione Trump, dove si teorizza il riconoscimento “giuridico” all’occupazione e la negazione di un popolo.

TRUMP E I SIONISMI

L’anno appena concluso ha visto Trump ordire la sua vendetta contro l’Onu, tagliandogli i fondi per aver boicottato e condannato la sua decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. Nella città Santa il 2018 si apre con il partito di destra del premier Netanyahu che spinge pubblicamente per annettere gli illegali insediamenti israeliani in Palestina. Il conflitto israelopalestinese è per sua natura alimentato da ideologie religiose e pretese politiche, e viceversa da pretese religiose e ideologie politiche, che inaspriscono la contrapposizione fomentando la violenza senza fine.
“Io continuo ad essere fiducioso nel raggiungimento di una pace basata sul principio due popoli – due Stati, sebbene la colonizzazione che Israele ha portato avanti negli ultimi decenni in Cisgiordania metta sempre più a rischio la possibilità che sorga uno Stato palestinese indipendente dotato di una minima contiguità territoriale. Proprio perché penso che questa sia la strada da perseguire, auspico un impegno forte della comunità internazionale in tal senso. Vista la posizione dell’amministrazione Trump, ripongo ovviamente le mie speranze nell’Unione Europea, a patto che Bruxelles abbia la consapevolezza che il tempo rimasto per la creazione di uno Stato palestinese degno di questo nome è molto poco e agisca con coerenza e rapidità”. A parlare è Arturo Marzano docente di Storia del Medio Oriente e Storia del conflitto arabo-israeliano all’università di Pisa, autore del volume Storia dei sionismi. Lo stato degli ebrei da Herzl a oggi (Carocci, 2017).
Professor Marzano quanto l’idea di Gerusalemme capitale è presente nel pensiero sionista?
“Da quando il movimento sionista, nel 1905, decise di scegliere la Palestina, allora parte dell’Impero Ottomano, come il luogo della realizzazione della propria rinascita nazionale, Gerusalemme ha avuto un ruolo centrale. Non è un caso che proprio a Gerusalemme sia stata fondata nel 1918 l’Università ebraica e che subito dopo la Guerra del 1948 Gerusalemme ovest – la parte orientale era passata sotto controllo giordano – sia stata scelta come capitale del neonato Stato. Con la Guerra dei Sei Giorni e la conseguente conquista della città vecchia – dove si trova il Muro occidentale (Kotel), il luogo più sacro per l’ebraismo – poi, Gerusalemme ha assunto un ruolo ancora più rilevante dal punto di vista identitario”.
L’annuncio di Trump ha scatenato il caos, perchè una mossa così avventata?
“Il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele è dovuto, da un lato, a fattori di politica interna – mobilitare ulteriormente i propri elettori riconducibili alla destra evangelica filo-israeliana – e, dall’altro, a elementi di politica internazionale, vale a dire segnare la discontinuità con la prevedente amministrazione Obama rispetto al processo di pace israelo-palestinese e riaccendere lo scontro con l’Iran con l’obiettivo di smantellare l’accordo sul nucleare”.
Il pacifismo israeliano è una realtà radicata nella società, la politica di Netanyahu è vincente da due decadi nelle urne: è questa la grande spaccatura di Israele?
“Sono tante le divisioni all’interno della complessa e multiforme società israeliana. A mio avviso, la più rilevante frattura è attualmente quella tra due visioni di Israele. Da un lato, quella che si identifica con l’espressione Medinat Israel (Stato di Israele), che considera fondamentale l’esistenza di uno Stato ebraico indipendentemente dai suoi confini ed è, dunque, disposta ad un compromesso territoriale con i palestinesi. Dall’altra, la visione che si identica con Eretz Israel (Terra di Israele) e che ritiene essenziale il mantenimento del controllo su Giudea e Samaria (cioè la Cisgiordania), occupate nel 1967. Mentre per la prima tendenza rinunciare ai Territori palestinesi occupati significherebbe il proseguimento del sogno sionista, per la seconda il ritiro da quei territori significherebbe al contrario la fine stessa del sionismo”.
Nazionalismo palestinese e nazionalismo israeliano troveranno mai un punto d’incontro o rappresenteranno l’eterna contrapposizione di due mondi, e due popoli, inconciliabili?
“Non userei espressioni come “eterna contrapposizione”. Nonostante il conflitto sia chiaramente la realtà prevalente, sono esistiti in passato ed esistono tuttora numerosi esempi di collaborazione tra israeliani e palestinesi. Le organizzazioni non governative congiunte come “Combattenti per la pace”, tra le tante, lo confermano”.
La contesa di Gerusalemme è un libro aperto, pagine drammatiche di un conflitto secolare, dove le strategie imperialiste britanniche in passato e la visione trumpiana oggi continuano a giocare un ruolo inopportuno.