Gerusalemme. Città Vecchia, città dentro la città, centro del mondo. Nel quartiere cristiano in tranquillità si stanno svolgendo le celebrazioni per la Passione, morte e resurrezione di Gesù, in quello ebraico si è conclusa la gioiosa festa del Purim e volge al termine lo Shabbat. Nel quartiere musulmano blitz e arresti. Le strette stradine che conducono al Santo Sepolcro accolgono turisti e fedeli di mezzo mondo. Non sono né eroi né crociati ma semplici viaggiatori, pellegrini che hanno l’opportunità di visitare uno dei luoghi “più magnetici, più problematici e più affascinanti al mondo”. Ma privo per “volere della storia” di armonia, pace e tranquillità. Contesa perennemente, Gerusalemme è il luogo dove tutti amici e nemici, nel bene e nel male, sono costretti ad incrociarsi, sporadicamente confrontandosi violentemente, spesso senza nemmeno guardarsi, altre volte relazionandosi amichevolmente, in una convivenza complicata ma non impossibile.
Nel Venerdì Santo la via Crucis con le 14 stazioni sparse lungo la via Dolorosa ha rappresentato il culmine delle celebrazioni, in una mescolanza di lingue, suoni, odori e colori. Preghiere e meditazioni guidate dal Custode di Terra Santa il francescano Pierbattista Pizzaballa. Il giorno precedente durante l’affollata processione del Giovedì Santo, che partita dalla chiesa di San Salvatore ha attraversato la porta di Sion fino al Cenacolo, il Custode di Terra Santa aveva ricordato come: “Lavare i piedi oggi significa ricordarsi dei poveri, degli ultimi. Ricordarsi che tutti siamo nati liberi e nessuno è schiavo”. Ma nelle “prigioni” di Gaza e della West Bank, sigillata in questi giorni di festa, la vita dei palestinesi è sempre più incerta. “Moderni schiavi” stretti nella morsa del regime di Hamas e dell’occupazione. Dove il rischio di una deriva generazionale, di una nuova “fabbrica” dell’ideologia fondamentalista di matrice Isis, è incombente. In queste ore quattro ventenni palestinesi di Gerusalemme Est sono stati accusati di appartenere ad un gruppo affiliato al Daesh, avrebbero tentato di recarsi in Turchia per poi unirsi alle milizie del Califfato. Nei quasi sei mesi di Intifada 2.0 hanno perso la vita 29 israeliani, 4 cittadini stranieri e quasi 200 palestinesi. Nell’omelia della messa alla Basilica della Redenzione il Patriarca di Gerusalemme Fouad Twal ha invitato i fedeli “a camminare con il Signore” per avere “più pace, più serenità”. E di pace in Terra Santa e nel mondo in questo particolare momento c’è un forte bisogno: “Il Medio Oriente senza i cristiani diventerebbe un altro Medio Oriente. Si trasformerebbe in un Medio Oriente di rovine, di pietre, di musei e non di pietre vive che danno testimonianza proprio nel luogo dove tutti gli eventi della salvezza si sono realizzati”. Sono le parole pronunciate dal Cardinale Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, al rituale della “Colletta per la Terra Santa”, la raccolta di offerte da devolvere alle congregazioni che, oltre alla custodia e mantenimento dei santuari, permettono di sostenere attività socio-educative in favore della popolazione in Terra Santa. In una regione così martoriata dalla violenza il concetto, non solo cristiano, di carità è una speranza. Iniziative umanitarie, piccole e grandi, che abbattono ponti, muri e fili spinati. Oltre 2 mila siriani hanno ricevuto, dal dicembre 2013 ad oggi, assistenza sanitaria in ospedali israeliani, molti sono donne e bambini. Dei 600 “nemici”, trattati nell’ospedale di Safed, l’80% presentava gravi traumi ortopedici. Grazie alle cure riportate e all’installazione di protesi la maggior parte dei degenti è in grado di camminare di nuovo. Gesti di carità umana che allietano questa Pasqua macchiata di sangue e sotto l’incubo del terrorismo.
Archivi del mese: marzo 2016
RESPONSABILITA’ O UMILIAZIONE?
“No all’indifferenza” non si stanca di ripetere Papa Francesco ai fedeli. Questa volta però le parole d’accusa pronunciate dal pontefice durante la Messa nella domenica delle Palme hanno come destinatari le istituzioni europee: “ penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati dei quali tanti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino”. Parole pronunciate a braccio che segnano uno scollamento tra la Santa Sede e l’Ue. Piazza San Pietro non è le stanze di Bruxelles e sul sagrato non si plaude al nuovo piano sui migranti, al contrario la Chiesa di Roma alza la voce, la protesta. Ci aveva già pensato il segretario di stato cardinale Parolin, visitando un campo profughi in Macedonia, a tuonare contro l’accordo Europa-Turchia: “dovremmo sentire umiliante dover chiudere le porte, quasi che il diritto umanitario, conquista faticosa della nostra Europa, non trovi più posto”.
Ragioni e implicazioni invitavano a valutare attentamente le richieste turche. Alla fine tra i 28 leaders europei ha prevalso la linea di Berlino anche sull’accelerazione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue. Pesanti critiche sono state espresse, in queste ore, da parte di molte Ong che invocano a gran voce maggiore solidarietà e rispetto dei diritti umani: ad alimentare il dibattito l’opzione stilisticamente “burocratica” di Bruxelles del baratto “uno per uno” e un piano che realisticamente deve essere messo alla prova. Così come l’affidabilità e la maturità della Turchia di Erdogan. Intanto dalla Grecia arriva la notizia di altri sbarchi e soprattutto che Atene non è assolutamente pronta a rinviare in Turchia i migranti. Partenza con il piede sbagliato che evidenzia, ad ora, l’impossibilità europea ad offrire una soluzione umanitaria all’emergenza.
In cinque anni di guerra civile la Siria ha originato una massa di rifugiati impressionante, oltre quattro milioni sparsi lungo tutto i confini dei paesi del Mediterraneo. Un flusso continuo che si è riversato, in gran parte, negli stati confinanti: Turchia, Libano e Giordania. Circa il 4% dei rifugiati siriani invece ha intrapreso il viaggio verso l’Europa. Molti sono oggi accampati nelle tendopoli dei campi profughi, il resto ha scelto le periferie delle città del Medioriente, da Amman a Beirut. Dove illegalmente e pagati poco trovano lavoro come bassa manovalanza nel settore manifatturiero, privati di assistenza e senza l’aiuto internazionale. Marginalizzati e sfruttati. In contesti socio-abitativi insostenibili. La richiesta più volte espressa dall’ONU di fare il possibile per integrare i rifugiati nella società turca, libanese e giordana non ha ottenuto esito favorevole. Respinta da parte dei tre governi che hanno obiettato forti resistenze, esprimendo un giudizio caustico: i rifugiati sono un elemento di pericolosità per essere assorbiti, in contesti particolarmente fragili alle turbolenze etniche. Secondo le ultime stime sono 60 milioni nel mondo gli sfollati, uno su sei è siriano. Tra loro una larga presenza di giovani, istruiti e con specifiche competenze tecniche, una generazione intera. Non una minaccia alla sicurezza internazionale ma un nuovo potenziale mercato del lavoro in grado di generare opportunità e positive ricadute economiche, come accadde per i migranti europei alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per l’Unione Europea la crisi di Damasco è un bruciante fallimento su tutti i fronti, dalla gestione dei rifugiati alla stabilizzazione della regione. Il volume di persone che il persistere ancora per anni della crisi siriana potenzialmente potrebbe “sparpagliare” fuori dai suoi confini, indirizzandoli verso il Vecchio Continente, è considerevole. Il “panico e la paura” di veder arrivare una marea umana hanno convinto gli stati europei ad approvare il pacchetto di misure fortemente voluto da Erdogan, nell’ottica che la Turchia possa tamponare l’esodo dei migranti. Peccato che potrebbe, invece, continuare a bombardare i curdi.
ALLA VIGILIA DI UNA GUERRA BARBARESCA
Il dibattito sull’intervento in Libia continua ad essere molto acceso, tra Stati pronti ad intervenire ed altri più prudenti. Caduta la speranza di un esecutivo di unità nazionale a guida Al Sarraj, per l’ostruzione del governo di salvezza di Tripoli, il ruolo che sarà chiamata a svolgere l’Italia sarà sicuramente di primo piano, sono molti i nostri interessi anche economici e troppo vicine le coste libiche per restare “indifferenti”. Ecco perché dobbiamo saper leggere e bene le parole che il presidente egiziano Al Sisi ha rilasciato in queste ore dalle pagine di La Repubblica: “Se le istituzioni vengono distrutte, per ricostruirle occorre molto tempo e sforzi significativi. Questa è l’origine delle nostre grandi paure riguardo alla Libia: più tardi agiamo, più rischi si generano. Dobbiamo agire in fretta e difendere la stabilità di tutti i paesi che non sono ancora caduti nel caos, per questo ci vuole una strategia globale che non riguardi solo la Libia ma affronti i problemi presenti in tutta la regione. Problemi che poi possono trasformarsi in minacce alla sicurezza pure in Europa.” Un messaggio al nostro paese ma sopratutto un monito alla strategia che vorrebbe mettere in campo il Pentagono: “è molto importante che ogni iniziativa italiana, europea o internazionale avvenga su richiesta libica e sotto il mandato delle Nazioni Unite e della Lega Araba”. In questo quadro geopolitico è opportuno ricordare quello che accadde nel 1803 quando, uno squadrone navale della marina degli Stati Uniti, al comando del Commodoro Edward Preble, prese il largo da Boston alla volta di Malta. Era la prima volta che vascelli militari americani portavano la guerra lontano dalle coste atlantiche, nel cuore del Mediterraneo. La missione, imposta dal presidente Thomas Jefferson, prevedeva una “punizione” all’arroganza degli stati barbareschi. Le ragioni del conflitto erano puramente economiche: l’America rifiutava di pagare il tributo per il passaggio delle merci ai locali pascià, come era uso fare. Per l’ex colonia il volume di affari con gli stati meridionali europei era andato incrementandosi negli anni, ma le navi mercantili battenti bandiera a stelle e strisce avevano perso la protezione britannica prima e poi quella francese, trovandosi inermi alle scorrerie dei pirati e con pesanti perdite negli investimenti. I nemici, in quel caso, non erano solo le navi della tirannica Londra ma anche quelle delle città di Algeri, Tripoli e Tunisi. Le tre signorie barbaresche nei cui porti ormeggiavano le potenti flotte corsare che imperversavano per il “Mare Nostrum”. La prima guerra tra i pirati musulmani e gli yankees protestanti proseguì a fasi alterne. Nel maggio del 1805 il conflitto ebbe un appendice sulla terra ferma con la conquista della città di Derna da parte di un manipolo di uomini del corpo dei marines, qualche centinaio di mercenari greci e alcune tribù della Cirenaica in rivolta contro il potere del pascià di Tripoli. Il piccolo e variegato esercito, compì una marcia epica attraversando il deserto del Sahara sino alle mura della città portuale libica. Quella fortunata campagna terrestre condizionò l’esito del conflitto, convincendo le autorità di Tripoli ad accettare un repentino cessate il fuoco. Oggi Derna è sotto il controllo dell’esercito del Califfato e la Libia è nel caos di una guerra civile senza fine, con scenari in continua evoluzione, sollecitati da interferenze internazionali (USA, Francia e GB) e regionali: Turchia, Egitto, Qatar, Algeria, Niger e Marocco, ciascuno con i propri interessi, completano lo scacchiere. La Libia in fondo è una invenzione geografica del colonialismo italiano, uno stato costituito da tre realtà molto, troppo, diverse e contrastanti per trovare un equilibrio duraturo: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan corrono su binari divergenti culturalmente, politicamente e anche militarmente. La nazione libica al momento non esiste più, per ricomporre la cartina smembrata di questo paese serve altro che una guerra barbaresca. Ci vuole prima di tutto una bandiera, quella dell’ONU. E poi tanta fortuna.
LO SCHIAFFO DI ERDOGAN
Nel vertice di Bruxelles l’Unione Europea e la Turchia hanno trovato un accordo generale, ma solo nei principi, sul piano per alleviare la crisi dei migranti. Forti perplessità sono state espresse dall’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), che ravvede violazioni al diritto internazionale, e la decisione finale è stata posticipata al 17 marzo a causa dei nuovi diktat presentati da Ankara. Il governo presieduto da Ahmet Davutoglu ha alzato l’asticella delle richieste, una prova di forza: costi per il rientro dei migranti irregolari in suolo turco a spese degli europei, per ogni siriano riammesso un’altro profugo smistato in un paese dell’Unione. Inoltre l’Europa dovrà erogare altri 3 miliardi oltre ai 3 stanziati per il fondo rifugiati. Libera circolazione per i cittadini turchi, sollevando l’obbligo di visto e accelerare i negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa. L’ultimo punto, uno schiaffo all’Europa, è il più difficile da digerire per le ripetute inadempienze sui diritti umani e la libertà di stampa. In ultimo il caso del giornale Zamana la cui linea editoriale è stata “ammorbidita” con l’uso della polizia. La Turchia, a lungo fedele alleato degli Stati Uniti e membro strategico della NATO, ha svolto un ruolo fondamentale e delicato nella difesa dell’Europa e del Medio Oriente sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Teatro del conflitto della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica ieri e della guerra civile siriana con l’ingerenza Russa oggi. Una potenza con carattere deterrente in grado di frenare qualsiasi mira espansionistica in Medioriente. La presenza della Turchia nella NATO è fondata su un principio di reciprocità: la Turchia mette a disposizione le strutture logistiche nel suo territorio, mentre il blocco degli alleati occidentali fornisce tecnologie e assistenza militare ed economica. Il patto di ferro è andato scricchiolando con l’aggravarsi dello scenario siriano e per l’impegno bellico di Ankara in Siria: attualmente l’esercito turco ha aperti due fronti di guerra. Ha trasformato le città curde nel sud-est della Turchia in zone militarizzate, nello sforzo di rimuovere i militanti indipendentisti curdi presenti in quella regione. E ha lanciato attacchi con intensivi bombardamenti contro le forze curde nel nord della Siria. La lotta all’eterno nemico curdo ha convinto Ankara ad intavolare segrete, nemmeno troppo, alleanze con gruppi fondamentalisti islamici. È di pochi giorni fa la pubblicazione di un documento ufficiale, la cui autenticità non è ancora stata tuttavia riscontrata, che dimostra il sostegno della Turchia al transito dei foreign fighter. Il ministero degli interni avrebbe fornito le disposizioni per l’appoggio logistico ai jihadisti ceceni e tunisini di Jabhat al-Nusra, da utilizzare in chiave anti curda in territorio siriano. La denuncia dei legami con l’Isis ha provocato in questi mesi non poche grane al governo turco che ha risposto alle critiche internazionali con censure alla stampa interna: il direttore Can Dundar e il caporedattore Erdem Gul del quotidiano Cumhuriyet sono sotto processo per aver pubblicato fotografie di convogli mentre trasportano, probabilmente, armi dalla Turchia ai jihadisti. I due giornalisti rischiano la pena dell’ergastolo. Nella “classifica” sulla libertà di stampa, stilata da reporter senza frontiere nel 2015 in 180 paesi, la Turchia è al 149° posto. Le organizzazioni non governative denunciano che più di 30 giornalisti sono attualmente detenuti in cella, giornalisti terroristi l’accusa. Nelle elezioni del 2002 molti analisti plaudirono alla pluralità partitica presente nello scenario turco, espressione, si pensava, di una transizione democratica. L’ascesa di Erdogan e del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo Islamico-conservatore (AKP) chiudeva il lungo periodo kemalista. L’AKP smantellò il sistema di controllo del potere dell’esercito, introducendo normative atte a ridimensionare l’influenza politica della gerarchia militare. Ebbene, quello che pareva un processo di democratizzazione e civiltà oggi merita attenta riflessione prima di tutto di quella Europa che deve decidere l’ingresso della Turchia nella sua Comunità.
IN LIBIA
Il rapimento in Libia dei quattro operai dell’impresa emiliana Bonatti, avvenuto sette mesi fa, si è concluso in meno di 24 ore con sorti diverse. Due operai sono vivi e liberi, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, sofferenti tornano in Italia con barbe lunghe e visi scavati dalla stanchezza. Due lavoratori, invece, hanno trovato la morte nella costa africana del Sahel, Salvatore Failla e Fausto Piano, uccisi in circostanze da chiarire, per loro le drawstring bags, sacchi dalla lunga cerniera nera accompagneranno il loro ultimo viaggio di rientro a casa. Due psicologicamente devastati, due sacrificati dalla guerra. Per le famiglie e gli amici di Salvatore e Fausto, per noi tutti, la fine tragica di una lunga speranza, mentre per i parenti degli altri due meccanici il risveglio da un incubo. Poi le emozioni passano e resta la realtà, il dramma e la storia. Una storia che, dolenti o nolenti, ci porta nel grande teatro di un mondo difficile: attraversato dalla violenza più brutale, sconvolto da ideologie perverse. E alle quali siamo chiamati a dare delle risposte nel nome della ragionevolezza e della prudenza, offrendo soluzioni che vadano oltre l’uso della forza. Non è con la guerra che si risolve una questione delicata come quella libica, ma nemmeno fregandosene e rinunciando a prendere dei rischi, in termini di vite umane, oramai ineludibili. Evitando, tuttavia, di commettere errori madornali, come fece il colonialismo. Allora, l’esperienza italiana in Libia rimase poco più di un abbozzo e la Seconda Guerra Mondiale rese giustizia all’occupazione, ai massacri dei civili. La conquista avvenne con una guerra contro la Turchia, correva l’anno 1911, ma il successivo controllo del territorio non fu una passeggiata e terminò negli anni ’30: un conto era occupare le città altro conquistare le zone interne. L’entroterra venne espugnato durante il fascismo che ne fece un obiettivo strategico del regime. La resistenza libica fu tenace ma poco articolata mentre, il carattere del colonialismo italiano fu particolarmente duro e repressivo. L’avventura italiana sulle coste del nord d’Africa si concluse definitivamente con l’espulsione dei nostri connazionali per mano di Gheddafi, quando prese il potere nel ’70. L’operazione ideologica e propagandistica del colonnello, interlocutore complesso ma storicamente affidabile per l’Italia, rifletteva e giocava sull’anti italianità, mito fondante della storia del nazionalismo libico. L’odio atavico e diffuso nei confronti dell’Italia è una costante della Libia contemporanea, un elemento da non sottovalutare in quel particolare scenario. La condizione minima per attivare un intervento militare è un coordinamento sul posto e la cooperazione con la controparte. Per non urtare la “sensibilità” del popolo libico e peggiorare la situazione. La crisi libica, seppur indotta o accelerata da forze esterne, nasce da una rivolta contro un governo che aveva perso il senso della realtà, imposto una casta di potere che non lasciava spazio ad un ricambio generazionale. Paradossalmente con la fine dell’embargo internazionale la cesura sociale si è manifestata sempre più apertamente e le antiche rivalità tra la regione occidentale della Tripolitania e quella orientale Cirenaica sono esplose nuovamente, originando l’anarchia tribale attuale. Frantumato il fragile equilibrio sociale costruito da Gheddafi si è aperta una fase di lotta di tutti contro tutti, dagli esiti ancora in parte imprevedibili e nefasti: Egitto, Turchia, Qatar, Emirati Arabi e Marocco rivestono un ruolo nello scacchiere libico appoggiando questo o quel Governo e dove anche l’Isis allarga la propria sfera d’azione e influenza. Dalle ceneri di questa guerra civile non è ancora sorta l’istituzione in grado di garantire ordine al caos imperante. E questo rimane il vero obiettivo a cui la comunità internazionale deve lavorare per stabilizzare la regione, arginare il terrorismo islamico e mettere in “sicurezza” gli investimenti e gli interessi economici di importanti aziende.Occorre un disegno politico chiaro per il futuro della Libia che contempli anche un piano economico, e non viceversa.